La gestione manageriale della natura, orientata al profitto, si è rivelata la ricetta ideale per il disastro.

tratto da "Convergenza anticapitalista, transfemminista e anti-estrattivista per la giustizia climatica e ambientale in Italia"; di Ilenia Iengo, Paola Imperatore ed Emanuele Leonardi.

https://undisciplinedenvironments.org/2022/10/18/political-ecology-and-the-insurgence/

Gela, Niscemi, Augusta, Taranto, Brindisi, Napoli, Caserta, Cagliari, Manfredonia, Rosignano, Casale Monferrato, Seveso, Porto Marghera, Brescia, Val Susa e Vajont; sono solo alcuni dei territori nei quali lo stato italiano, le industrie inquinanti (petrolchimica, siderurgica, ecc.) e lo smaltimento dei loro rifiuti, hanno lasciato evidenti tracce di uno sviluppo capitalista intrinsecamente ecocida. 

Da questi territori sono emerse resistenze ed esperienze che hanno evidenziato il nesso tra salute e ambiente, e la necessità di produrre alternative alla narrativa dominante che normalizza i danni imposti alla salute umana e non umana; dalle fabbriche, attraverso il ricatto tra salute e lavoro, alle periferie urbane dove le persone non riescono a respirare a causa dell'incenerimento dei rifiuti pericolosi, alle valli di montagna dove la modernità è spesso sinonimo di grandi sviluppi inutili e dannosi come dighe e treni ad alta velocità.

Una lunga stagione di mobilitazioni, sorte in Italia dagli anni '70 ad oggi, ha costruito ponti tra le conoscenze e le pratiche dell'ecologia politica.

Due filoni di movimenti di base e prospettive critiche si mobilitano oggi nella complessa geografia delle lotte per la giustizia territoriale, ambientale e climatica in Italia. 

  1. Fin dagli anni '70 l'ambientalismo operaio, con la sua storia di lotte per la salute dei lavoratori in relazione all'esposizione a sostanze nocive, ha ribaltato i rapporti di potere in fabbrica, incentrando sul proprio corpo la politicizzazione di chi subisce danni industriali, contro la logica del risarcimento e verso una politica di prevenzione.

  1. C'è anche la prospettiva meridiana (prospettiva sud) sull'ingiustizia ambientale, che emerge dalle lotte contro i progetti di sviluppo ecocida ai margini della nazione, come nel sud e nelle isole. 

Dagli anni '80, la promessa di prosperità che sarebbe emanata dalla modernità ha iniziato lì, prima che altrove, a mostrare le sue nette contraddizioni. 

Ma il discorso dominante sulla crescita capitalista come fonte di ridistribuzione della ricchezza in tutto il paese non è riuscito a convincere del tutto i territori e le comunità subalterne. 

La prospettiva meridiana sull'ecologia politica in Italia nasce da quei territori e tra quelle comunità che sfidano il principio del sacrificio e resistono alla normalizzazione della gestione dell'emergenza, riappropriandosi di forme collettive di lotta e di vita, e costruendo conoscenze critiche e orizzonti alternativi. 

Il potere radicale della sovversione fiorisce nella marginalità, come ci ha insegnato bell hooks. 

In questo contesto e in particolare dal 2019, l'ecologia politica incontra la giustizia climatica nelle esperienze di base in Italia.

Il 2019 è un anno cruciale perché rompe la leggenda neoliberista secondo cui la protezione dell'ambiente può andare di pari passo con il profitto capitalista. 

La controrivoluzione delle élite, iniziata nella seconda metà degli anni '70, ha portato con sé alcuni fondamentali indirizzi di politica ambientale; negli anni novanta, con l'ascesa del neoliberismo e il crollo dell'URSS, le disuguaglianze hanno continuato a crescere, mentre lo sfondo discorsivo cambiava. 

All'idea di sviluppo sostenibile, che indicava una possibile compatibilità tra crescita economica e cura dell'ambiente, si sovrapponeva ora quella di "green economy": la crisi ecologica non doveva più essere considerata un ostacolo allo sviluppo, ma una condizione fondamentale della sua possibilità.

In altre parole, la green economy è un tentativo di adattare il vincolo ambientale all'accumulazione di capitale trasformandolo da barriera a motore di valore. 

È una strategia che si basa sulla creazione di mercati ad hoc, come quelli in cui si possono negoziare permessi e crediti di emissione. 

Ecco che magicamente si può postulare un'affinità elettiva tra la logica del profitto e la logica della tutela dell'ambiente. 

Già nel 1988, sulle pagine di Primo Maggio, Sergio Bologna notava quanto il capitalismo avesse bisogno dell'ambientalismo per raggiungere la frontiera di una nuova rivoluzione industriale. 

Mezzo secolo fa la prima ondata di nocività ambientale (in particolare rifiuti e inquinamento) è diventata una questione politica per le lotte sociali e operaie. 

Invece, dagli anni '90 abbiamo assistito alla gestione neoliberista non solo della nocività, ma anche della seconda ondata di danni ecologici (rischi biotecnologici, geoingegneria e cambiamenti climatici). 

Questo è stato lo schema dal Protocollo di Kyoto (1997) all'Accordo di Parigi (2015): sebbene il riscaldamento globale rappresenti un fallimento del mercato nel tenere conto delle cosiddette esternalità negative, l'unico modo per affrontarlo è stabilire altri mercati per il commercio di beni naturali (ad esempio la capacità delle foreste di assorbire CO2). 

Non si tratta di incursioni in teorie astratte: i meccanismi flessibili che mercificano il clima sono ancora il principale strumento di politica economica utilizzato dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. 

Nonostante decenni di negoziati sul clima, negli ultimi 30 anni le emissioni di gas climalteranti sono aumentate. 

Ciò mostra chiaramente la contraddizione tra i (presunti) fini ecologici e gli (effettivi) mezzi economici dei mercati ambientali. 

Infatti, sebbene attraverso questi mercati non sia stato ottenuto alcun miglioramento ecologico - anche i sostenitori più entusiasti non affermano il contrario - un'enorme quantità di denaro è stata trasferita agli azionisti di industrie che, ironia della sorte, spesso appartengono al settore delle energie fossili.

Questo mostra chiaramente l'intenzione di trasformare la transizione ecologica in una nuova opportunità di accumulazione di capitale e sfruttamento delle risorse, i cui costi – ancora una volta – sarebbero scaricati sulla natura e sulle classi lavoratrici. 

Il governo, infatti, ha continuato le sue interlocuzioni con le maggiori compagnie energetiche e di armi del Paese, responsabili del degrado ecologico, della crisi climatica e di politiche militari e coloniali perseguite a difesa degli asset strategici. 

Nel frattempo, proprio queste multinazionali, dopo aver ricevuto generosi aiuti pubblici senza alcuna condizione, si preparavano a lasciare il Paese e a trasferirsi in nome della transizione ecologica e della competitività di altri mercati rispetto a quello italiano.

Se già nel 2019 il modello di mercato per governare la crisi climatica stava crollando sotto la pressione di vecchi e nuovi movimenti, dalle lotte territoriali a Fridays for Future e XR, le ultime mobilitazioni hanno dimostrato che la "transizione ecologica top-down" non ha saputo mantenere le proprie pretenziose promesse. 

Mentre le emissioni climalteranti, le ondate di calore, la siccità e gli incendi continuano a crescere senza sosta, anche i diritti sociali vengono attaccati. 

Il giorno successivo alla scelta del governo italiano di sbloccare la possibilità di rescindere i contratti, diverse aziende, come GKN Driveline, si sono precipitate a fare le valigie e ad andarsene, portando con sé i profitti ottenuti grazie al lavoro di quegli stessi operai che, durante il lockdown, erano stati considerati essenziali. 

Queste aziende hanno lasciato un deserto fatto di edifici vuoti e lavoratori senza garanzie né diritti, costretti ad affrontare i crescenti costi della vita, la guerra e i continui attacchi alle scarse misure sociali esistenti. 

Questa catena di processi è stata evidenziata e agita sinergicamente dalla giustizia climatica e dai movimenti dei lavoratori, la cui alleanza si è rivelata fondamentale per le conquiste degli anni '70 ma poi è stata sopraffatta dalla ristrutturazione neoliberista del capitalismo.

In particolare, il Collettivo di Fabbrica ex GKN, protagonista di numerose mobilitazioni istigate dal licenziamento collettivo del 9 luglio 2021, si è aperto a uno scenario radicale di convergenza e insurrezione capace di minare e decostruire la dicotomia ambiente-lavoro e di costruire un conflitto sociale capace di mettere al centro il 99% del movimento Occupy a Wall Street. 

Dal recupero della tradizione dell'ecologia operaia, alla convergenza con Fridays for Future, dal rifiuto della guerra alla convergenza con la rete lgbtqia+ & Disability “Stati Genderali”, il Collettivo di Fabbrica ex GKN ha aperto un prezioso spazio di discussione nel mondo operaio e per la mobilitazione collettiva, con due date chiave. 

ll 26 marzo 2022 a Firenze, subito dopo lo sciopero per il clima di FFF del 25 marzo, il movimento per la giustizia climatica è sceso in piazza con lo slogan “Siamo natura ribelle”. 

Pochi mesi dopo, il 22 ottobre a Bologna, le mobilitazioni si sono concentrate sul nesso tra mobilità pubblica e mobilità sostenibile, verso la quale il Collettivo di Fabbrica avvia una riflessione sulla riconversione industriale, contro grandi opere di sviluppo (come il nuovo piano autostradale di Bologna) e con le reti per la sovranità alimentare, la cui importanza è ancora più evidente in mezzo alla crisi dei prezzi e dell'offerta di beni di prima necessità come il grano, e alle nefaste conseguenze della siccità e delle ondate di calore che hanno rovinato molti raccolti.

D'altra parte, gli scioperi per il clima a livello globale hanno posto, in modo nuovo, un'analoga questione politica: vista l'incapacità del mercato di contenere le emissioni inquinanti, come ripensare la tutela dell'ambiente non a scapito della giustizia ma attraverso una lotta efficace contro le disuguaglianze? 

In questa congiunzione tra un tema tipico dell'intervento pubblico nell'economia – come l'inclusione sociale delle classi lavoratrici – e l'esaurimento di un 'progetto' come quello dell''infinità e gratuità' della biosfera, risiede l'originalità della giustizia climatica come orizzonte strategico per intervenire sulla crisi ambientale. 

Il progetto di riconversione industriale dal basso del collettivo ex GKN rappresenta qui un primo e centrale laboratorio politico. 

Infatti, il Collettivo di Fabbrica, insieme a una rete di accademici, mette al centro la proposta di un Hub della mobilità pubblica e sostenibile. 

Al centro di questo progetto di riconversione non c'è solo il ripensamento del ruolo della classe operaia nella transizione ecologica, spinto dall'idea di subordinare la produzione agli standard ambientali e climatici e all'utilità sociale di ciò che viene prodotto, ma anche una profonda riflessione sul rapporto tra i diversi sistemi di conoscenza e la sinergia tra il sapere dei lavoratori e quello accademico. 

Un punto che, come sappiamo, è centrale nell'ecologia politica per la sua capacità di ribaltare i modelli dominanti di elaborazione e di azione.

Immaginare una transizione con tale prospettiva, significa che essa sarà contrassegnata da forti condizionalità: per funzionare, dovrà presentarsi come ecologica, democratica, popolare, transfemminista, anticolonialista e antirazzista.


Commenti