I salariati si troveranno a dover fare i conti con un sistema sociale rispetto al quale non avranno più nulla da perdere.
tratto da "26 tesi sulla Società della Miseria"; di Giuseppe Sottile e Antonio Pagliarone.
Diversamente da quanto solitamente immaginato, la "politica" non ha mai avuto alcun ruolo rilevante nelle società capitalistiche, specie riguardo l'influenza da essa esercitata sulle fasi del trend economico.
Essa ha goduto dei favori della crescita economica (nella cosiddetta Golden Age), per poi cadere in disgrazia quando si è entrati in una fase di pronunciato declino economico.
A partire dal secondo dopoguerra e relativamente ai Paesi industrializzati, il capitalismo ha intrapreso una notevole fase di crescita economica, caratterizzata da consistenti investimenti in capitale fisso ed ampio incremento dell'occupazione in ogni settore dell'economia.
La crescita dei primi si è accompagnata - come sempre nella storia di questo sistema sociale - alla crescita della seconda.
Nella fase attuale il capitalismo sembra aver portato a compimento, in alcune aree del pianeta, la sua più essenziale natura: trasformare la popolazione in una massa di lavoratori salariati.
Il sistema capitalistico così non è altro che il sistema del lavoro salariato: è attraverso questa forma del lavoro infatti che si producono beni e servizi, ossia quella parte del reddito monetario costituito
da profitti e salari.
La crescita economica intrapresa nel secondo dopoguerra nel cosiddetto "primo mondo" ha avuto alcuni effetti salienti: un tasso di disoccupazione quasi irrilevante; una conseguente crescente forza rivendicativa dei salariati, ergo una riduzione del grado di concorrenza al loro interno; una crescita della componente lorda del salario e dulcis in fundo il consolidarsi del sistema del welfare state per come lo abbiamo conosciuto, sul modello pubblico europeo o prevalentemente privato negli Stati Uniti.
Nella storia del capitalismo il secondo dopoguerra è stato di gran lunga il periodo più favorevole ad una riduzione del grado della lotta di classe.
Sono queste le ragioni di fondo che hanno permesso a tutti i governi, di qualunque orientamento, di porre in atto quelle riforme volte al miglioramento degli standard di vita che successivamente politici ed intellighenzia hanno propagandato come loro meriti.
Si trattava di fornire una veste legislativa e dunque “codificare” oggettive condizioni di incremento della ricchezza prodotta in forma capitalistica.
Tuttavia, il secondo dopoguerra non è stato altro che l'apice d'una fase tendenzialmente espansiva del capitalismo empiricamente constatabile per tutto il XVIII ed il XIX secolo.
Una fase di accumulazione capitalistica allargata che ha visto il valore di scambio diventare la forma generale della ricchezza ed il lavoro salariato la forma storica del processo di riproduzione della specie umana.
D'ora in poi, beni e servizi prodotti vengono identificati con la loro espressione monetaria; il valore d'uso risulta una semplice propaggine del valore di scambio, con tutte le conseguenze che ciò ha sugli standard di vita e la loro “percezione sociale” (per come li abbiamo conosciuti nel capitalismo).
L'ideologia generale che ha accompagnato questa fase storica "superba, sciocca e
criminale" è stata quella del progresso tout court.
Il risvolto sociale di tutto ciò è stato correttamente definito integrazione dei salariati.
D'altro canto, la “democrazia borghese”, pienamente compiuta nel corso del '900, non è stata altro che la forma politica pienamente svelata di questa integrazione, costituita da un insieme di apparati che ne hanno fatto da cornice: partiti, sindacati, sistemi di governo "democratici", sistema dell'istruzione, struttura della previdenza, sanità ed assistenza.
In sostanza e dalla sua origine, il capitalismo (come compiutosi in alcune aree del pianeta) ha ottenuto il massimo consenso non totalitario in "tempo di pace".
E tuttavia come ogni evento viene all'esistenza per mutare e poi scomparire, una serie di circostanze di natura economica manifestatesi negli anni '70 e riconducibili al rallentamento della crescita (per via di limiti intrinseci all'industrialismo capitalistico nella produzione di valore), invertono la fase tendenzialmente espansiva in una tendenzialmente regressiva, rilevabile osservando numerosi fondamentali indici economici (quali ad esempio il saggio di accumulazione e del profitto).
Col senno di poi, si constata come la "forza propulsiva" del capitalismo cessa e con essa le condizioni a cui la nostra specie s'era abituata a riprodursi al suo interno in una certa area del pianeta.
Due sono i fenomeni veramente salienti di quella contrazione nella crescita economica, costellata da ben dieci, più o meno marcate, crisi economiche mondiali (contrazioni del prodotto netto):
1) una metamorfosi in senso speculativo dell'economia capitalistica onde "ovviare" ad una crisi di redditività del capitale produttivo di valore;
2) un graduale smantellamento del welfare state.
Alcuni degli aspetti di questo processo sono le privatizzazioni, l'outsourcing, il crescente incremento del debito etc…
Poiché il settore finanziario-speculativo ha preso a crescere considerevolmente al pari della "redditività nominale" degli investimenti, da esso provocata, crescenti quote del reddito nazionale sono state sempre più subordinate ed utilizzate a partire dagli anni '80 a fini speculativi da parte degli stessi capitalisti (e non solo).
Il capitalismo ha cominciato ad assomigliare ad un enorme Moloch che fagocita quote crescenti della ricchezza (monetaria e fisica) da esso prodotta mediante il lavoro salariato.
Il settore della finanza speculativa infatti non solo sottrae ricchezza in forma capitalistica (non ne produce bensì la blocca) ma a differenza di altri settori "non produttivi di valore" non svolge alcun ruolo necessario alla riproduzione del sistema capitalistico.
La dinamica speculativa tuttavia non va considerata affatto un "bubbone" alieno alla parte "sana" della società; al contrario essa è il percorso che il capitalismo segue (in questo ultimo trentennio in via pare definitiva) appena le condizioni di redditività degli investimenti nei settori non speculativi vengono riducendosi, come accaduto a cavallo tra gli anni ’60 e ’70.
Da adesso, il declino del sistema capitalistico si prefigura e svolge non tanto (e non più) come crisi di produzione e realizzazione di valore secondo meccanismi noti, bensì come "usura senza fine” di quanto rimasto per produrre valore a fini speculativi.
Subentra l'era della de-integrazione dei salariati.
Sul piano del regime sociale consegnatoci dal secondo dopoguerra assistiamo a sempre più vistose modificazioni del regime del welfare verso un suo ormai evidente smantellamento.
Privatizzazioni, outsourcing, deregulation,
precarizzazione, riduzione del valore del salario reale, incremento dell'orario di lavoro e della sua intensità, riduzione delle garanzie previdenziali e loro subordinazione alla dinamica speculativa,
indebitamento e feroce concorrenza tra i lavoratori salariati sono alcuni dei fenomeni conseguenti più manifesti.
Tutto ciò ha avuto la sua propria ideologia, che ha riflesso questa fase come una "scelta" dei ceti dirigenti ed il frutto nel contempo di un nuovo paradigma economico che sarebbe scaturito dalle new technologies: il "neoliberismo postfordista".
L'incremento della concorrenza tra i capitali a livello mondiale non è stato infatti percepito come conseguenza di un declino in corso dagli anni '70 (per via della redditività decrescente degli investimenti produttivi) bensì, trasfigurato in veste ideologica, come una nuova era di abbondanza il cui problema è un problema di "gestione".
In realtà, il capitalismo è più prosaicamente entrato in una lunga fase di declino.
Il sistema capitalistico, o meglio ciò che ne resta, non riesce più a riprodursi, il che significa che il regime del lavoro salariato
e le strutture che ne esprimevano il consenso (partiti, sindacati e welfare anzitutto) vanno sgretolandosi.
Ciò che residua è una massa di lavoratori servili, produttivi di valore nella forma di
salari e profitti, costantemente risucchiato dalla finanza speculativa e dal debito che così viene a formarsi.
Ciò che emerge è un regime del lavoro di tipo neoservile tendenzialmente privo di tutele e garanzie, in cui vige una concorrenza spietata tra salariati su cui gioca il "dominio" del capitale e attraverso cui ormai soltanto il potere politico trova la propria legittimità.
Ma ciò significa anche che gli apparati politico-istituzionali godono di sempre minor consenso: sono semplici appendici
di un capitalismo parassitario (o fungono in taluni casi da semplici contenitori del disagio sociale).
I salariati si trovano ora e si troveranno a dover fare i conti con un sistema sociale rispetto al quale non avranno più nulla da perdere.
Ciò che finora è stato fonte della loro esistenza diverrà per essi una condizione insostenibile: il lavoro salariato stesso nelle forme che un capitalismo agonizzante sta consegnando loro.
Essi si trovano e troveranno tra l'incudine della precarietà reddituale ed il martello dell'indebitamento.
Di conseguenza risulterà inutile per essi rivolgersi alle autorità, ai partiti, ai sindacati ma dovranno sopprimere le strutture organizzative che fino ad ora si sono dati.
Per i salariati è sempre stato essenziale che il capitalismo "desse lavoro".
Come capitale variabile, produttivo o meno di plusvalore, essi dipendono dall'accumulazione di capitale (ossia dall'espansione del capitale morto).
D'altronde, se sino ad un certo punto lo sviluppo e l'espansione del capitalismo hanno fatto tutt'uno con una integrazione del movimento operaio e dei salariati (poiché quello sviluppo ed espansione lo furono allo stesso modo del capitale variabile in senso largo), la de-integrazione in corso fa tutt'uno con la cessazione di quello sviluppo ed espansione.
Una condizione storica d'esistenza sta semplicemente venendo meno e come in ogni processo storico verrà sostituita da qualcos'altro (fosse anche una prolungata
barbarie).
Poiché i salariati rappresentano praticamente la quasi totalità della popolazione e la principale (se non unica) fonte della produzione di reddito monetario, solo da essi può provenire il superamento dell’attuale sistema sociale in via di disfacimento.
La negazione del regime del lavoro salariato, oggi più che mai, non sarà una "opzione politica", bensì una necessità economica collettiva.
Ne va dell'esistenza di tutta la comunità umana.
O la galera nella quale viviamo o una liberazione secondo le condizioni del nostro tempo.
Va da sé che questa “liberazione” non può concernere solo la specie umana, essa lo sarà parimenti delle altre, giacché con lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo deve cessare ogni forma di sfruttamento economico.
Anche il nostro rapporto con l’ambiente naturale dovrà essere rivoluzionato, sperimentando forme di produzione e gestione delle risorse umane e materiali non mercantili, organizzate dagli stessi lavoratori, dunque non finalizzate al profitto ma rivolte all'abolizione di tutta una gamma di prodotti e servizi che si percepiranno come inutili o dannosi alla collettività, riduzione di altri e creazione di nuovi qualitativamente utili.
La questione, dunque, non è affatto unicamente una questione di "gestione".
Non possono infine esistere, come credono alcuni, degli interstizi nella società capitalista in cui sia possibile superare il modo di produzione esistente: una comunità di liberi produttori non può realizzarsi a livello locale o parziale, in quanto sarebbe costretta a stabilire rapporti economici di tipo capitalistico con il resto della società.
"In una società futura, ove fosse cessato l’antagonismo delle classi, ove non esistessero più classi, l’uso non sarebbe più determinato dal minimo tempo di produzione; ma il tempo di produzione che verrebbe dedicato ai diversi oggetti sarebbe determinato dal loro grado di utilità sociale."
(Karl Marx)
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