tratto da "Dai paesaggi del wasteocene ai
paesaggi del commoning"; di Marco Armiero, Nicola Capone ed Elisa Privitera.
Gela – che nell’immaginario e nella letteratura che la riguarda è rappresentata come un melting pot del degrado psicologico, sociale e ambientale e come l’emblema del fallimento delle politiche di sviluppo top down – appare come "un’iperbole locale del Wasteocene globale".
I suoi paesaggi subirono una svolta allorché nel 1956 le sonde dell’Agip Mineraria scoprirono al largo del Golfo di Gela un giacimento petrolifero.
Sulla spinta di Enrico Mattei e di un’intera classe dirigente, che vedeva nei poli d’industrializzazione statale il volano dello sviluppo del Sud, nel 1960 si pose la prima pietra, e nel 1965 venne inaugurato il polo petrolchimico ANIC (oggi ENI) di Gela, a poca distanza dai terragni – le case umide e senza servizi igienici, abitate dai più poveri.
Si trattava di una «tappa decisiva nel cammino di Gela e della Sicilia» verso ciò che è stato raccontato come «il progresso economico e sociale e l’inserimento pieno nel mondo moderno».
L’avvio della produzione petrolchimica fu accolto con entusiasmo trionfalistico, una vera e propria infatuazione, che ripose nel "mito del progresso" le aspettative di un intero territorio.
All’elogio di questa "prosperità petrolchimica" veniva contrapposta un’immagine della popolazione gelese come misera e atavica.
La ricca produzione cinematografica di ENI riguardante Gela era impregnata di una narrazione propagandistica finalizzata a edulcorare gli impatti negativi dell'industrializzazione e ad enfatizzarne quelli positivi.
Nel docufilm di Giuseppe Ferrara "Gela antica e Nuova" (1964), la voce fuori campo affermava: "il superfluo prende posto dentro un mondo che prima era duramente condizionato dalla ricerca ansiosa del necessario.
La televisione, il frigorifero, le cose che fanno comodo o abbelliscono la casa e la vita cominciano ad esistere anche tra questa gente.
La frontiera della civiltà industriale, finalmente spostata verso il Sud, l’ha tolta al gramo lavoro della campagna.
Dal suo lavoro sorgerà una città di cemento, di acciaio, di vetro".
Lo storytelling salvifico dei documentari ENI, accuratamente architettato per accecare il pubblico sui fatti reali, utilizzava l’espediente del "mito di un futuro florido di promesse": «un avvenire pieno di speranze si apre oggi per Gela, ed ha un nome: petrolio».
L’equazione industrializzazione=benessere, riscatto, modernità è stata il cuore di un racconto maggioritario che ha occupato per decenni il discorso pubblico, insinuandosi nell’immaginario collettivo e diventando un dogma inconfutabile, senza, al contempo, lasciare alcuno spazio a punti di vista alternativi e al contrario denigrandoli come anacronistici.
In sintesi, la narrazione tossica si è esplicitata attraverso una duplice propaganda, che da un lato sminuiva la realtà gelese passata e, dall’altro, alimentava il mito modernista industriale come l’unica via per il benessere.
All’assenza di qualsiasi preoccupazione ecologica, relativamente comprensibile dato il contesto storico, si deve aggiungere che tale storytelling non metteva in luce le discrepanze tra il progresso tecnologico e lo sviluppo sociale alla base dei paesaggi del Wasteocene di Gela.
Malgrado questa «domesticazione della memoria» ancora influisca sui “paesaggi post-industriali” di Gela, gli effetti sulla sua economia, lungi dal rivelarsi solo positivi, hanno innescato un processo inflazionistico e di distorsione dei consumi, che ha compromesso gli equilibri dell’agricoltura tradizionale e provocato una «crescita ipertrofica della città al di fuori di qualsiasi piano razionale di risanamento».
Le prime crepe in questo racconto monotono si sono presentate a partire dagli anni Novanta, allorquando il numero sempre più basso di lavoratori impiegati nell’impianto, a fronte del crescente numero di casi di tumore, di morti perinatali e malformazioni alla nascita ha provocato un cortocircuito tra le forze sociali.
Il contrasto tra la narrazione ecologista e la narrazione del sogno industriale raggiunse il suo culmine in occasione della cosiddetta “rivolta del pet-coke” nel 2002.
Da un lato i gruppi ambientalisti grazie ad un pluriennale attivismo giudiziario riuscirono ad ottenere il sequestro dello stabilimento da parte della magistratura a causa dell’emissione del pet-coke e di altre irregolarità ambientali, dall’altro gli operai manifestarono per intere settimane con il motto “meglio morire di inquinamento che di fame”.
In tale occasione, malgrado le ragioni ambientali sottese alla chiusura temporanea dell’impianto fossero palesi, i giornali enfatizzarono principalmente le conseguenze occupazionali dell’intervento della magistratura.
Un’altra fase della storia di Gela che mette in evidenza il ruolo cruciale della narrazione tossica nel produrre e alimentare i paesaggi del Wasteocene è quella che ha avuto inizio nel 2014, quando la stipula del Protocollo d’Intesa per l’Area di Gela ha sancito la riconversione dello stabilimento in una "green refinery" che è ancora in corso e tarda ad avverarsi.
Da allora, all’immagine di Gela come una delle capitali della mafia isolana e del disagio sociale, si è aggiunta, quella di “città disperata” per via dell’improvvisa e drastica riduzione dei posti di lavoro.
La strategia comunicativa tossica che è seguita è stata binaria: per un verso, in linea con i principi della modernizzazione ecologica, ha esaltato le soluzioni eco tecnologiche - che tuttavia sono state accusate di essere mero greenwashing - per un altro ha messo in campo una serie di diversivi culturali, come la webserie "Le radici del futuro" che, nel rievocare le antiche vestigia greche e medievali, quasi "dimentica" di fare riferimento all’impatto industriale.
A fronte di tale racconto, Gela versa in una condizione socio-economica disastrosa che trova conferma nei dati del censimento nazionale sulle famiglie in stato di indigenza (7,8% del totale) e sul tasso di disoccupazione a Gela (26,4%, che è più del doppio di quello italiano che è 10,2 %).
Oltre a ciò, Gela è una delle principali capitali italiane dell'inquinamento, dichiarata «area ad elevato rischio ambientale» e riconosciuta sito di interesse nazionale, con tassi di mortalità e morbilità notevolmente più elevati rispetto a quelli del resto della regione.
In particolare, a Gela il cancro al seno è la
seconda causa di morte per le donne,
mentre per gli uomini lo è quello al fegato
e al dotto intraepatico.
Le analisi di sorveglianza sanitaria hanno
rilevato eccessi per diversi gruppi di
anomalie congenite cardiache, genitali e
urinarie, e in particolare è emerso un tasso
elevato di ipospadia nelle nascite.
Alle forme di contaminazioni più evidenti,
si devono aggiungere quelle avvenute in
maniera graduale nel tempo (e diffuse
nello spazio), delle quali è più difficile
avere piena contezza in quanto, latenti
nella vita di tutti i giorni, hanno provocato
“disastri quotidiani” e “lenti”.
Le wasting relationships a Gela hanno
causato anche una lacerazione, delle
relazioni ecologiche tra esseri umani, non
umani e ambiente di vita, riscontrabile nel
rapporto che i cittadini hanno con
l’agricoltura, il mare, lo sviluppo urbano.
Per esempio i campi agricoli oggi sono
spesso abbandonati o coltivati in
serracolture e/o monocolture intensive, e il
mare rimane oggi fonte primaria di sostentamento per un numero ristrettissimo di pescatori resistenti che si ostinano a praticare questa attività lavorativa, marginalizzata negli anni dalla più redditizia occupazione nell’industria.
Nell’arco di pochi decenni la popolazione
gelese è raddoppiata e, in assenza di
adeguate politiche pubbliche della casa, la
crescita edilizia è avvenuta in maniera
abusiva e selvaggia dando vita ad interi
quartieri privi di qualsiasi qualità
ambientale e sicurezza.
A causa della sovrappopolazione, della
carenza di servizi pubblici e di acqua
corrente, la qualità della vita urbana è
peggiorata drasticamente.
Al contempo la speranza di essere assunti
nella raffineria ha portato al graduale
disinteresse e poi al quasi totale
abbandono delle attività economiche
tradizionali.
Oltre a ciò, i paesaggi del Wasteocene di
Gela sono anche spazi di scarto del sistema globale capitalista ed estrattivista.
Infatti, l’ENI, dopo essersi trasformata a tutti gli effetti da azienda parastatale in
uno dei sette principali gruppi petroliferi
nel mondo, ha relegato il polo di Gela in
una posizione sempre più periferica.
Proprio tra gli interstizi delle macerie dei paesaggi del Wasteocene di Gela è però possibile rintracciare tutte quelle pratiche e saperi insorgenti di resistenza, quasi ontologica, al sistema estrattivista, capitalista e globale.
Si tratta d’iniziative più o meno formali che, mentre attraverso azioni di cura e commoning valorizzano spazi derelitti del territorio di Gela, si riappropriano di immaginari altri che puntano a superare un sistema socio-economico meramente estrattivista.
L’atto di condivisione di storie e memorie è già di per sé rivoluzionario in quanto può essere un «catalizzatore di cambiamento» che genera una «immaginazione attiva» fondamentale per avviare un cambio sociale.
Due di queste storie di commoning sembrano particolarmente rilevanti: SMAF (Sport Musica Arte e Folklore) e Geloi Wetland.
SMAF ha promosso alcune iniziative che uniscono azioni di mutua solidarietà ad eventi di animazione territoriale e cura collettiva dello spazio pubblico.
Operante in uno dei quartieri più antichi ma anche più degradati della città, questo gruppo di giovani, grazie all’autofinanziamento e a donazioni simboliche, è riuscito a creare uno spazio sociale in cui diverse generazioni si incontrano e collaborano per “fare le cose insieme”.
SMAF non ha una vera e propria sede, ma di volta in volta si riunisce in case abbandonate o semiabbandonate che i proprietari affidano a SMAF che le auto recupera con interventi low-tech.
L’associazione ha anche assunto una posizione critica nei confronti dell’ENI, soprattutto ha preso le distanze dal tentativo, percepito come una “cooptazione”, di coinvolgerla nel progetto “Le radici del futuro”.
Come condivideva con noi il fondatore di SMAF: «noi stiamo portando avanti già da diversi anni e con fatica un’idea nuova di Gela, non c’è bisogno che siano loro (l’ENI) a dirci cosa dobbiamo fare e come raccontare Gela».
Geloi Wetland tenta di conciliare la tutela attiva della biodiversità con un’agricoltura rispettosa del tempo biologico della natura degli umani e non umani che la abitano: "Abbiamo deciso di dedicarci alla conservazione della piana di Gela, creando con Geloi anche un modello che parta dalla protezione della biodiversità, puntando ad integrarla con l’agricoltura ma anche con una forma di turismo che sia rurale e lento.
Vogliamo creare habitat differenti che possano ospitare varie specie di animali e allo stesso tempo vogliamo coltivare alcune piante autoctone, ma che siano sempre compatibili con gli animali.
Al centro non c’è più l’uomo, ma l’ecosistema.
È proprio un cambio di paradigma".
Si tratta di circa 170 ettari di campi che includono tane per uccelli migratori, formicai, acquitrini per le rane e i pesci d’acqua dolce, ma anche piante endemiche, come il corbezzolo, e infine una produzione estensiva di grano.
I membri di Geloi dimostrano che è possibile superare una visione prettamente estrattivista della produzione agricola e stanno già indicando quello che potrebbe essere un futuro percorso di sviluppo per la pianura gelese che sia fondato su un cambiamento sistemico, sia produttivo che di stile di vita.
Questo racconto dei molteplici paesaggi di Gela mette in luce come la narrazione tossica giochi un ruolo cruciale nel plasmare e rinforzare immaginari estrattivisti, ma come, al contempo, la raccolta di autobiografie tossiche e di small data possano essere utili a scardinare le narrazioni tossiche su cui si basa il Wasteocene, svelare le asimmetrie di potere e raccontare mondi altri possibili.
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