Mettere in discussione le basi materiali (e ideologiche) delle economie di crescita e l'infrastruttura culturale che le giustifica.


La decrescita è stata descritta come un "downshifting selettivo, equo e democraticamente guidato, dei livelli di produzione e consumo, che sostiene il benessere umano, la giustizia sociale e le condizioni ecologiche, riducendo al contempo la mercificazione e la commercializzazione della vita sociale."

Radicato negli anni '70, nel dibattito sui limiti alla crescita, il concetto di decrescita è emerso con vigore dall'inizio degli anni 2000, nei movimenti sociali e nei circoli accademici e intellettuali, per sottolineare le contraddizioni insite nell'idea capitalista di "sostenibilità ecologica": un'idea basata sull'eccessiva fiducia nella tecnologia e nei meccanismi di mercato. 

La decrescita non mette in discussione solo le basi materiali e ideologiche delle economie di crescita, ma anche l'infrastruttura culturale che le giustifica.

Le società hanno sempre stabilito dei limiti, in forme diverse: la pratica e gli schemi comunitari di vecchia data che persistono, nonostante la continua spinta all'esproprio, lo illustrano in modo evidente. 

Illusioni come "nessun limite" o "i vincitori prendono tutto", sono del tutto nuove; sono state introdotte nell'immaginario capitalista come controparte di un mondo di "scarse risorse", dove i più adatti devono sopravvivere mentre il resto può non servire o non sopravvivere affatto. 

Questa libertà per pochi ha assunto la forma di un "modo di vita imperiale" (a spese degli altri) attraverso l'espansione (colonialismo, neoestrattivismo), lo sfruttamento di fattori di produzione a basso costo (lavoro schiavizzato, sfruttato e precarizzato), l'intensificazione della produttività e l'esternalizzazione delle conseguenze su gruppi sociali subalterni e future generazioni (rifiuti, distruzione di comunità basate sulla sussistenza).

In un mondo di limiti sociali, le condizioni per vivere una vita buona sarebbero invece definite attraverso un "processo collettivo che tenga conto dei conflitti sociopolitici". 

Nel concetto di confini della società, la libertà come autonomia sarebbe assicurata da un "giusto processo deliberativo che porti a regole sociali e politiche che garantiscano le condizioni sostanziali di una vita buona per tutti".[1]

Secondo Riccardo Mastini, larga parte delle proposte eco-sociali contemporanee si allinea a tre obiettivi politici generali. 

Il primo è diminuire l’impatto ambientale delle attività umane attraverso la riduzione del consumo di materiali e di energia, incentivando la produzione e il consumo locale e promuovendo cambiamenti nei modelli di consumo.

Il secondo è redistribuire la ricchezza, sia fra paesi che all’interno di questi ultimi, promuovendo le valute locali o gli istituti di credito alternativi e un equo accesso alle risorse attraverso politiche di redistribuzione del reddito, e riducendo gli orari di lavoro per più facilmente ridistribuire l’impiego e creare un reddito di base. 

Il terzo e ultimo obiettivo è favorire la transizione verso una società conviviale e partecipativa, promuovendo stili di vita a basso impatto ambientale.[2]

Carla Ravaioli lo diceva a chiare lettere: "Produrre meno".

"Adire ad una selezione dei prodotti di imprescindibile utilità sociale e diminuire gradualmente la produzione del superfluo."

Ciò comporterebbe progressivamente una forte riduzione della giornata lavorativa. 

Sarebbe la possibilità di avvio non solo di un uso diverso, ma di una diversa concezione di quello che non a caso è stato chiamato «tempo libero» o «tempo di vita».

Tempo cioè in cui cercare la vera realizzazione di sé, impostare e sperimentare secondo la propria inclinazione, i propri ritmi e il proprio estro, secondo una dimensione non utilitaristica, separata dalla logica dello scambio e dall’obiettivo del reddito.

Ridurre la pressione sociale sul perseguimento di risultati economici in nome della competitività, cancellerebbe ogni ragione per l’attribuzione dell’intero carico familiare alla sola donna, creando l’oggettiva possibilità di un’equa ripartizione di tale compito tra i coniugi o tra tutti i membri della famiglia.

Lo "sviluppo senza fine", modello dell’economia capitalistica, mentre spinge fino allo spreco i consumi nei paesi a industrializzazione avanzata, non garantisce in alcun modo una produzione capace di alleviare la penuria dei paesi ancora al di sotto della possibilità di soddisfare i propri bisogni primari.

Finché la crescita del prodotto sarà l’obiettivo primo del nostro agire economico, anzi dell’intera nostra esistenza, è inutile sperare nell'uguaglianza, o anche in meno disuguaglianza: "più sfruttamento, più povertà, più esclusione, sono i soli strumenti che ancora (non sappiamo per quanto) possono garantire aumento del PIL".[3]

La crescita del PIL ha rappresentato finora per gli economisti l'indice con cui misurare il benessere nazionale e sociale, ma ora appare chiaro quanto l'aumento della produzione comprometterebbe ulteriormente la possibilità di produrre in futuro e avrebbe luogo, sempre di più, a spese di un ambiente naturale delicato e in pericolo. 

La constatazione che il sistema in cui viviamo ha dimensioni finite e che i consumi di energia comportano costi crescenti, impone decisioni nelle varie fasi del processo economico, nella pianificazione, nello sviluppo e nella produzione. 

Dobbiamo sostituire all'ideale della crescita, che è servito come surrogato della giusta distribuzione del benessere, una visione in cui produzione e consumo siano subordinati ai fini della sopravvivenza e della giustizia. 

Nicholas Georgescu-Roegen nelle sue opere sostiene che qualsiasi scienza che si occupa del futuro dell'uomo, come la scienza economica, non può procedere "senza tenere conto della ineluttabilità delle leggi della fisica"

La principale, espressa dal secondo principio della termodinamica, spiega che alla fine di ogni processo la qualità dell'energia peggiora sempre. 

Per qualità va intesa la "qualità merceologica", cioè l'attitudine dell'energia ad essere ancora utilizzata da qualcun altro. 

Qualsiasi processo che fabbrica merci e beni materiali "aumenta l'entropia"; impoverisce, insomma, la disponibilità di energia nel futuro e quindi la possibilità di produrre altre merci e beni materiali. 

Bisognerebbe invece osservare i cicli biologici, che riciclano tutte le scorie vegetali e animali.

Al contrario, cicli umani sempre più aperti producono, insieme ad una crescente quantità di beni materiali e merci, anche una maggiore quantità di scorie con cui fare i conti. 

Per sopravvivere su un pianeta di dimensioni e risorse limitate, produzione e uso di beni materiali non solo non possono continuare a "crescere", non basta neanche che diventino stazionari: devono diminuire![4]


Secondo Serge Latouche: "Proseguire con questa dinamica di crescita ci metterà di fronte alla prospettiva di una scomparsa della civiltà così come la conosciamo, non fra milioni di anni o fra qualche millennio, ma entro la fine di questo secolo".

Il fallimento dello "sviluppo" nel Sud del pianeta e la perdita di punti di riferimento nel Nord, hanno rimesso in discussione la società dei consumi e le sue basi immaginarie: il progresso, la scienza e la tecnica.

Decrescita è una parola d'ordine che invita ad abbandonare radicalmente l'obiettivo della "crescita per la crescita", un obiettivo il cui motore non è altro che la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale e le cui conseguenze sono disastrose per l'ambiente.

I limiti della crescita sono definiti, nel contempo, sia dalla quantità disponibile di risorse naturali non rinnovabili sia dalla velocità di rigenerazione della biosfera per le risorse rinnovabili.

Storicamente, nella maggior parte delle società, queste risorse erano considerate essenzialmente beni comuni che, nella maggioranza dei casi, non appartenevano a nessun singolo individuo; ciascuno poteva goderne nei limiti delle regole d'uso della comunità.

Perlopiù, l'assenza di mercificazione sistematica dei beni naturali e i "costumi", limitavano i prelievi a un livello che non ne comprometteva la riproduzione.

La relazione della maggior parte delle società tradizionali con la natura, si fondava (e si fonda) su un armonioso inserimento dell'uomo nel Cosmo; su rapporti di reciprocità tra gli uomini e il resto dell'universo.

La modernità, eliminando la capacità di rigenerazione della natura e riducendo le risorse naturali a materia prima da "sfruttare", anziché "attingerne", ha eliminato questo rapporto di reciprocità.

Gli artigiani e i contadini che invece hanno conservato, ancora oggi, gran parte dell'eredità dei modi ancestrali di fare e pensare, vivono generalmente in armonia con il loro ambiente; non sono cioè "predatori della natura".[5]

Per Federico Demaria la decrescita è una visione che propone un nuovo immaginario, un cambiamento della cultura e una riscoperta dell’identità umana, libera(ta) dalle rappresentazioni economiche. 

I due principali pilastri di questo processo di liberazione sono l’anti-utilitarismo e la critica dello "sviluppo"

L’anti-utilitarismo si concentra nella critica dell’homo economicus, ovvero delle fondamenta antropologiche della scienza economica (che vede la massimizzazione dell’utilità come motore ultimo del comportamento umano), invitando a considerare visioni più ampie, che diano importanza alla convivialità e alle relazioni sociali basate sulla condivisione, il dono e la reciprocità.

La concezione degli esseri umani come "agenti economici guidati dal proprio interesse personale (egoismo) e dalla massimizzazione dell’utilità" è una "rappresentazione del mondo", un costrutto sociale storico che ha nidificato nelle menti di molte generazioni di studenti di economia (e non solo). 

Il concetto di "Sviluppo" è, invece, il nucleo dell’immaginario occidentale.

Si fonda sulla supposizione che la crescita o il progresso dovrebbero essere in grado di continuare indefinitamente, dando per scontato che ciò renderà il futuro migliore. 

Pertanto, è fondamentale comprendere come lo sviluppo (in modo simile all’utilitarismo) sia un "concetto costruito all’interno di una particolare storia e cultura" e, di conseguenza, una costruzione sociale che deve essere decostruita

Lo sviluppo è diventato una credenza, ovvero una "serie di convinzioni e verità indiscutibili"; il dispiegarsi di una predeterminata e non questionabile freccia del progresso senza fine verso l’orizzonte. 

È invece necessario sfidare i “limiti della nostra immaginazione” e proporre discorsi e narrazioni anti-egemoniche

L’imperativo risiede nel decolonizzare l’immaginario e accettare la diversità di prospettive culturali quali "buen vivir", "ubuntu", "eco-swadeshi" e molte altre; in parole semplici, liberare (o decolonizzare) il campo discorsivo per fare spazio a immaginari alternativi.

Una tra le sfide contemporanee più importanti è infatti quella di recuperare il potere di immaginare: "per costruire significati e mondi diversi".

La libertà inizia con la decolonizzazione dell’immaginario.[6]



[1] U. Brand e altri "From planetary to societal boundaries: an argument for collectively defined self-limitation";

https://doi.org/10.1080/15487733.2021.1940754

[2] R. Mastini "La nostra decrescita non è la loro recessione!";

http://effimera.org/la-nostra-decrescita-non-la-recessione-riccardo-mastini/

[3] M. Ruzzenenti "Carla Ravaioli: un pensiero ecologico profondo"; 

https://www.decrescita.it/decrescita/wp-content/uploads/Carla-Ravaioli-un-pensiero-ecologico-profondo.pdf

[4] G. Nebbia "Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994)";

https://www.fondazionemicheletti.eu/contents/documentazione/archivio/Altronovecento/Arc.Altronovecento.04.16.pdf

[5] S. Latouche "La scommessa della decrescita" (Introduzione); 

[6] F. Demaria "Dirottare l'economia";

http://valderasolidale.it/dirottare-leconomia

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