Una critica al capitalismo industriale fondata sul rifiuto della divisione sessuale e coloniale del lavoro su scala mondiale.
tratto da "Forze di riproduzione: l'ecofemminismo socialista e la crisi ecologica mondiale"; di Stefania Barca.
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Le origini della crisi affondano nel profondo riassestamento delle interazioni tra società e natura (metabolismo sociale), causato dalla modernità industrial/capitalista.
Un tipo specifico di modernità: quella che pone le forze di produzione, ovvero la scienza occidentale e la tecnologia industriale, quale principio motore del progresso e del benessere umano, considerando la riproduzione umana e non umana come il sostrato passivo della produzione industriale e dell'espansione infinita del PIL.
Questo pensiero considera sia la terra che il lavoro come "risorse necessarie" di cui appropriarsi e da mantenere nel modo meno costoso e più efficiente possibile.
Il pensiero femminista mostra come l'ideologia delle forze di produzione derivi da un modello padronale di razionalità eteropatriarcale, classista, razzista e specista, che è profondamente ancorato alla cultura occidentale e alla sua definizione di progresso.
Il concetto occidentale di umanità è stato associato a quelli di lavoro produttivo, socialità e cultura, distinto dunque dalle forme di lavoro e dai rapporti di proprietà ritenuti inferiori, cioè la riproduzione e la comunanza.
L'economia politica capitalista considera il lavoro riproduttivo come "non lavoro", ovvero senza valore, anche se socialmente necessario al mantenimento del padrone e considera i beni comuni come forme di valore non ancora realizzato, di cui il padrone deve appropriarsi per renderle redditizie.
In questa prospettiva la ricchezza e l'emancipazione umana non possono che nascere nella casa del padrone e, da lì, diffondersi verso il mondo circostante.
Questa idea padronale di umanità si è sviluppata storicamente in rapporto dialettico con lo sviluppo della modernità industriale: "una nuova forma di produzione, superiore a tutte quelle storicamente esistite, che si è installata nel cuore della modernità capitalista".
A differenza dei modi di produzione pre-capitalistici, questa forma è stata rapidamente universalizzata ed è diventata modello egemonico.
Per rappresentare una vera alternativa alla modernità padronale, il movimento ecosocialista non può semplicemente sostenere una modernizzazione ecologica socialmente pianificata (piuttosto che orientata verso il mercato), ma deve porre la "riproduzione" al centro dell'economia politica, liberandola dalla sua posizione subordinata e strumentale nei confronti della produzione.
L'ecosocialismo deve liberarsi del paradigma della modernizzazione ecologica e prospettare una rivoluzione ecologica basata su una riduzione drastica del metabolismo sociale mondiale, da realizzare attraverso una riorganizzazione profonda delle relazioni tra produzione, riproduzione ed ecologia.
Soggetto di questa lotta sono le "forze di riproduzione": tale approccio considera il lavoro come principale punto in comune tra i "soggetti anti-padronali" della riproduzione.
Il padrone dipende da tali soggetti per la sua sopravvivenza e ricchezza, ma questa dipendenza è costantemente occultata e le forze di riproduzione sono rappresentate come "elementi di retroscena" della dinamica storica.
In posizione e forme differenti, donne, schiavi, proletari e animali vengono messi al lavoro dal padrone, così come la natura non umana è messa al suo servizio.
Tutti devono provvedere alle necessità del padrone, affinché quest'ultimo possa dedicarsi alle occupazioni superiori che lo rendono "pienamente umano".
L' ecofemminismo socialista sviluppa, ispirato da Rosa Luxemburg, una critica al capitalismo industriale fondata sul rifiuto della divisione sessuale e coloniale del lavoro su scala mondiale; un'ottica essenziale per tenere in considerazione la possibilità di un "vivere bene" alternativo ai percorsi seguiti dalla modernità industriale.
La produzione della vita ma anche l'economia di sussistenza, realizzate principalmente sotto forma non salariata dalle donne, gli schiavi, i contadini e altri soggetti colonizzati, costituiscono la base permanente sulla quale il lavoro produttivo capitalista può essere performato e sfruttato.
Non essendo questo lavoro remunerato attraverso il salario, la sua appropriazione può essere ottenuta in ultima istanza solo con la violenza o tramite istituzioni coercitive.
La divisione sessuale del lavoro non è dettata da determinazioni biologiche o puramente economiche ma è basata sul monopolio maschile della violenza (armata), che costituisce il potere politico necessario per stabilire rapporti durevoli di sfruttamento tra uomini e donne (così come tra le classi e tra i popoli).
A partire dal XVI secolo l'accumulazione del capitale in Europa si è realizzata attraverso un processo parallelo di conquista e sfruttamento delle colonie, dei corpi e delle capacità produttive delle donne, anche con la "caccia alle streghe".
Solo dopo l'instaurazione di questo regime di accumulazione attraverso la violenza, l'industrializzazione poteva cominciare: la scienza e la tecnologia diventavano le forze produttive principali grazie alle quali gli uomini potevano emanciparsi, dalla natura come dalle donne.
Nel territorio dell'attuale New England, dall'epoca precoloniale al ventesimo secolo, Merchant mostra come la colonizzazione europea, nello smantellare le culture matriarcali native, avesse imposto una riconfigurazione dei rapporti di genere finalizzata alla "subordinazione del lavoro di sussistenza alla produzione per il mercato".
Tale configurazione avveniva simultaneamente ad un'altra riconfigurazione: quella del rapporto tra produzione e natura non umana, nel senso di un crescente controllo e manipolazione dei processi biofisici ai fini dell'estrazione di valore.
L'insieme di queste trasformazioni costituisce secondo Merchant, in forme diverse, il meccanismo delle due principali rivoluzione ecologiche capitaliste: quella coloniale e quella industriale.
L'approccio storico viene adottato anche da Silvia Federici nel mostrare come nell'Europa del XVII secolo, il corpo femminile fu trasformato in uno strumento per l'espansione della manodopera, considerato come una "macchina da riproduzione", che funziona secondo ritmi che sfuggono al controllo delle donne.
Questa nuova divisione sessuale del lavoro aveva ridefinito le donne del proletariato come "risorse naturali": una sorta di bene comune soggetto all'appropriazione maschile in nome della produttività.
Nasce in questo modo il regime patriarcale capitalista: non solo a causa delle recinzioni agrarie, ma anche in ragione della graduale esclusione delle donne dal mercato del lavoro, esclusione che le rese economicamente dipendenti dagli uomini.
Con un movimento simile a quello attuato contro le popolazioni indigene delle colonie, le donne venivano sotto-umanizzate dalla legge, asservite all'economia e sottomesse al terrore con la "caccia alle streghe".
Al pari di colonizzazione e schiavismo, la guerra contro le donne costituì dunque una tappa fondamentale nell'avvento dell'antropocene, in quanto assicurò la produzione di manodopera a buon mercato che avrebbe innescato l'industrializzazione.
Trattandosi di un processo generalizzato che coinvolgeva tutte le donne, sebbene in forme diverse, tale processo viene inteso come una ridefinizione de facto del sesso femminile in una classe: quella delle "riproduttrici di forza lavoro".
L'ecofemminismo sostiene una "revisione del valore in senso economico"; in questa prospettiva Ariel Salleh ha proposto il concetto di "debito incarnato", ovvero il debito che, al Nord come al Sud, è dovuto ai soggetti del lavoro riproduttivo che producono i valori d'uso e rigenerano le condizioni di produzione, compresa la futura manodopera, del capitalismo.
Strettamente legato a questo, altri due tipi di debito: il "debito sociale", accumulato storicamente dai capitalisti attraverso il plusvalore estratto dal lavoro salariato e non salariato (ad esempio quello degli schiavi), e il "debito ecologico" dei colonizzatori verso i popoli dei Paesi colonizzati, per l'estrazione diretta dei mezzi naturali di produzione e di sussistenza.
Questa narrazione, ecofemminista e materialista, dell'antropocene vede la crisi ecologica come risultante dell'interconnessione delle tre diverse forme di furto da parte di un sistema mondiale di sfruttamento su scala planetaria.
Come scrive Mary Mellor: "Separando la produzione dalla riproduzione e dalla natura, il patriarcato capitalista ha creato una sfera di false libertà, che ignora i parametri biologici ed ecologici".
Di fronte alla catastrofe ecologica attuale, gli sviluppi recenti della teoria della riproduzione sociale del movimento femminista mondiale, indicano delle possibilità reali per assumere una prospettiva ecosocialista: per rovesciare quest'ordine subordinato alla produzione, subordinando la produzione alla riproduzione e all'ecologia.
Sottolineando l'intersezione su scala mondiale del capitalismo con il patriarcato, il razzismo e lo specismo, l'ecofemminismo socialista permette di concepire la transizione ecologica come "un' intersezione di lotte differenti per cambiare il sistema".
Prendere sul serio questa visione aiuterebbe a liberarsi dell'ossessione, storicamente ereditata, per la crescita del PIL: per immaginare una "vera" rivoluzione ecologica.
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