Il "muro bianco" del capitale.

tratto da "Il muro bianco del capitale.
Storie di respingimenti e di restrizioni, dagli scritti di Mike Davis"; di Marco Mirabile.


Nel suo decennale lavoro di ricerca lo storico americano Mike Davis ha ricostruito la storia dei “confini metropolitani” negli Stati Uniti, confini che hanno il preciso scopo di impedire ogni possibile contatto tra due mondi che vogliono restare separati, quello della cosiddetta maggioranza wasp (white anglo-saxon protestant) e le popolazioni di colore, latinos e neri. 
Qualcosa che salda espedienti urbanistici tipicamente moderni al muro di Berlino, con il ricorso a tutto un repertorio di muri, recinzioni, cul-de-sac, impasse, check-point che si inseriscono esattamente nei punti in cui la distinzione deve essere rafforzata: gli spazi pubblici, i parchi, le biblioteche, le piazze, i centri commerciali, e soprattutto i quartieri delle residenze monofamiliari. 
Se esistesse un filo rosso su cui riannodare il percorso dello studioso americano, questo consisterebbe nella capacità di restituire una vera e propria storia del presente urbano attraverso le diverse forme e i significati assunti dalla paura, il nesso circolare che salda allarme sociale e militarizzazione del territorio. 

La “grande muraglia” del capitale si snoda ben oltre i limiti urbani delle metropoli nordamericane: separa alcune dozzine di paesi ricchi dalla maggioranza povera della terra, e con i suoi dodicimila chilometri di confini terrestri cinge la metà del pianeta. 
Sono barriere parzialmente visibili dallo spazio, come i tradizionali bastioni nel confine tra Messico e Stati Uniti, dove i controlli sulle frontiere avvengono anche dal mare e dal cielo. 

Insomma, rispetto ai disperati che migrano alla ricerca di condizioni migliori, il “muro bianco” del capitale non è meno micidiale della vecchia cortina di ferro.
L’era di mobilità fisica e virtuale annunciata nel 1989 dopo il crollo del muro di Berlino non si è verificata in modo integrale: mentre imprese e finanza agiscono in una dimensione globale, nelle strade di mezzo mondo violenti particolarismi si affrontano con ogni tipo di arma, reale o simbolica. 

La risposta culturale a tutto questo oscilla tra la paranoia (“attenzione ai nuovi barbari”), e la frenetica reinvenzione di nazioni, identità, “etnie”, radici, con la relativa costruzione di “rassicuranti” confini fisici o virtuali. 
Si alzano muri per tenere alla larga i nuovi poveri senza fissa dimora, quei disperati che cercano lavoro dove possono trovarlo, magari a tremila miglia da casa. 
Non si tratta solo di muri veri e propri, come la barriera elettrificata che protegge il sud della California dagli immigrati latinoamericani, ma soprattutto giuridici, politici e culturali.
Lo scopo di questi muri non è più il controllo di un territorio specifico, ma la capacità di regolare e ribadire differenze provenienti dall’esterno, anche quando queste differenze risiedono da tempo dentro gli spazi che quel confine delimita.  

Il trauma delle identità perdute o incerte, 
che caratterizza come segno indelebile la lacerazione delle realtà sociali occidentali, 
produce un singolare effetto, simile al motivo di tante mitologie: lo smembramento e il successivo rito di ricomposizione dei frammenti della membra disperse. 

Con intensità diverse e difficilmente omologabili, le molte fratture parlano tuttavia dello stesso processo: il divenire della realtà urbana e sociale degli Stati Uniti come frutto di queste carni lacerate. 
La questione è ampiamente dimostrata, soprattutto nella questione dei migranti latinoamericani, dove emerge l’immagine del “confine” non come esperienza di viaggio verso il “benessere”, ma come luogo di morte. 
Questi confini, intesi come linee che 
istituiscono e riproducono differenze, letteralmente si moltiplicano. 
Da banale fattore geografico di demarcazione territoriale diventano barriere militarizzate, segni del doppio legame che salda militarizzazione e idea di “sicurezza”; come se la paura avesse bisogno di una rappresentazione per poter essere incoraggiata. 

La frontiera tra Messico e Stati Uniti è varcata ogni anno da cinquecentomila 
migranti, ed è diventata un luogo-simbolo per l’enorme quantità di latinoamericani 
caduti durante l’attraversamento. 
Oggi questo ingombrante confine tra ricchezza e povertà, tra sogno e bisogno, è tanto assente nell’immaginario della comunità internazionale quanto è stato presente, a suo tempo, il muro di Berlino. 
In certi punti della frontiera, per esempio vicino a San Diego, si presenta come un vero e proprio muro di cemento. 
Spesso si trasforma in una barriera di legno e metallo, con l’aggiunta di filo spinato o elettrificato. 
Nelle zone più desertiche e inospitali è una successione di barriere reali e barriere virtuali: tratti di confine sorvegliati da 
telecamere e sensori, a loro volta monitorati da guardie di frontiera. 

La retorica americana vuole gli Stati Uniti come "patria delle minoranze", dove l’opposizione tra maggioranza “bianca” e minoranze latine è insidiosamente intesa come vera e immutabile. 
In realtà la rivoluzione demografica e sociale degli ultimi anni ha dimostrato il contrario: "a Los Angeles i latinos sono già maggioranza assoluta della popolazione, e la lingua spagnola è diventata di gran lunga la più parlata"
Insomma, le trasformazioni hanno delineato un nuovo paesaggio culturale e sociale, sottratto alla rappresentazione statica che contrappone una cultura egemone ad altre culture minori, impermeabili e centripete. 
Queste trasformazioni descrivono prima di tutto un continuo, faticoso e incessante aggiramento di confini, quei rassicuranti confini ideologici e materiali di cui si sono dotati gli americani nel tentativo di salvaguardare i propri interessi economici e di alleviare le proprie antiche paure. 

Los Angeles: un caso di “razzismo residenziale” 

Prima di avviare un discorso storico sul “fenomeno Los Angeles”, e in particolare sul caso riguardante i quartieri monofamiliari nella prima metà del Novecento, Davis si preoccupa, non senza ironia, di definire tre aspetti importanti:
1) a Los Angeles i proprietari immobiliari tengono tantissimo ai loro valori patrimoniali;
2) “comunità” a Los Angeles vuol dire omogeneità di razza, di classe, ma soprattutto di quotazioni immobiliari (si tratta di una sorta di benefici concessi dai membri del consiglio comunale a gruppi di uomini d’affari che aspirano ad avere le loro aree differenziate); 
3) il “movimento sociale” più potente nel sud della California è ancora oggi quello dei ricchi proprietari immobiliari, associati da fittizie designazioni di comunità o nomi di zona, assunti a difesa delle quotazioni degli immobili e dell’elitarietà del vicinato.

Già da queste premesse Davis lascia intuire come la manipolazione locale da parte di gruppi di proprietari e cricche di affaristi in cerca di scappatoie, le "Homeowners’ Associations (HA)", sia all’origine dell’assurda forma a incastro dell’attuale topografia del sud della California e della conseguente segregazione razziale lungo la vasta area metropolitana. 
Le HA rappresentano il sindacato di un’importante fetta della middle-class, e sono figlie di queste prime severe normative: "sono proprietari immobiliari coalizzati in difesa di un interesse comune". 

Agli inizi del Novecento a Los Angeles il 
mercato immobiliare si specializzò nella creazione di ampie suddivisioni pianificate: insieme a un frazionamento elitario e a una severa normativa di suddivisione, gli atti di regolamentazione, o contratti regolamentati, miravano in modo sotterraneo all’omogeneità razziale e alla tutela del valore immobiliare dei quartieri. 
Le regolamentazioni private includevano articoli riguardanti, ad esempio, il costo minimo richiesto per la costruzione degli immobili e l’esclusione dalla loro occupazione di tutti i non-caucasici, eccetto che nelle vesti di domestici.

Durante la prima guerra mondiale gli atti di regolamentazione imposti dalle HA furono redatti col preciso scopo di delimitare il mondo borghese isolato del Westside di Los Angeles e, al tempo stesso, di creare un “muro bianco” intorno alla comunità nera di Central Avenue. 

Negli anni Venti le HA comparvero sulla scena politica come strumento della 
mobilitazione bianca contro i tentativi da parte dei neri di acquistare case al di fuori 
del ghetto: il margine sud di Central Avenue si scontrò con il “muro bianco” all’altezza del Santa Barbara Boulevard. 
Il 95% del capitale immobiliare della città fu reso di fatto inaccessibile ai latinos e agli asiatici. 
Ma i possidenti neri di Los Angeles non si sottomisero in modo docile all’idea di essere cacciati dalle proprie case e nel 1924 difesero con le armi le loro famiglie.

Negli anni Trenta il “muro bianco” arrivò fino al Vernon Boulevard: l’evoluzione 
industriale aveva modificato l’assetto del corridoio di Central Avenue, distruggendo centinaia di case di neri e provocando il sovraffollamento demografico. 
Ad ogni scorribanda nell’area residenziale esterna, gli acquirenti neri si scontravano con l’intolleranza dei possidenti bianchi. 
A volte succedeva perfino che i gruppi di protezione dei proprietari immobiliari venissero affiancati dal Ku Klux Klan.

Negli anni Quaranta il “muro bianco” arrivò fino a Slauson Boulevard: grazie alla 
complicità della Corte Suprema della California, che puntualmente trovava neri, nativi americani e latinos risiedere abusivamente in blocchi protetti da restrizioni, i proprietari bianchi avviarono più di cento processi contro acquirenti non bianchi, incluse celebrità di Hollywood come Louise Beavers e Hattie McDaniel; il "restrizionismo" di quegli anni fu soprattutto un affare lucroso. 

Durante la seconda guerra mondiale la scarsità di case inasprì il conflitto razziale.
Da sud-ovest si mossero diecimila operai di guerra neri, provocando tensioni all’interno del ristretto gruppo di abitazioni confinate nel ghetto di Los Angeles. 
Non appena i neri tentarono di saltare il “muro bianco” comprando rifugi nelle periferie suburbane e rurali, subito si scontrarono con una nuova ondata di ostilità da parte dei proprietari bianchi. 

Anche nell’immediato dopoguerra si innalzarono “muri bianchi”: le camere di 
commercio locali e le HA, appoggiate dalle imprese immobiliari, cercarono di impedire l’immigrazione nera in tutta la parte occidentale della San Fernando Valley, dove intanto i bianchi del Southside fuggivano alla ricerca di una nuova area suburbana da occupare. 

L’ingresso dei neri nel Westside continuò a essere fermato dalle potenti imprese immobiliari della classe media con l’imposizione di contratti blindati.  

Questa breve ricostruzione mette in evidenza il ruolo giocato dai proprietari immobiliari nell’antico problema della lotta separatista tra wasp, latinos e neri: gli atti di regolametazione e le restrizioni di blocchi hanno fornito ai ricchi proprietari bianchi validi motivi per organizzarsi intorno alla “protezione” delle loro paure, dei loro valori immobiliari e dei loro stili di vita. 
E l’evidente conseguenza va ricercata nel netto dislivello delle quotazioni immobiliari tra le zone di inclusione e le zone di esclusione, e nell’irreparabile disastro urbanistico che ha portato inevitabilmente a una “pseudo-pianificazione” e a sempre più ampie divisioni razziali e di reddito. 
Nelle ricerche di Davis il “muro bianco” del capitale appare quindi come storico presupposto sul quale si inserisce il destino dei latinos e dei neri, nello scenario di poche speranze degli Stati Uniti.


Commenti