Sembra impossibile oggi negare l'esistenza di un "secondo movimento delle recinzioni".

Non esiste una definizione giuridica riconosciuta di beni comuni
Un bene comune può essere qualsiasi cosa che la comunità riconosca tale da soddisfare un bisogno reale, fondamentale, al di fuori dello scambio di mercato. 
Oltre allo spazio fisico pubblico, nella nozione possono rientrare organizzazioni istituzionali quali le cooperative o le comunità, i trust (gestiti nell’interesse delle generazioni future), le economie di villaggio, i dispositivi per la condivisione dell’acqua e molte altre strutture organizzative, sia antiche che contemporanee. 
L’utilità del bene comune è creata dall’accesso condiviso da parte della comunità e dal processo decisionale diffuso a tutti i livelli.
Le istituzioni comunitarie, attraverso un "controllo diretto e reciproco e un’azione di accompagnamento e sostegno", tendono a contrapporsi al profitto, alla disuguaglianza e al difetto di lungimiranza. 
Le istituzioni dei beni comuni funzionano attraverso il conferimento di potere giuridico diretto ai loro membri – nella ricerca condivisa di un significato o una funzione generativi – e rispondono a bisogni umani concreti di partecipazione, sicurezza e socialità.[1]
Elinor Ostrom ha dimostrato decenni fa, confutando le tesi dell'ecologo (ed eugenista di destra) Garrett Hardin su "La tragedia dei beni comuni", che: "le comunità, intese come l’insieme degli appropriatori e degli utilizzatori delle risorse collettive, sono in grado di gestire le risorse naturali in modo soddisfacente per sé stesse e duraturo nel lungo periodo per le risorse, senza l'interferenza di un’autorità esterna come lo Stato o un privato". 
Le ricerche di Ostrom dimostrano che in tutti i paesi e in tutte le culture esistono istituzioni collettive, cioè insiemi di regole condivise che hanno permesso alle comunità locali di auto-gestire sistemi di risorse ambientali complessi, in modo efficiente e sostenibile per periodi molto lunghi, talvolta per millenni; molti di questi sistemi sono ancora operanti.
Per Giovanna Ricoveri, i beni comuni incorporano un "sistema di relazioni sociali basato sulla cooperazione e sulla partecipazione"; l’esatto contrario dell’individualismo proprietario competitivo su cui si fonda il sistema capitalista.[2]
Il modo di produzione capitalista ha provocato una "deriva storica fondamentale"per la quale si è passati da una situazione di abbondanza di beni comuni e scarsità di capitali, a quella odierna, per la quale si ha un eccesso di capitale e una carenza di beni comuni.
Intorno ai secoli XVI e XVII, in in un mondo caratterizzato da abbondanti risorse comuni (come foreste o risorse ittiche), alle quali facevano riscontro altrettante istituzioni comunitarie (come, ad esempio, le gilde professionali), nuovi istituti quali sovranità dello stato, proprietà privata individuale (alimentata dal denaro) e società per azioni furono creati per "trasformare alcuni beni comuni in concentrazioni di capitale".[3]
Trascorsi circa cinque secoli, alla cultura contemporanea non viene più neppure il sospetto che una gestione efficace dei beni comuni mai potrà essere di tipo privatistico e neppure pubblicistico, ma soltanto di tipo comunitario: una gestione fondata sul principio di reciprocità.
Ciò che le società umane ipertrofiche di questo scorcio di secolo stanno distruggendo non è il pianeta, non è la Terra ma piuttosto l’ambiente dell’uomo: il territorio, cioè "il prodotto culturale del nesso inscindibile fra le comunità insediate ed il loro contesto locale".[4]
Fino alle soglie dell'epoca moderna, dunque, le comunità rurali potevano vantare tutta una serie di diritti consuetudinari su alcune terre aperte, poste solitamente ai margini dei latifondi dei signori.
Queste terre, insieme alle risorse che ospitavano, venivano considerate proprietà comune (né privata né demaniale) e gestite solitamente da organi di autogoverno.
A partire dalla fine del Quattrocento, si verificò il processo noto come "enclosures of the commons" o "recinzione dei beni comuni"; un processo che, per Marx, rappresentava "l'atto di nascita del capitalismo".
Ma i processi di accumulazione originaria, "accompagnano costantemente lo sviluppo del sistema di produzione capitalistico", senza limitarsi alla sua fase iniziale.
Secondo Sandro Mezzadra: "Ogni giorno deve logicamente ripetersi quanto accadde 'per la prima volta', all'origine della storia del capitalismo."
Certo, le recinzioni non sono più l'unica forma di enclosures of the commons, né terre e pascoli sono le uniche risorse comuni colpite da processi di privatizzazione.
Non più solo beni materiali (acqua, terra, foreste) ma anche servizi (con lo smantellamento dello stato sociale e la privatizzazione di molte delle sue funzioni essenziali) e beni cosiddetti immateriali (come l'estensione dei regimi di brevetto e diritto d'autore a conoscenze e saperi tradizionali e non).
Sembra impossibile oggi negare l'esistenza di un "secondo movimento delle recinzioni": una dinamica globale e diffusa di espropriazione di risorse comuni, con conseguente trasferimento di prerogative dal dominio collettivo a quello del mercato.[5]

Sarà dunque "dall’interno delle maglie del potere neoliberale" che ci si dovrà muovere verso la ricerca e la costruzione del comune: "dentro e contro la ragione neoliberale dovrà fissarsi la ragione del comune".
Lo sviluppo delle istituzioni sarà democratico soltanto se aperto al conflitto in quanto fattore costituente
Le istituzioni rappresentano in qualche modo lo "spirito del tempo" e sono quindi soggette a determinati contesti storici e geografici, nonché a determinati rapporti di forza che sono andati consolidandosi nella società. 
Da un lato, le rivolte e le ribellioni che non hanno avuto la possibilità di darsi una continuità istituzionale sono state condannate a essere rapidamente assorbite dall’ordine costituito; dall’altro, la loro cooptazione all’interno dei regimi istituzionali è stata funzionale al tentativo di ricucire gli strappi provocati dalle insorgenze e dissimulare il conflitto. 
Un "processo istituzionale radicato sul conflitto" potrebbe consolidare l’insurrezione, senza con ciò negare la sua capacità di rottura e il suo potere; in un certo senso la democrazia sarebbe il "regime che rende il conflitto legittimo". 
Le lotte, o le rivolte, diventano potenti e durature quando sono in grado di inventare e istituzionalizzare nuove pratiche collettive, ovvero quando sono in grado di creare "nuove forme di vita e nuovi modi di stare al mondo”. 
Secondo questa accezione le istituzioni non sarebbero dunque un potere "costituito", cristallizzato una volta per tutte, ma un potere "costituente", nella misura in cui norme e obblighi istituzionali non sono effetti di un trasferimento di diritti sovrani, ma di "interazioni regolari sistematicamente aperte a processi di negoziazione".[6]
Massimo De Angelis definisce sistema sociale del Comune:
1) il bene comune o commonwealth;
2) la comunità ad esso legata;
3) la pratica del commoning intesa come quel "momento di sintesi generativa" tra le prime due componenti. 
Per beni comuni si intende, genericamente, un insieme di "cose" materiali ed immateriali: risorse comuni  come un ecosistema (un fiume, un bosco, un parco) o come un insieme di unità di risorse (finanziarie, tecniche, umane, simboliche...), "messe in un vaso comune da una comunità".
La comunità di commoners, in strettissima relazione con il bene comune attorno a cui si costruisce, è una comunità di soggetti costituita soprattutto da interrelazioni (condivisione, cura, rigenerazione) nonché dalla comune gestione del bene e dalla sua riproduzione, che è la riproduzione della comunità stessa. 
"Una qualità dei rapporti costruiti in un movimento costante", che va dagli individui al bene, e i cui effetti benefici ricadono sugli individui e sul bene. 
Proprio questo movimento costituisce il commoning, cioè il "fare-insieme" che ha come presupposto un "insieme di significati e valori condivisi, comprensibili, performabili o evocativi"; insomma un terreno comune che faciliti la governabilità del common in forma autogestita, non gerarchica e "motivata dalla riproduzione affettiva, materiale, immateriale e culturale də commoners, delle loro relazioni e del bene". 
La comunità, nel dare valore al bene che ne permette la riproduzione veglia su sé stessa, risolve conflitti, si autogestisce trovando collettivamente lo spazio e il tempo per indagare sulle relazioni che all’interno si dispiegano. 
Ponendosi l’obiettivo della propria riproduzione e della cura del territorio, la comunità dei commoners si costruisce sulla qualità dei rapporti, poiché "da questi ultimi deriva l’effettiva capacità di creare e ricreare comune".[7]
Il Comune come principio politico è, per Stefania Barca: "qualcosa per cui ci si mobilita e che si costruisce con la lotta e la negoziazione continua e paziente tra le diverse identità insorgenti e le diverse istanze; non è un principio definito una volta per tutte ma qualcosa da conquistare."
Nell’ultimo decennio, il principio del Comune si è incarnato in una serie di attivitá politiche e sociali che hanno preso vari nomi: beni comuni, commoning, occupy, P2P, comunalismo, ma anche Pacha Mama, Buen Vivir, Ubuntu
Sul Comune come principio politico si incontrano, secondo Barca, diverse tradizioni di pensiero politico, giuridico e filosofico: dal marxismo (attraverso l’esperienza storica della Comune di Parigi) all’ecologia sociale di Murray Bookchin (ispiratrice della rivoluzione in Rojava), allo zapatismo e alle diverse rivendicazioni territoriali delle comunitá indigene ai quattro angoli della terra. 
Oggi, a livello globale, esiste una diffusa coscienza del comune, cioè una "coscienza sociale ed ecologica al tempo stesso", consapevole di quanto i rapporti sociali si inscrivano dentro reti di interdipendenza tra le diverse forme di vita, e tra il vivente e l’ambiente fisico che lo sostiene. 
Secoli di capitalismo, colonialismo, sessismo, razzismo e "ideologia dello sviluppo" hanno trasformato questa interdipendenza in rapporti di dominio, e dunque la mobilitazione ecologica si presenta oggi primariamente come "lotta di liberazione e di emancipazione dal nodo congiunto dell’oppressione sociale e ambientale".
Oggi più che mai c'è bisogno di una coscienza di classe ecologica; la consapevolezza, cioè, che "le lotte ambientali sono lotte contro le disuguaglianze sociali a tutti i livelli, dal locale al globale", e sono dunque lotte anti­capitaliste, antirazziste, anti­sessiste, anti-colonialiste e anti­produttiviste. 
Il principio del Comune è una cornice ideologica e di lotta all'altezza della posta in gioco: "è un principio politico che riassume tutto ció che capitalismo, razzismo, sessismo, colonialismo e produttivismo hanno provato ad annientare da secoli a questa parte".[8]



[1] U. Mattei "I beni comuni come istituzione giuridica";
[2] G. Ricoveri "I beni comuni e la crisi, il pensiero di Elinor Ostrom";
[3] E. Leonardi e A. Barbero "Il Comune e il Capitale; per una bibliografia ragionata di ecologia politica". 
Recensione al libro di F. Capra e U. Mattei "Ecologia del diritto; scienza, politica, beni comuni";
[4] S. Zamagni "Le economie del territorio bene comune";
[5] L. Coccoli "Omnia sunt communia. Ieri, oggi, domani: i beni comuni tra passato e futuro" (introduzione);
[6] D. Cattarossi "Alla ricerca del comune: il potenziale rivoluzionario di un concetto";
[7] R. V. Falco e R. Milani "A proposito di fratture, comunanza e lotte agroecologiche: riflessioni in movimento";
[8] S. Barca "Per un'ecologia del comune";



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