L'ordine della modernizzazione ecologica è stato messo in crisi da fenomeni più recenti, che possono essere ricondotti a una crisi ecologica globale.

tratto da "La crisi dei paradigmi e il cambiamento climatico" (introduzione); di Sofia Ciuffoletti, Marco Deriu, Serena Marcenò, Katia Poneti.

https://www.academia.edu/40262565

Alcuni recenti fenomeni ci portano a constatare che l’ordine della modernizzazione ecologica non è stato in grado di rispondere in modo adeguato alla crisi.

Tale ordine ha affermato che: "il modello di sviluppo occidentale può essere compatibile con la conservazione dell’ambiente e delle risorse naturali, tanto da poter soddisfare i nostri bisogni e quelli delle generazioni future: lo sviluppo non deve essere sviluppo tout court, ma farsi sostenibile, limitando l’inquinamento, contenendo l’uso delle risorse e innovando nei processi produttivi e di generazione dell’energia, così da non superare la capacità ecologica del pianeta." 

In tale ordine, un ruolo centrale e trainante è stato occupato dal settore economico,  al quale è stato affidato il cambiamento che avrebbe dovuto, in qualche modo, “cambiare tutto per non cambiare niente”, secondo l’idea che lo sviluppo di nuove tecnologie potesse essere in grado di risolvere le contraddizioni ecologiche insite nel sistema di produzione capitalistico, senza la necessità di modificarne le caratteristiche di fondo. 
Il diritto partecipa in una posizione ancillare, ponendosi più come strumento di legittimazione del grado di sviluppo tecnologico, e di convenienza economica di una tecnologia raggiunto da un certo settore economico, che come ambito di tutela della persona nella sua dignità di fronte alle scelte sulle politiche economiche e di sviluppo, diritto alla salute, diritto all’ambiente salubre, ecc. 

La critica delle politiche ambientali, e delle norme che le hanno sostenute, sta anche nel fatto di non riuscire a emanciparsi dal dominio della dimensione economica. 

Le politiche sviluppate nell’ambito della modernizzazione ecologica si attestano inoltre su processi escludenti, in cui le decisioni arrivano sui territori dall’alto e la partecipazione della popolazione interessata non ha valore. 
Queste politiche generano conflitti che si esprimono sia come questioni di giustizia ambientale – è il caso delle posizioni dei gruppi sociali più colpiti dagli effetti negativi dell'inquinamento – sia come questioni di democrazia – ed è il caso della richiesta di partecipazione ai processi decisionali da parte dei soggetti minacciati da interventi ambientali nel territorio in cui vivono. 

Il cambiamento climatico e le manifestazioni a esso legate, in modo particolare gli eventi estremi come tifoni e inondazioni, con il loro carico di morti, distruzione di ambienti e danno alle attività economiche, hanno reso evidente quanto il presunto controllo dell’inquinamento sia in realtà completamente sfuggito di mano; non più governato da politiche di riduzione del rischio basate sulla previsione, la prevenzione e la protezione degli ambienti naturali e delle popolazioni. 
I fenomeni migratori, internazionali e interni agli Stati, hanno tra le loro cause anche la fuga dagli effetti del cambiamento climatico, siccità e alluvioni che rendono le terre improduttive generando carestie, povertà e fame, da cui milioni di persone cercano di fuggire verso condizioni che permettano loro di vivere. 

Eppure, le decisioni in materia ambientale potrebbero beneficiare oggi dei processi partecipativi che numerose leggi, a diversi livelli di governo, hanno previsto, con il coinvolgimento dei soggetti coinvolti nella fase decisionale, tenendo conto dei diversi punti di vista per trovare un punto di convergenza, affrontando e non eludendo il conflitto. 
Tuttavia, a parte qualche caso felice, le decisioni in materia ambientale sembrano mantenere il loro carattere escludente, in quanto fondate su presupposti “intolleranti”, ovvero su una stigmatizzazione preventiva di coloro che sono portatori di visioni differenti rispetto a quella dominante.

In questa linea s’inserisce una visione univoca e dogmatica della scienza, che ne contraddice il carattere critico e riflessivo.
Si rinuncia così, definitivamente, all’idea di proceduralizzare il conflitto attraverso il discorso nell’ambito di un processo democratico. 

I conflitti in materia ambientale si esprimono sempre più nella forma di conflitti per le risorse, che però prescindono da una visione politica più ampia che inquadri la questione in un progetto di mutamento sociale. 

Di fronte alla complessità di tali fenomeni, il termine “ecologia” conserva un forte valore euristico, al quale vale la pena rifarsi per leggere le questioni che hanno a che fare con l’ambiente naturale, le risorse, l’energia, il modo di produzione, le migrazioni, la salute. 
Il termine ecologia allude infatti alla complessità e problematicità della relazione tra l’essere umano e la natura. 
Adottare il termine ecologia, e non per esempio ambiente, significa porsi all’esterno del linguaggio tecnico-giuridico dell’expertise attraverso il quale la crisi ecologica è stata narrata, portata nell’ambito delle istituzioni e gestita attraverso misurazioni, parametri, divieti, incentivi e così via. 
Come già aveva sostenuto da Edgar Morin negli anni ’70 del secolo scorso, l’ecologia può essere considerata come un nuovo strumento di conoscenza e la crisi ecologica come un’occasione per un mutamento di rotta nel cammino dell’umanità. 

Il cambiamento climatico e la crisi ecologica devono essere pensati e interrogati, da questo punto di vista, anche e soprattutto come sfida ai paradigmi economici, politici, giuridici e scientifici tradizionali. 
Le ideologie che hanno dominato la modernità occidentale con l’idea di progresso, la fede nel produttivismo e nello scientismo, l’individualismo estremo, sono state sfidate in profondità dalla riflessione ecologista, che ha sollevato la questione della necessità di adottare visioni del mondo capaci di riconciliare l’essere umano con la natura a cui appartiene. 
Tali risposte alternative, più o meno praticabili, hanno in comune il bisogno pressante della necessità di un cambiamento rispetto al sistema di idee e valori che ha condotto alla crisi ecologica. 
La prospettiva ecologica è anche dunque una prospettiva politica che chiede di ridiscutere i principi e i valori fondanti delle nostre società, alla luce delle sfide portate dalla crisi ecologica ed economica globale. 

E la risposta non potrà essere settoriale, affidata alla tecnica e gestita solo con strumenti e criteri economicisti, ma richiederà riflessioni e risposte più complesse, che investano in modo integrale il campo della politica e dei diritti. 

Chiavi di lettura trasversali nel percorso di sviluppo di una rinnovata ecologia politica

1) Il primo aspetto deriva da una lettura storico-sociale della crisi ecologica e del suo possibile superamento. 

Cioè dal riconoscimento della pesante eredità di un modello economico basato sull’industrialismo, l’estrattivismo e l’accumulazione capitalistica; che ha avuto un grande impatto non solo sull’ambiente, ma anche sulle istituzioni sociali, politiche e culturali. 
Non è possibile infatti immaginare il raggiungimento di forme di sostenibilità senza accettare la prospettiva di una trasformazione profonda delle strutture sociali, politiche, economiche e giuridiche. 
Inoltre, l’economia fossile, il paradigma della crescita, l’accumulazione capitalistica e l’opulenza consumistica contemporanea, vanno riconsiderate nella loro peculiarità ed eccezionalità storica, e non come destino.
La fine di questo modello di sviluppo non segna la fine della civiltà.
La storia è piena di avanzamenti e regressioni, di picchi e collassi. 

2) Il secondo aspetto riguarda la dimensione dell’analisi relativa agli assunti epistemologici e culturali di fondo: i possibili riduzionismi – antropocentrismo, sessismo, razzismo, nazionalismo, ecc. – a partire dai quali si limitano le possibilità di pensiero e discussione. 

L’attenzione ai conflitti politici e ambientali rappresenta da questo punto di vista anche un terreno importante di osservazione e riflessione nel quale, attorno a motivazioni molto concrete e materiali, si misurano anche saperi, cosmologie, visioni del mondo, dell’ambiente e dell’essere umano, radicalmente differenti. 
Questo riapre la possibilità di un confronto interculturale o transculturale attorno all’idea stessa di “natura”, di “benessere” o “benvivere”, di “economia”, “ricchezza”, “umanità”, “sostenibilità”. 

3) Il terzo aspetto riguarda l’analisi dei profili giuridici della questione ecologica. 

Nel discorso giuridico sulle questioni ecologiche si ritrova il termine “ambiente”, con il quale si è trasformato quello che nel linguaggio comune veniva considerata “la natura” in un bene giuridico da proteggere. 
Le legislazioni nazionali hanno mirato prevalentemente a disciplinare le attività produttive inquinanti, imponendo limiti di emissione agli impianti, o limiti di concentrazione di sostanze nocive negli alimenti, nonché a limitare la concentrazione di inquinanti in certi ambienti, soprattutto nelle aree urbane.
È stata invece soprattutto la giurisprudenza a sviluppare un discorso giuridico sui diritti delle persone in materia ambientale, trasformando in tal modo quelle enunciazioni contenute nelle dichiarazioni, convenzioni e testi legislativi in materia di ambiente in un diritto effettivo.  
In questo senso è importantissimo il lavoro fatto dalle corti internazionali, dalle cui pronunce sono stati modellati i principi per fornire tutela alle rivendicazioni di diritti.

4) L'ultimo aspetto riguarda la riconquista di un piano propriamente politico nella discussione sulle crisi ecologica e climatica. 

Crediamo che tali crisi non possano essere risolte semplicemente affidandosi a saperi tecnico-scientifici “neutrali” e oggettivi, a miracolose innovazioni tecnologiche o energetiche o alle presunte virtù autoregolative del mercato.
Riteniamo anche che le scelte responsabili
a livello squisitamente individuale - consumo critico, opzioni a basso impatto nell’alimentazione, nel vestire e nel muoversi ecc. - pur essendo importanti e necessarie, non siano tuttavia sufficienti –da sole – ad innescare cambiamenti strutturali e realmente incisivi. 

Rivendicare un terreno propriamente politico per le scelte di sostenibilità non significa necessariamente ricentrarsi sulla dimensione statuale nazionale o internazionale, quanto semmai rivendicare la pluralità dei terreni di azione rispetto a soggetti, organizzazioni, regimi che possono essere investiti da forme di ripensamento critico e innovazione. 

La costruzione di una reale alternativa politica, responsabile e partecipata, costituisce, fra l’altro, l’unica opportunità per prevenire derive securitarie, militari o tecnocratiche di “gestione ambientale”. 

Ma per far spazio a questa alternativa, occorre non smettere di riflettere: non solo sui problemi che pensiamo di vedere chiaramente, ma anche sui linguaggi, sui paradigmi, sulle risposte e sulle soluzioni preconfezionate, attraverso cui ci sforziamo di impacchettare e addomesticare quell’enorme inciampo della nostra civiltà che rappresenta il cambiamento climatico.

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