Tra le cause dell'attuale crisi socio-ecologica vi è la creazione di una frattura, tipica della cultura europea e del pensiero occidentale, tra natura e cultura.

tratto da "A proposito di fratture, comunanza e lotte agroecologiche: riflessioni in movimento"; di Roberto Vincenzo Falco & Rocco Milani.


Le fratture come campo d’analisi 
delle contraddizioni odierne 

La dicotomia binaria tra Società e Natura, che pone in due campi separati l’umano ed il non umano, rifiuta di iscrivere nel naturale lo sviluppo e la storia della specie umana. 

Alla base di questa divisione c’è la diffusa percezione che tutto ciò che non è umano è materia inerte, è reificato e dunque astraibile e messo a valore. 
Il passo successivo è l’assunto secondo cui, così come in una macchina, anche in un sistema complesso come la biosfera, un ingranaggio che non funziona può essere agilmente riparato o sostituito. 

La mercificazione della natura, suggerisce Marx, è un processo che deriva dall’età dell’accumulazione antecedente il capitalismo; nostro intento è focalizzarci su come il processo accumulativo abbia creato la frattura Natura/Società.

A questo proposito ci pare calzante la prospettiva posta in essere da Foster e ripresa e messa in discussione da Moore 
di «frattura metabolica». 
Quest’ultima si dividerebbe in tre fasi non consecutive: 
1) «la frattura tra la produzione umana e le sue condizioni naturali»; 
2) «l’estraniamento materiale degli esseri umani nella società capitalistica dalle condizioni naturali della loro esistenza»;
3) la «divisione antagonistica tra città e campagna». 

Questa frattura, letta secondo la lente di 
ingrandimento di Moore, individuerebbe dei punti cruciali per analizzare i processi capitalisti che hanno sussunto la riproduzione e la natura extra umana. 
Lo storico ambientale apre una breccia illuminante all’interno del ragionamento 
marxista sottolineando come proprio la natura extra umana abbia avuto un ruolo attivo nel processo storico e non sia stata solo oggetto passivo delle razzie del capitale.

Sulla frattura tra Società e Natura si sono parallelamente innestate ulteriori divisioni attraverso cui il Capitalismo continua a dividere e imperare. 

Se da un lato la Società è sempre stata identificata con l’uomo bianco, unico portatore di cultura globale, la Natura ha preso ad essere «contenitore» di tutto ciò che, come il vivente e l’inerte, è stato preda dell’astrazione e della messa a valore. 
In questo contenitore naturale, da comprendere prima e da sfruttare poi, è stato inserito il corpo-donna e il corpo-schiavə. 

L’indagine storica offerta da autrici come Merchant e Federici, solo per citarne alcune, non può in questo contesto essere tralasciata. 

Merchant, nel suo "La morte della Natura", illumina il procedimento di comprensione del naturale e riporta l’attenzione sulla non neutralità dell’uso della metafora Natura come Madre e vergine, una sovrapposizione di senso nata con il metodo scientifico. 

In particolare sono prese in esame la figura e le parole di Bacon che perfettamente illustrano questa sovrapposizione e ci rendono il potere di produzione di senso di determinate metafore. 

Ad essere posta sotto esame è la terminologia utilizzata dal filosofo inglese: la natura è da «vessare», «cacciare», «costringere», «legare», «schiavizzare», «spiare» e «trasmutare»; termini indissolubilmente legati al fenomeno della Caccia alle streghe che in quei decenni 
colpiva e normava il corpo femminile nonché le sue pratiche ed i suoi saperi. 

La produzione e messa in uso di determinate associazioni diventa il campo in cui si manifestano lo sfruttamento del non umano ed allo stesso tempo l’idea di passività della figura femminile. 

Si legittima così "scientificamente" il ruolo di subalternità della donna e si stabilisce una gerarchia tra maschile e femminile che classifica quest’ultimo come parte della natura, dato il suo ruolo riproduttivo considerato come risorsa passiva a disposizione dell’accumulazione economica e culturale dell’uomo.

La dicotomia tra Madre Natura fertile/Natura selvaggia e donna benefica/malefica, ci ricorda Merchant, è stata alla base della legittimazione degli abusi sulle donne dei nuovi continenti durante la colonizzazione e successivamente, suggerisce Federici, alla base anche in Europa del controllo 
riproduttivo e della gratuità del lavoro domestico.

Nel suo lavoro di ricerca storica l’autrice italiana legge in chiave femminista l’accumulazione originaria legandola 
all’oppressione sul corpo delle donne e alla sistematica invisibilizzazione del loro lavoro riproduttivo, cioè il ruolo delle donne nella produzione di forza-lavoro e delle condizioni stesse per una una “vita degna”. 

Il movimento di espropriazione proprio della nascita del capitalismo, cioè la lottizzazione e la privatizzazione delle terre comuni che si ebbe in Inghilterra con gli enclosures act, è da collegare a quello che l’autrice stessa definisce un genocidio contro le donne, atto a dominarne il corpo ribelle. 

I roghi si innalzarono per criminalizzare e ridimensionare il ruolo delle donne, il loro lavoro, i loro saperi e pratiche; tra queste ovviamente il controllo della propria sessualità e della natalità. 

Questa guerra doveva essere combattuta per disciplinare ed incanalare la donna in una ferrea divisione sessuale del lavoro, confinandola al focolare domestico essenzializzando il suo lavoro di riproduzione. 

Il lavoro riproduttivo così costruito e rigidamente affidato alla popolazione 
femminile fu facilmente invisibilizzato a scapito di quello produttivo cui invece era corrisposto un salario. 

Per l’attivista e autrice a questo momento storico di transizione si deve far risalire la degradazione della donna e l’instaurazione del sistema patriarcale come noi oggi lo conosciamo, la caccia alle streghe ne sarebbe il fenomeno più evidente e macroscopico.

Altro baluardo costitutivo della società è sicuramente la città, che si pone al vertice della gerarchia spaziale delle società occidentali (e non solo) e in aperto contrasto con lo spazio rurale. 

La concezione occidentale di natura come oggetto, figlia della visione cartesiana, privilegia la distruzione della vita (umana e non umana) al centro del progetto capitalistico di progresso, a scapito delle concezioni ecologiche non-occidentali che nel corso dei secoli hanno sviluppato 
culture e visioni del cosmo come «soggetto», protagonista attivo degli eventi naturali e «che ha fine in se stesso».

La visione coloniale e neocoloniale porta all’oppressione di tutte le soggettività che si pongono in contrasto con la prospettiva dominante.

Ci sono voluti secoli di genocidi, schiavismo ed estrattivismo in ogni Sud del mondo per cancellare completamente molteplici esperienze di riproduzione 
della vita affinché si potessero alimentare crisi e benessere di pochi a scapito di fertilità e ricchezza che solo cosmovisioni 
differenti avrebbero potuto apportare a tutta la biosfera.

L’analisi femminista e quella post-coloniale hanno apportato un contributo fondamentale alla comprensione di 
questi meccanismi che, lungi dall’essere scomparsi, operano ancora oggi, soprattutto all’interno di un contesto di 
fragilità come quello della pandemia. 

Abbiamo visto come sulla divisione originaria tra Società e Natura si siano innestate le successive fratture con cui il Capitalismo organizza e gerarchizza il vivente. 

Non ci pare una semplificazione affermare che alla base dell’imperante crisi climatica e la conseguente estinzione di massa ci sia proprio questa divisione. 

La crisi climatica, per riprendere la visione del filosofo Timothy Morton, è un iperoggetto e per concepire un’organizzazione sociale e un sistema (ri)
produttivo che ci accompagni in una fase post-capitalista, ci occorreranno decine, centinaia di visioni che interagendo si 
contaminino e si rafforzino. 

Quella della cura del Comune è una di queste. 

L’insieme di pratiche di commoning devono poi relazionarsi a nuove visioni, nuovi pensieri, nuove cosmopolitiche tutte da inventare e tutte da mettere in relazione.

La Cura del Comune

Come Commons, Commoning e Cura comunicano tra loro? 

Perché questi concetti arrivano a compenetrarsi generando qualcosa di «altro»? 

Prima di addentrarci nell’immaginazione e nel tratteggiamento del comune come pratica di cura e di costituzione di un campo multispecie sarà utile chiarire alcuni elementi chiave, dei pilastri, per così dire, di questo concetto secolare che è il bene comune e delle sue potenziali materializzazioni costituenti. 

Cominceremo, dunque, prima con la definizione delle tre componenti di quello che Massimo De Angelis chiama sistema sociale del Comune, vale a dire:

1) il bene comune o commonwealth;
2) la comunità ad esso legata;
3) e la pratica del commoning intesa, come vedremo, come quel momento di sintesi generativa tra le prime due componenti. 

Per beni comuni si intende, genericamente, un insieme di «cose» materiali ed immateriali: queste cose possono essere risorse comuni, come un ecosistema (un fiume, un bosco, un parco), o esistere come un insieme di unità di risorse (finanziarie, tecniche, umane, simboliche...) messe in un vaso comune da una comunità.

Che dire di questa comunità? 
Quali sono, se è possibile individuarne, le sue caratteristiche ed i suoi modi d’agire? 

Un piccolo sguardo all’etimologia della parola comunità ci da un’importante traccia del ruolo e del significato che la comunità di commoners assume nell’interazione con il bene comune. 

Communitas, l’antecedente latino, si costruisce intorno al termine munus, l’obbligo ma anche il dono, il favore. 

L’idea stessa di comunità sembra dunque girare attorno all’ambiguità tra obbligo e dono volontario, un gruppo di individui che si assembla intorno al dare-con. 

La comunità di commoners, in strettissima relazione al bene comune attorno a cui si costruisce, è una comunità di soggetti costituita soprattutto dalle loro interrelazioni quali il condividere, il curare, il creare e il ricreare nonché la comune gestione del bene e la sua riproduzione che è la riproduzione della comunità stessa. 

Già nella piccola definizione di questo gruppo emerge l’inscindibilità, la reciprocità tra lə individui e il bene a cui hanno deciso di dare valore, al luogo che li tiene in vita e che è tenuto in vita dalle relazioni tra lə singolə e la relazione tra il gruppo e la ricchezza comune. 

Una qualità dei rapporti costruiti in un movimento costante che va dagli individui al bene e i cui effetti benefici ricadono sugli individui e sul bene. 

Proprio questo movimento costituisce il commoning, cioè il fare-insieme che ha come presupposto un insieme di significati e valori che siano condivisi, comprensibili, performabili o evocativi, insomma un terreno comune che faciliti la governabilità del common in forma autogestita, non gerarchica e motivata dalla riproduzione affettiva, materiale, immateriale e culturale də commoners, delle loro relazioni e del bene. 

Secondo Laura Centemeri, «Si tratta di modi di valutare che incorporano nella definizione del valore la specificità di un’esperienza che si dà in un dato spazio, in un dato tempo e in una certa storia relazionale».

In questa storia si deve tener conto di ogni tipo di malessere, incomprensione, eccesso di protagonismo, leaderismo, sessismo o violenza di ogni genere. 

Insomma la comunità, nel dare valore al bene che ne permette la sua riproduzione 
veglia su sé stessa, risolve conflitti, si autogestisce trovando collettivamente lo spazio e il tempo per indagare sulle relazioni che all’interno si dispiegano. 

Ponendosi l’obiettivo della propria riproduzione e della cura del territorio, la comunità dei commoners deve insistere sulla qualità dei rapporti perché da quelli deriva l’effettiva capacità di creare e ricreare comune.


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