Si fonda sull’imposizione di una classificazione razziale/etnica delle popolazioni del mondo e costituisce un principio che continua ad operare su soggetti e spazi sociali ben oltre l’esistenza storica degli imperi e degli stati coloniali.
L'affermazione storica del principio di colonialita' è stata alimentata, secondo Grosfoguel, da "quattro epistemicidi" che si sono tra loro intrecciati all’origine della modernità, attraverso la distruzione dei saperi: di musulmani ed ebrei nella conquista di Al-Andalus; dei popoli indigeni nel continente americano e in Asia; degli africani ridotti in schiavitù; delle donne perseguitate ed accusate di stregoneria in Europa.
Le origini di questo principio ordinatore risalgono alla vittoria definitiva della Monarchia spagnola a Granada e alle prime spedizioni di conquista nelle Americhe, nel 1492.
Si impose da allora l’imperativo, antagonista a qualunque pluriversalismo, dell’uni-versale, (uni-voco, uni-tario): uno Stato, un'identità, una religione.
Negli ultimi cinque secoli, i rapporti capitalistici si sono combinati con ulteriori rapporti di dominazione, organizzando le popolazioni del pianeta secondo una “differenza coloniale”.
Il mondo contemporaneo è organizzato secondo specifiche tassonomie gerarchiche: dai modi di pensare ai contenuti della conoscenza, dai generi alle razze, dai territori alle religioni.[1]
L'epoca moderna, inaugurata dalla conquista e dallo sterminio delle popolazioni che abitavano il continente americano (congiuntamente alla posizione di inferiorità imposta alle donne all'interno della società), consenti' alla "vecchia Europa" di espandersi in tutto il mondo tramite lo sfruttamento delle colonie (e delle loro materie prime) e il commercio, dando avvio alla costruzione del potere economico mondiale come lo conosciamo oggi.
Mentre i filosofi europei moderni elaboravano teorie politiche e giuridiche basate sullo stato di diritto, la libertà e la proprietà, dall'altra parte del mondo altri europei sterminavano intere popolazioni, depredandole delle loro terre e in molti casi riducendole in schiavitù.
La convinzione dell'inferiorità razziale, biologica e naturale, delle popolazioni conquistate giustificò la schiavitù e lo sfruttamento di intere comunità.
L'uomo bianco, detentore esclusivo della ragione, del metodo scientifico e del progresso tecnologico, quindi del sapere, aveva reso alle popolazioni conquistate nuove identità, negative e coloniali.[2]
In Africa, come in Asia o nelle Americhe, gli esseri umani furono considerati "tutt’uno con la natura", nel senso di un assorbimento totale dei primi da parte della seconda.
Ridotti allo "stato di natura" e privati di una vera e propria identità culturale, gli umani (e i non umani) poterono essere utilizzati per le finalità produttive della colonizzazione.
Nella divisione ideologica tra società e natura, fondativa della modernità europea, i popoli indigeni furono (e talvolta ancora oggi sono) collocati nella sfera degli elementi naturali, dunque nella categoria degli oggetti di cui la società europea poteva (e può) disporre gratuitamente o, nelle parole di Moore, "a buon mercato".[3]
D'altra parte, fu solo con l’espansione del capitalismo coloniale che l'idea di razza cominciò a caricarsi di connotati chiaramente gerarchici e suprematisti.
Gli europei infatti, prima della conquista dell’America, non si erano mai rivolti agli africani e agli asiatici, con cui pure avevano avuto rapporti praticamente da sempre, in termini razziali.
Difatti la categoria di razza è stata applicata per la prima volta ai nativi americani (indios), non ai neri.
La codificazione in virtù del colore della pelle avverrà solo più tardi, con la schiavitù (nera) della piantagione, in America del Nord e nei Caraibi.
L’idea di razza, nel suo senso moderno, non ebbe dunque storia prima della conquista dell’America.
La formazione di rapporti fondati su quest'idea produsse identità sociali storicamente nuove come "indios", "neri" o "meticci" e ne associò la natura dei ruoli ai luoghi di origine, integrandole nella nuova struttura globale e coloniale di controllo del lavoro.
Nacque così una sistematica divisione razziale del lavoro, e una nuova tecnologia di sfruttamento razza/lavoro venne articolata in modo da apparire come "naturalmente associata".
Secondo Miguel Mellino, dal XVI secolo in poi, capitalismo e razzismo (capitale e razza) appariranno talmente intrecciati da rendere praticamente impossibile pensare l’uno senza l’altro.[4]
Le popolazioni indigene e le comunità locali furono dunque trattate come oggetti da soggiogare, rimuovere o eliminare; per sfruttarne il lavoro, garantire un "libero accesso" alle loro terre e un uso “produttivo” delle risorse.
Questa ideologia coloniale della terra persiste tutt'oggi nelle politiche di conservazione, continuando a perpetrare ingiustizie e violenze a spese delle popolazioni indigene e dell'ambiente.
Infatti, le modalità prevalenti di conservazione, nate negli Stati Uniti all'inizio del XIX secolo e più tardi note come "conservazione fortezza" o "conservazione coloniale", si fondano sulla convinzione che la protezione della biodiversità dipenda dalla creazione di "aree protette", in cui gli ecosistemi possano funzionare in "isolamento dal disturbo umano".
Questi approcci presupponevano, come talvolta fanno tutt'oggi, che le popolazioni locali utilizzino le risorse naturali in modi irrazionali e distruttivi, causando perdita di biodiversità e degrado ambientale.
Al contrario, è stato ripetutamente dimostrato come sia stata proprio la supremazia riposta sulla proprietà individuale (con il corrispondente non riconoscimento del possesso fondiario, tradizionale o consueto) ad aver contribuito in modo decisivo alla deforestazione e alla perdita di biodiversità.[5]
Le iniziative di conservazione non dovrebbero depoliticizzare né rendere invisibili i lasciti di passati violenti ma, al contrario, permettere che le forme di produzione della conoscenza, le teorie, i metodi e le pratiche della ricerca, possano mettere in discussione le relazioni di dominio persistenti.
In altre parole, narrazioni e approcci di conservazione andrebbero "decolonizzati".[6]
I Green Grab, ad esempio, appropriazioni di risorse naturali per "fini ambientali", sono spesso serviti (e tutt'oggi servono) a ripulire l'immagine di chi inquina facendo profitti, con devastanti conseguenze sociali e ambientali.
La logica dietro queste iniziative guidate dal mercato è quella di "vendere la natura per salvarla"; così, sebbene sia proprio la presenza di aziende e industrie estrattive a comportare gli effetti maggiormente negativi per gli ecosistemi, sono le comunità locali e le popolazioni indigene, con una capacità maggiore di proteggere le risorse naturali, a subire sfratti violenti.
Questi accaparramenti di terre (Land Grab) contribuiscono all'aumento delle disuguaglianze e all'esclusione, nonché ad un massiccio aumento di presenze negli slums.
La mobilità spesso risulta essere solo uno dei possibili esiti di un multiforme “pacchetto” che include la perdita di reti sociali e capitale, di beni economici e materiali, di potere, di diritti politici e legali, persino di tradizioni culturali.
Anche i progetti per il clima, come quelli di conservazione possono talvolta fungere da meccanismo per legittimare l'espulsione dei più vulnerabili, finendo per rafforzare e centralizzare ulteriormente il controllo delle risorse naturali proprio nelle mani delle stesse élite politiche e aziendali responsabili del cambiamento climatico.[7]
Land e Water Grabbing sono spesso considerati processi strettamente interdipendenti, perché l'accaparramento di vasti terreni risulta in molti casi strumentale all’acquisizione delle acque presenti in superficie o nel sottosuolo.
Tra le aree maggiormente interessate da questi fenomeni si trovano varie regioni dell’Africa, soprattutto sub-sahariana, diverse isole localizzate tra l’Oceano Indiano e quello Pacifico e altri territori in Brasile e in Russia.
Nel Water Grabbing rientra anche il processo di privatizzazione dell’acqua, che inizialmente diffusosi nei Paesi in via di sviluppo, è oggi presente anche nei Paesi avanzati.
Ma è lo sfruttamento agricolo intensivo, ovunque, una tra le pratiche di Land e Water Grabbing più impattanti in assoluto; infatti, a causa dell’utilizzo di ingenti quantitativi d’acqua e di sostanze chimiche nocive che permangono nel sottosuolo, spesso si compromettono le falde acquifere, con grave pregiudizio per gli ecosistemi e le comunità locali.[8]
Attivisti indigeni ed ambientalisti hanno ripetutamente evidenziato come queste pratiche di accaparramento di terre, estrazione di risorse, sfollamenti ed espropriazioni, siano tutte forme molteplici di perpetuazione del colonialismo.
Per una moltitudine di soggetti la ferita coloniale è scolpita nei corpi e nelle menti; una ferita incarnata, che riproduce le ingiustizie del colonialismo e dell'imperialismo attraverso gli impatti climatici sulla post-colonia (situata principalmente nei Paesi tropicali e subtropicali), dove i disastri e i cambiamenti indotti dal clima sono oggi più evidenti.
Secondo Sultana, il cambiamento climatico non mette a nudo solo il colonialismo del passato, ma anche la "colonialità in corso" che governa e struttura le nostre vite.
Le vulnerabilità e le emarginazioni, i morti e le devastazioni di oggi, richiamano l'attenzione sulle continuità dal passato verso il futuro: una "violenza lenta" che penetra insidiosamente in diversi aspetti della vita, creando traumi intergenerazionali destinati a permanere a lungo.
Ma la marginalità, molto più che un luogo di privazione è anche il luogo di una possibilità radicale: è uno spazio di resistenza, dove la conoscenza può essere prodotta "al di fuori della modernità ma in relazione ad essa", integrando contributi decoloniali, anticolonialisti e femministi.[9]
Per rompere con il principio di colonialità e dunque decolonizzare il mondo, andando definitivamente oltre le relazioni di dominio coloniale e le loro strutture di potere e di pensiero, è necessario assumere un approccio pluriversale che sappia andare oltre gli universalismi provinciali: per ripensare il mondo da una pluralità di luoghi ed esperienze.[10]
[1] introduzione di G. Avallone al libro di R. Grosfoguel "Rompere la colonialita'";
https://www.academia.edu/36188936
[2] M.Guerra "Oltre il dualismo natura-cultura: Bateson, Ingold, Descola";
https://www.academia.edu/12995249
[3] V. Bini "Ecologia politica dell’Africa a Sud del Sahara: un’introduzione teorica";
https://freebook.edizioniambiente.it/libro/133/Africa_la_natura_contesa
[4] M. Mellino "Cittadinanze postcoloniali, colonialità, razza e razzismo in Italia e in Europa";
https://www.academia.edu/38444535
[5] L. Domínguez e C. Luoma "Decolonising Conservation Policy: How Colonial Land and Conservation Ideologies Persist and Perpetuate Indigenous Injustices at the Expense of the Environment";
https://doi.org/10.3390/land9030065
[6] E. Marijnen e R. Lotje de Vries "Conservazione in ambienti violenti";
https://doi.org/10.1016/j.polgeo.2020.102253
[7] S. Vigil "Green Grabbing-Induced Displacement";
https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/green-grabbing-induced-displacement-19959
[8] F. Krasna "Acqua oro blu del pianeta tra scarsità, 'water grabbing' e insufficiente consapevolezza del problema";
https://www.openstarts.units.it/handle/10077/30600
[9] F. Sultana "The unbearable heaviness of climate coloniality";
https://doi.org/10.1016/j.polgeo.2022.102638
[10] introduzione di G. Avallone al libro di R. Grosfoguel "Rompere la colonialita'";
https://www.academia.edu/36188936
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