La "giustizia riproduttiva" è inscindibile dalla giustizia ambientale.

Per secoli, tacitamente, la storia dell’ambiente si è intrecciata alla storia delle donne: storie di identità e di dignità negate, di azioni e di meriti occultati, di un protagonismo pubblico insistentemente osteggiato e sconfessato. 
Consumata la sua funzione biologica e assolti i doveri familiari di sostentamento, cura ed educazione della prole, la donna scivola nell’ombra, smarrendo significato e rilievo. 
Non diverso destino sembra toccare alla natura: adempiuto il compito di alimentare e arricchire i figli umani, essa rischia di perdere interesse e valore ai loro occhi.
L'immaginario maschile ha assimilato in un’unica entità le due identità: “Qualcosa(la donna/natura) che appartiene a “qualcuno” (l’uomo/cultura).[1]
Secondo Silvia Federici, esisterebbe una specifica relazione tra le recinzioni dei terreni comuni (cioè lo smantellamento della proprietà collettiva) e la demonizzazione di donne appartenenti alle comunità colpite; una relazione tale da rendere la caccia alle streghe un efficace strumento di privatizzazione economica e sociale.
Le cosiddette "enclosures" furono il processo attraverso il quale proprietari terrieri ed agricoltori abbienti, nell'Inghilterra del tardo Quattrocento, alzarono recinti attorno alle terre comuni, ponendo fine ai diritti consuetudinari ed espellendo la popolazione dei braccianti e dei poveri, la cui sopravvivenza dipendeva dall'accesso alle risorse comunitarie.
La caccia alle streghe fu prevalentemente un fenomeno rurale che interessò perlopiù le regioni in cui le terre erano state privatizzate o erano in procinto di esserlo.
Ad essere maggiormente colpite furono le donne più anziane, in quanto l'aumento dei prezzi e la perdita dei diritti consuetudinari sulle terre comuni le lascio' prive di risorse per vivere, specialmente se vedove o senza figli che potessero o volessero aiutarle.
Alla povertà, che faceva da sfondo alle accuse per stregoneria, bisogna collegare anche la crescente misoginia delle politiche istituzionali, che relegarono le donne a una posizione sociale subordinata rispetto agli uomini, punendo severamente qualsiasi affermazione di indipendenza e considerando ogni forma di libertà sessuale come una sovversione dell'ordine sociale.
La strega, infatti, spesso contraddiceva il modello di femminilità che nell'Europa dell'epoca veniva imposto alle donne tramite la legge, il pulpito e la riorganizzazione della famiglia.
In altri casi, le streghe erano guaritrici che praticavano varie forme di magia, attività per le quali godevano del riconoscimento delle comunità, ma che col tempo le portarono ad essere viste come un pericolo dalle autorità locali e nazionali, che avversavano ogni forma di potere popolare.
Le enclosures non riguardarono solo le terre comuni, ma rappresentarono (e rappresentano tutt'oggi) anche una "recinzione dei saperi, dei corpi, del rapporto con gli altri e con la natura".[2]
L’ecofemminismo, ponendo l’enfasi sulla interconnessione di tutte le forme di vita, offre una "teoria etica basata sui valori dell’inclusione e della relazione, sulla valorizzazione della conservazione della vita (di tutti i viventi), partendo dalla consapevolezza della vulnerabilità di ciascuno". 
Maria Mies, Veronika Bennholdt-Thomsen e Claudia von Werlhof hanno elaborato, a partire dagli anni Novanta, la prospettiva della "sussistenza".
Sussistenza non è sinonimo di povertà, ma è "ciò che esiste di per sé", ciò che sussiste, che permane e che si riferisce al ritmo della vita: "una società di pace tra uomini, donne e generazioni che non può che includere, senza eccezioni, tutti gli esseri viventi".
Nei recenti dibattiti sulla nozione di intersezionalità, ovvero il modo in cui le relazioni di dominio – di genere, di classe, di razza, nazionalità e sessualità – interagiscono e si rafforzano reciprocamente, il rapporto tra umani e “altri della Terra è ancora ai margini.
Includere i "non -umani" nelle teorie intersezionali, sottraendoli al processo di oggettivazione-smembramento-consumo, significherebbe ricollocare gli umani nei cicli della vita planetaria, in una visione di giustizia ambientale, climatica e di specie.
Sentirsi parte dell’interscambio materiale del mondo, dei processi e dei flussi vitali può dare avvio ad una nuova etica, un’etica femminista fondata sul corpo, sulla sua esposizione e vulnerabilità.
Una "vulnerabilità ribelle" che afferma con forza il valore della biodiversità, delle differenze culturali e sessuali e che può contrastare la mascolinità egemonica del consumo aggressivo, della visione scientifica trascendente e dell’estetica militarista.
Come ha scritto Noel Sturgeon: “Abbiamo bisogno di un approccio che possiamo chiamare riproduzione planetaria”
Un concetto di ri-produzione costruito nel suo senso più ampio, fino ad includere la riproduzione biologica e quella sociale, con l'obiettivo di rinnovare l’ambiente naturale e rigenerare la vita sul pianeta.[3]
Per conseguire tale obiettivo è necessario liberarsi dalle molteplici colonizzazioni del patriarcato capitalista, che ha ridotto la natura e le donne a una colonia. 
Vandana Shiva, filosofa e scienziata indiana, offre un'analisi degli effetti del modello di sviluppo occidentale da un punto di vista femminista ed ecologista, mettendo in relazione due aspetti tra loro interconnessi: la natura e la distruzione ecologica, la donna e l'emarginazione femminile.
Secondo la filosofa indiana, la conoscenza scientifica moderna ha creato un concetto di sviluppo, basato sulle categorie riduzioniste del pensiero e dell'azione scientifica, che si fonda sullo sfruttamento delle donne e della natura.
La subordinazione legata al genere e il patriarcato sono forme di oppressione antiche, ancora oggi tra le più violente.
La scienza moderna è costruita sulla scorta di metafore chiaramente sessiste: "la natura e la ricerca sono state concettualizzate in metodi modellati sullo stupro e sulla tortura"; la stessa caccia alle streghe in Europa avrebbe rappresentato un processo di delegittimazione e di smantellamento della competenza medica delle donne europee.
"Così come la svalutazione e il misconoscimento del lavoro e della produttività della natura hanno condotto alla crisi ecologica, allo stesso modo la svalutazione e il misconoscimento del lavoro femminile hanno creato sessismo e disuguaglianza tra uomini e donne." [4]

La crisi odierna può essere considerata come una "rivoluzione ecologica" di carattere globale, segnata da una triplice trasformazione: quella del modo di produzione (dal predominio del settore manifatturiero a quello dei settori informatico, finanziario, e dei servizi alla persona); quella delle forme della riproduzione, tanto umana (nuova ondata di migrazioni di massa, nuove transizioni epidemiologiche e demografiche) quanto non-umana (sesta grande estinzione nella storia del pianeta); quella ecologica (alterazione permanente della composizione chimica dell’atmosfera e della superficie terrestre). 
Come le precedenti, questa nuova rivoluzione ecologica è segnata da cambiamenti radicali nei rapporti di genere, con una "intensa femminilizzazione della forza lavoro a livello globale, ed una crescente importanza economica del lavoro di cura e di riproduzione". 
Al tempo stesso, essa è accompagnata da una nuova trasformazione della coscienza ecologica collettiva, segnata da nuove forme di consapevolezza e di mobilitazione, tra le quali spiccano le lotte per la giustizia ambientale e climatica.
Da un lato, la triade capitalismo/neocolonialismo/patriarcato, resa ancor più potente e diffusa dalla globalizzazione neoliberista che continua a produrre crisi ecologiche (riducendo persone, lavoro, ambiente e saperi, al solo valore di scambio, la cui massimizzazione è ottenuta con lo sfruttamento e il degrado di corpi, risorse, ecosistemi); dall'altro le forze che contrastano le tendenze distruttive delle trasformazioni in atto: "dal conflitto tra queste forze dipende, in ultima analisi, l’esito della rivoluzione ecologica in corso". 
Per Stefania Barca, grande importanza rivestono le “forze della riproduzione”, cioè il lavoro di cura, sostentamento, ri/generazione, conservazione e trasmissione intergenerazionale della vita umana, animale e vegetale, così come delle condizioni geofisiche che la rendono possibile e dei saperi che promuovono relazioni di interdipendenza tra produzione, riproduzione ed ecologia.
Data la divisione sessuale del lavoro che caratterizza tanto le società ricche quanto quelle povere, questo lavoro di riproduzione è svolto in maggioranza dalle donne, spesso in forma non salariata, ed è dunque sottostimato nelle statistiche ufficiali e sottovalutato nei rendiconti del PIL. 
Questa invisibilità e la de-valorizzazione del lavoro di riproduzione che essa comporta, concorrono a determinare il fatto che, pur essendo le maggiori produttrici del “valore metabolico” che tiene in vita la specie umana e riproduce le sue condizioni di sussistenza, le donne sono oggi la popolazione più vulnerabile ai cambiamenti catastrofici in atto nel sistema terrestre; una vulnerabilità dovuta all’effetto congiunto di maggiore povertà e minore accesso alle risorse rispetto agli uomini.[5]
Secondo Carolyn Merchant "un’etica di partnership" rappresenterebbe la sintesi tra un approccio ecologico basato sulla considerazione morale per tutte le cose viventi e non, e un approccio basato sul bene sociale e l’adempimento dei bisogni umani fondamentali. 
Infatti, come tutti gli umani hanno bisogno di cibo, vestiti, riparo ed energia, anche la natura ha un eguale diritto a sopravvivere. 
Una nuova etica, che interroga la nozione di mercato senza regole e critica severamente un’etica egocentrica – ciò che è bene per l’individuo è un bene per la società – proponendo invece una "partnership tra la natura non-umana e la comunità umana".
Gli umani, in quanto portatori di etica, dovrebbero riconoscere la natura non-umana come agente autonomo, che non può essere predetto o controllato, fatta eccezione per ambiti molto limitati. 
Dovrebbero anche ammettere di avere il potenziale di distruggere la vita con il nucleare, i pesticidi, i prodotti chimici tossici, lo sviluppo economico incontrollato; e dovrebbero smettere di creare profitto per pochi a spese di molti. 
Si potrebbero, invece, organizzare le nostre forze politiche ed economiche per soddisfare i bisogni vitali di cibo, vestiario, riparo ed energia; provvedere alla sicurezza della salute e del lavoro, all’educazione dei figli e alla cura degli anziani: "Lasciamo alcuni fiumi allo stato selvaggio e libero, lasciamo che alcune pianure detritiche rimangano delle paludi.
Limitiamo l’estensione dello sviluppo, lasciamo degli spazi liberi, piantiamo vegetazione resistente al fuoco".
Abbiamo bisogno di condurre delle negoziazioni di partnership in cui la natura non-umana e le persone coinvolte siano equamente rappresentate.
Un’etica di partnership renderebbe visibili le connessioni tra le persone e l’ambiente.
È necessario uno sforzo per trovare nuove forme culturali ed economiche che possano soddisfare i bisogni vitali ed innalzare la qualità della vita senza degradare l’ambiente locale e globale. 
Adottare un’etica di partnership comporta, secondo Merchant, la creazione di una nuova narrazione, o di una serie di narrazioni, sul ruolo dell’essere umano nella storia e in natura: "Come i nostri simili nei secoli precedenti, anche noi viviamo le nostre esistenze come personaggi nella grande narrazione entro cui siamo stati inseriti da bambini e alla quale ci conformiamo da adulti". 
Quella narrazione è spesso la storia raccontata dalla società dominante, di cui facciamo parte.
Noi interiorizziamo la narrazione raccontata dalle persone al potere come un'ideologia.
Una volta che identifichiamo l’ideologia come una storiapotente e irrefutabile ma pur sempre solo una storia, cominciamo a realizzare che, riscrivendola, possiamo sfidare le strutture del potere; riconosciamo così che tutte le storie possono, e dovrebbero, essere contestate.[6]


[1] Donne in rivista Vol. 15 (2019);
[2] S. Federici "Caccia alle streghe, guerra alle donne" (cap. III);
[3] B. Bianchi "Genere, generazioni e cambiamento climatico";
[4] V. Shiva "Sopravvivere allo sviluppo";
[5] S. Barca "L' Antropocene, una narrazione politica";
[6] C. Merchant "Partnership";

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