Instabilità climatica e instabilità politica sono sempre connesse, per l’azione congiunta dei cambiamenti climatici e della lotta di classe.
tratto da "Crisi planetaria, crisi capitalistica: una crisi, due forme"; di Jason W. Moore.
La crisi attuale ha molte facce: è una crisi di produzione della vita, una crisi climatica, di estinzione di massa e di molte altre forme di trasformazione del sistema planetario.
Inoltre, si tratta di una crisi della capacità di accumulare profitti da parte del capitale e della fine della natura a buon mercato, che si rivela nel consumo completo di natura umana e non umana e dall’emergere di una nuova politica ontologica di giustizia climatica e sovranità alimentare.
Quello di cui c’è bisogno oggi è un’ecologia rivoluzionaria: non di un catastrofismo nichilista che predica la fine della vita sul pianeta, e nemmeno di una teorizzazione filo-tecnologica e antipolitica dell’Antropocene.
Il concetto chiave è quello di «cambiamento di stato», un completo e immediato cambiamento di stato.
Ora, gli studiosi del clima e i fisici usano questo termine «cambiamento (o passaggio) di stato» per descrivere un repentino mutamento che avviene al livello della biosfera.
Noi in questo momento storico stiamo vivendo un periodo di «cambiamento di stato» a livello biosferico: una transizione
da un’era geologica ad un’altra.
In questo caso, dall’Olocene all’Antropocene.
Per venire a patti con questo cambiamento di stato di ordine geologico abbiamo bisogno di un cambiamento di stato intellettuale, una transizione dal dualismo cartesiano a una visione relazionale della geografia e della storia in senso olistico.
Ma abbiamo anche bisogno di un cambiamento di stato politico, dell’immaginario politico, che comprenda il divenire umano come un movimento rivoluzionario per tutte le forme di vita.
Nelle parole di Thomas Müntzer, «anche la creatura deve diventar libera».
Ci sono due forme dell’Antropocene: da un lato l’Antropocene come fenomeno geologico, che ha a che fare con i segni geologici impressi dall’attività umana nella litosfera e nella biosfera.
I resti del mondo moderno, che magari
verranno ritrovati tra qualche millennio dagli archeologici, saranno ossa di pollo, plastiche negli oceani, e l’impronta radioattiva lasciata dai test atomici.
Questo Antropocene come era geologica non costituisce un problema; il problema
è il secondo Antropocene, quello pop e alla moda, che porta avanti questo discorso: «Noi abbiamo provocato questa crisi globale».
E con questo «noi» si intende l’umanità intera.
In questa prospettiva, «cambiamento climatico» significa «cambiamento climatico originato dagli esseri umani».
In realtà, questo è un vecchio inganno del capitalismo: l’uno per cento crea il problema per poi dire al rimanente novantanove per cento: «la colpa è vostra».
Gettare la responsabilità del cambiamento climatico su tutta l’umanità è una forma di pensiero magico; questo modo di ragionare è in totale sintonia con la credenza che razza, classe, e genere siano elementi secondari in questo processo, e non parte dello stesso.
Chi ha provocato i cambiamenti climatici per l’Antropocene Spaceship Earth?
«Noi tutti».
In quest’ottica semplicistica e che annulla ogni differenza, tutta la popolazione umana dovrebbe collaborare armoniosamente nel mantenimento del sistema planetario e alla sua cura dai mali dell’Antropocene, come fosse davvero un bene comune perché «siamo tutti sulla stessa barca».
Non ci sono passeggeri su questa navicella spaziale che è la terra dell’Antropocene pop; siamo tutti membri dell’equipaggio, siamo tutti uguali.
Beh, non proprio.
L’Antropocene ci dice che i nostri consumi sono il problema, quando in realtà più del 70% della popolazione mondiale vive con meno di 10 dollari al giorno.
Partendo da questa considerazione, possiamo vedere che non siamo tutti a bordo della stessa navicella, con lo stesso ruolo e le stesse responsabilità, ma siamo piuttosto a bordo di una nave di schiavi, dove pochi decidono e stanno al sicuro in cabina, mentre tutti gli altri remano fino allo sfinimento e rischiano ogni giorno di morire, in questo viaggio a cui sono stati costretti a partecipare.
Il cambiamento climatico è quindi un processo antropogenico?
No, è un processo capitalogenico, creato dal capitalismo e dal capitale.
In questa prospettiva, l’umanità diventa
un’astrazione reale, uno strumento pratico di razzismo, colonialismo, e imperialismo, in cui i nativi dei territori colonizzati non sono considerati nemmeno esseri umani, ma parte della «natura».
L’Antropocene pop, alla moda, riproduce, supporta, e riafferma un grande mito fondante dell’epoca moderna, quello
dell’industrialismo.
E qui trova la base il secondo argomento insito nel discorso egemonico perpetrato dall’Antropocene alla moda, quello secondo cui sono stati solo il carbone e la macchina a vapore a dare origine alla crisi ecologica contemporanea.
In realtà, le cose sono ben più complesse e intrecciate tra di loro.
La teoria del capitalismo come
ecologia-mondo ci dice che il capitalismo e l’imperialismo coloniale hanno creato l’ecologia-mondo, ma anche che questa ecologia-mondo ha influenzato il capitalismo coloniale nelle sue componenti di potere, produzione e riproduzione all’interno della rete della vita.
È una visione dialettica della produzione di nature, che ci permette di comprendere
che il capitalismo e gli imperi non solo si sono appropriati della natura e la hanno re-inventata nel tempo, ma anche che l’ambiente, le varie forme di natura in cui questi processi avvengono e si dispiegano, re-inventano ed influenzano a loro volta il capitale e gli imperi.
Il Capitalocene implica una forma di apartheid planetario che è cominciato nel 1492; l’apartheid climatico ha una storia molto lunga alle spalle.
Parlare di Capitalocene significa anche parlare di una forma di patriarcato planetario che è al potere dal 1492; anche il patriarcato climatico ha una lunga storia.
Il Capitalocene implica non una, «ma molte forme di lavoro, donne, nature, e colonialismi» usando un’espressione di Maria Mies, a cui si affianca una forma di proletarizzazione globale.
Per capire il meccanismo della rivoluzione industriale non dobbiamo soffermarci solo sull’Inghilterra, sulla macchina a vapore, sul capitalismo fossile; dobbiamo capire che colonialismo, proletarizzazione globale e genocidio sistematico sono le tecnologie principali della rivoluzione industriale.
E questo è un elemento chiave che non è esplorato nella narrazione relativa al capitalismo fossile e in quella dell’Antropocene.
Dobbiamo capire che la distruzione, uccisione ed espulsione dei nativi americani negli Stati Uniti è stata un elemento centrale del capitalismo, così come lo sono il razzismo e il colonialismo, l’oppressione di genere, la tecnologia e l’imperialismo.
Siamo ancora nel 1492; un anno che non è mai finito.
Non c’è solo Cartesio a segnare l’inizio del pensiero moderno occidentale, ma anche Colombo e la sua idea di modernità occidentale: «conquisto, quindi sono»; ecco l’ideologia del Capitalocene.
state le donne, i corpi e le soggettività femminili.
Nel diciassettesimo secolo il processo di definizione delle donne come «non lavoratrici» era quasi compiuto, come ci ha raccontato Silvia Federici.
Natura (animali) e società, donne e uomini, bianchi e neri, tutti e tutte assieme hanno contribuito con il loro lavoro al processo di accumulazione di capitale, eppure, il Capitalocene ha trasformato tutte queste soggettività in niente, in una forma di lavoro non riconosciuta come tale.
Questo significa che milioni di persone, il loro sangue e il loro sudore, non è stato considerato come una parte della modernità occidentale, perché queste persone non sono state considerate come facenti parte della società civile: non esseri umani a pieno titolo, ma parte della natura.
Non c’è solo l’Antropocene, l’epoca dell’umanità, ma anche l’Uomocene, l’era dell’uomo, come scrive Kate Raworth.
Nel processo di affermazione del Capitalocene infatti, la differenza nella retribuzione salariale tra uomini e donne è stata una componente strutturale fin dall’inizio.
Oggi viviamo in un’era di crisi planetaria – della vita – e di crisi capitalistiche, in corrispondenza con la fine dell’era della natura a buon mercato.
Instabilità politica e instabilità climatica sono sempre connesse l’una con l’altra, per l’azione congiunta dei cambiamenti climatici e della lotta di classe.
Questo è lo sfondo socio-ecologico della
Grande Jacquerie in Francia, per citare un esempio concreto.
Il cambiamento climatico non è mai isolato alla biosfera, ma è sempre un evento geo-storico, imbrigliato nella rete della vita biologica e geologica del pianeta.
Quindi oggi è necessario comprendere il cambiamento climatico come un fenomeno che coinvolge la biosfera, la geologia, ma anche come un fenomeno geo-storico.
Ad esempio, dobbiamo guardare alle interconnessioni tra le lotte dei migranti
nel Nord Globale e i processi migratori su scala globale, non seguire categorizzazioni semplicistiche come quella di migranti climatici o migranti ambientali.
È un processo geo-storico più complesso, in cui società, economia, razza, cultura, eredità coloniali, reti imperialistiche, e ambiente giocano un ruolo.
A partire dagli anni Settanta del Novecento, siamo entrati in un momento di produzione di valori negativi, di negazione dell’emergere di relazioni nella rete della vita, di negazioni di forme politiche, e dell’incapacità del capitalismo di creare lavoro.
Questo processo si lega alla crisi biologica, politica e sociale che sta investendo l’agricoltura in relazione ai cambiamenti climatici su scala globale che sono frutto del Capitalocene come evento geo-storico.
Il capitalismo funziona non perché distrugge la natura, anche se il capitalismo fa cose terribili agli esseri umani e al resto della natura.
Il capitalismo funziona perché trasforma l’energia biologica, biosferica e del corpo in forme di lavoro che sono utili al capitale.
Un’ecologia rivoluzionaria deve trovare un modo di affrontare le tre forme principali di lavoro capitalistico:
1) il lavoro salariato all’interno dell’economia monetaria;
2) il lavoro non pagato di donne e altre categorie marginalizzate e oppresse;
3) il lavoro non pagato di altri soggetti naturali o naturalizzati, come gli animali.
In linguaggio marxista, il tempo socialmente necessario al lavoro si regge sul tempo socialmente necessario non pagato di soggetti considerati come non-lavoranti.
Viviamo in un tempo in cui le geo-storie del cambiamento climatico e del Capitalocene spingono alla creazione di nuovi immaginari politici, costruiti all’insegna della giustizia climatica.
Ciò significa che dobbiamo cercare nuovi modi di proteggere i territori, la vita, il lavoro e di organizzare questa difesa
in forme che abbiano una valenza rivoluzionaria e che possano superare l’esistente sistema capitalistico del lavoro e la fittizia divisione tra natura e società, per sostenere la vita in generale.
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