Tra le rovine del Wasteocene nascono esperienze di commoning che sabotano le relazioni di scarto e mirano a produrre comunità alternative.

tratto da "Dai paesaggi del wasteocene ai 
paesaggi del commoning"; di Marco Armiero, Nicola Capone ed Elisa Privitera.


Spesso si dice che il problema della crisi ecologica – e specie di quella climatica sia la sua invisibilità. 

Non riesce ad essere una nostra priorità perché non la vediamo, non ne facciamo esperienza nella vita quotidiana. 

Lo stesso discorso può dirsi dell’Antropocene: siamo forse entrati in una nuova era geologica ma la cosa è passata completamente inosservata ai più. 

Nessuno si è svegliato al mattino respirando l’aria nuova dell’Antropocene e le televisioni non hanno accompagnato con un conto alla rovescia l’inizio della nuova era. 

Tutta questa presunta invisibilità della crisi ecologica si scontra tuttavia con la concreta materialità dei problemi ambientali che tante comunità si trovano ad affrontare. 

Certo si può parlare di una dissonanza cognitiva, di una incapacità a considerare il futuro, ma forse si tratta, almeno in parte, di un semplice dato di fatto. 

La crisi socio-ecologica non tocca tutti e tutte allo stesso modo; anzi, per essere più precisi, proprio l’avanzare della crisi comporta un inasprimento delle misure volte a separare un “noi” immunizzato e sicuro dal resto. 

Nancy Tuana ha parlato di climate apartheid, sottolineando con questa espressione come i gruppi sociali abbiano risorse diverse per adattarsi al cambiamento climatico. 

E se Rob Nixon ci ha ricordato che potremmo anche essere tutti e tutte nell’Antropocene, ma non nello stesso modo, Marco Armiero ha usato la metafora del Titanic per svelare che essere sulla stessa barca non cancella affatto le differenze di classe. 

L’insistenza sulla invisibilità della crisi socio-ecologica e sulla difficoltà di capirne la portata rivela qualcosa più su chi parla che sull’oggetto in discussione; in altre parole, forse davvero per il “noi” narrante  - élite bianca del Nord Globale - la crisi socio-ecologica rimane una proiezione del futuro, un fantasma evocato e temuto ma non troppo visibile e magari quasi irreale. 

Ma per molti/e altri/altre la crisi socio-ecologica è una realtà materiale con la quale fare i conti tutti i giorni. 

È il paesaggio in cui vivono, la disponibilità di acqua e cibo, le condizioni di salute, la speranza di vita, la possibilità di restare o la necessità di andare via, la morte e la sopravvivenza. 

Seguendo l’elaborazione teorica di Marco Armiero e il suo concetto di Wasteocene, potremmo dire che la crisi socio-ecologica si manifesta attraverso relazioni di scarto (wasting relationships) che producono non solo il rifiuto in sé, ma comunità umane e non-umane scartate, senza valore, destinate ad essere la discarica del benessere di pochi e poche. 

Queste relazioni di scarto producono, insomma, i paesaggi del Wasteocene, storie e luoghi trasformati in discariche. 

Le relazioni di scarto non si accontentano di produrre un paesaggio degradato; i paesaggi del Wasteocene includono le persone che li abitano e le loro storie. 

Le relazioni di scarto producono due tipi di tossicità: la contaminazione sistemica di ogni frammento del vivente trasformato in fonte di accumulazione di profitto, con il necrocapitalismo che mette a valore non solo la vita ma anche la morte; e la produzione di narrative tossiche che riducono la diversità delle storie in monoculture. 

I paesaggi del Wasteocene si possono ammirare dall’alto di un inceneritore di rifiuti, dal balcone coperto dai residui di una acciaieria, dalla fila per l’acqua in una favela, ma anche leggendo le cartelle cliniche – per i fortunati e fortunate che hanno una cartella clinica – o più semplicemente ascoltando le biografie tossiche di chi porta quei paesaggi del Wasteocene iscritti nei corpi. 

Nella Terra dei Fuochi, in Campania, a Gela, in Sicilia, a Casale Monferrato, in Piemonte, a Taranto e Marghera, i paesaggi del Wasteocene sono non solo l’ambiente dentro il quale si muovono in tanti e tante; in quei luoghi, come pure in tanti altri in Italia e altrove, i paesaggi del Wasteocene ce li si porta dietro, ben radicati nel proprio corpo ed anche nelle proprie storie. 

Come quando Alessandro racconta della malattia e morte dello zio e del padre, pastori tra le diossine di Acerra nel Napoletano; oppure come le storie delle madri orfane dei loro figli e figlie nella Terra dei Fuochi; o come le storie silenziose raccontate dal cimitero dei Tamburi a Taranto.

I paesaggi del Wasteocene sono fatti di discariche, di fabbriche inquinanti, di polmoni all’amianto, di sangue e diossina. 

Ma sono anche fatti da storie come quelle che abbiamo evocato; tuttavia, con quelle storie i paesaggi del Wasteocene hanno una relazione strana, particolare. 

Certo, possiamo dire che esse riempiono luoghi e memorie, album di fotografie e angoli di strada, referti medici e confidenze tra conoscenti; ma è anche vero che i paesaggi del Wasteocene mirano a cancellare quelle storie. 

Il paesaggio di scarto deve essere vuoto, anonimo, per definizione senza memoria. 

È l’attivista americana Lois Gibbs a ricordare che l’arma più potente nelle mani di una comunità di scarto è la propria storia; è d’accordo con lei Naomi Klein secondo la quale sottrarre la storia ad una comunità è il primo passo per imporre il disaster capitalism. 

Dunque, ricordare e raccontare quelle storie è già un primo passo per sabotare il Wasteocene e di conseguenza cambiare i paesaggi che produce. 

Le narrative tossiche del Wasteocene o invisibilizzano l’ingiustizia oppure la trasformano in una strana meritocrazia secondo la quale chi sta peggio se lo è meritato. 

Ritrovare le tracce dell’ingiustizia nei paesaggi materiali e memoriali del Wasteocene è una strategia fondamentale contro la sua naturalizzazione e/o normalizzazione.

Insieme alle storie di ingiustizia, alle molecolari biografie tossiche che ingranano corpi e contaminanti, ci sono altre storie che i paesaggi del Wasteocene tengono nascoste. 

Sono le storie di guerriglia e resistenza, di alternative prefigurative che fioriscono dentro e contro il Wasteocene. 

I paesaggi del Wasteocene non sono dei terreni aridi dove nulla cresce; nelle crepe del Wasteocene si insinuano esperimenti che riproducono altre forme di vita. 

Spesso questi esperimenti sono riconducibili alle pratiche del commoning, ovvero del fare commons. 

Di recente Marco Armiero ha sostenuto che: il commoning sta alla (ri)produzione attraverso la condivisione come lo scarto sta all’estrazione di valore attraverso l’alterizzazione. 

In altre parole, mentre le wasting relationships si fondano sul consumo e l’alterizzazione, le pratiche di commoning si basano sulla riproduzione delle risorse e delle comunità.

A differenza dell’Antropocene, il Wasteocene non è un concetto astratto e neppure solo una categoria gergale accademica; è piuttosto una esperienza incarnata in corpi e luoghi subalterni, entrambi territori di conquista di un progetto coloniale che li trasforma nell’altro radicale dal “noi”. 

Ma questa esperienza incarnata del Wasteocene può politicizzare corpi e territori, costruendo identità ribelli alla logica che ha prodotto vite e luoghi di scarto. 

Come è ovvio, non è facile trovare chi si faccia trasformare in discarica senza opporre alcuna resistenza. 

La letteratura sui conflitti ambientali, ormai molto ricca, fornisce un enorme inventario di storie di resistenza alla logica del Wasteocene; si pensi, ad esempio, all’immenso archivio dell’EJAtlas che raccoglie più di 3500 casi di conflitti ecologici. 

Tuttavia, l’accento sul commoning proposto da Marco Armiero aggiunge un tassello a quel lavoro di ricerca. 

L’ipotesi è che dentro le fratture del Wasteocene, negli interstizi delle relazioni di scarto, comunità ribelli non solo resistano alla violenza imposta da quelle relazioni ma provino anche a sperimentare delle pratiche prefigurative che dall’interno sabotano la logica del Wasteocene. 

Il Wasteocene impone infrastrutture che (ri)producono le relazioni di scarto, siano esse materiali, come discariche e fabbriche inquinanti, o immateriali, come le narrative tossiche che nascondono o normalizzano l’ingiustizia; di conseguenza anche il commoning (ri)produce altre infrastrutture fatte di cura e condivisione, sia materiali, come un orto urbano o un centro sociale occupato, sia immateriali, come il recupero e la creazione di memorie e identità positive.

Dalla Campania dei rifiuti tossici alla Sicilia del lavoro tossico, il commoning si incunea nelle fratture del Wasteocene, costruendo una infrastruttura prefigurativa dentro i paesaggi di scarto. 

Nella sua produzione di scarti, il Wasteocene mira a cancellare queste storie riducendo non solo corpi e territori, ma anche memorie e identità a una gigantesca discarica. 

Ma come scriveva qualcuno, dal letame possono nascere i fiori.

Dei paesaggi del Wasteocene e del commoning 

Napoli e Gela sono solo due esempi eclatanti di quello che intendiamo per paesaggi del Wasteocene. 

Su una mappa immaginaria del Wasteocene italiano troveremmo senz’altro Taranto e il quartiere Tamburi, Casale Monferrato, capitale dell’amianto nostrano, Seveso e il Vajont, che non richiedono spiegazioni, e tanti altri luoghi nei quali le wasting relations hanno prodotto comunità umane e non umane di scarto. 

A volte si tratta di paesaggi ancora attivi, nei quali la macchina del capitalismo continua a produrre valore attraverso l’estrazione e l’alterizzazione. 

Altre volte quei paesaggi assomigliano a delle rovine di estrazioni passate; tuttavia, con il Wasteocene il passato non passa mai perché la sua eredità di tossicità permane nel tempo, scorre nelle vene del vivente, attraversa specie e generazioni. 

Se è vero che tutti i paesaggi, anche quelli romantici della wilderness, non sono mai solo esterni ma sempre anche interni – in altre parole non sono mai autonomi dallo sguardo di chi osserva – quelli del Wasteocene lo sono ancora di più perché le relazioni di scarto sono profondamente incarnate nei corpi.

La Campania dei rifiuti e la Sicilia petrolchimica di Gela raccontano proprio di questa stratificazione tossica, fatta di contaminazione del vivente e delle sue storie – quello che Armiero chiama narrative tossiche. 

Tuttavia, i paesaggi del Wasteocene non sono solo luoghi di rovine, spazi dove il necrocapitalismo mostra la sua faccia più autentica.

È negli interstizi del Wasteocene che sono sorti spazi di cura, solidarietà e sperimentazione comunitaria; si tratta di progetti prefigurativi che hanno rinunciato ad una escatologia politica della salvezza/rivoluzione a venire, provando a sperimentare ora e qui il mondo nuovo che si desidera. 

Tuttavia, a Napoli come a Gela queste macerie del Wasteocene non sono uno spazio quasi romantico – da Grand Tour –; non contengono i semi naturali del mondo nuovo o della rigenerazione. 

Il commoning non è il frutto spontaneo che in una sorta di progressione ecologica segue la monocultura capitalistica delle wasting relations. 

Sono invece frutto di lotte e di costruzione faticosa di alleanze e di comunità. 

Certo la consapevolezza di essere stati e state divorati/e, ingurgitati/e e digeriti/e dal Wasteocene è il prerequisito per una soggettivazione politica nuova fatta di cellule malate, puzze, fumi e lutti familiari. 

In questo senso le comunità che (ri)nascono negli interstizi del Wasteocene non sono affatto comunità “naturali” ma piuttosto comunità politiche, nate per affinità e non per nascita o luogo. 

E se il commoning riuscirà a fiorire non sarà certo perché il Wasteocene produce rovine ma piuttosto perchè la lotta produce comunità ribelli.

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