Il termine Antropocene nasce nelle hard science dalla volontà di dare un nome alla nuova era geologica, definita dall’impatto delle attività umane.

tratto da "Vedere l’antropocene, immaginare futuri. Note per un pensiero critico della crisi ecologica"; di Alice Dal Gobbo ed Emanuele Leonardi.

https://www.scienzaefilosofia.com/2019/06/29/vedere-lantropocene-immaginare-futuri-note-per-un-pensiero-critico-della-crisi-ecologica/


Il concetto di Antropocene ha conquistato velocemente ampio spazio nel dibattito pubblico: una questione al contempo chimica, geologica, politica, letteraria, sociologica, artistica, che di per sé suggerisce l’impossibilità di pensare l’evoluzione della biosfera come un ambito separato e separabile dalla società e dalla storia umane che con essa co-emergono. 

Ma nella disamina della "costruzione discorsiva", scientifica e politica, dell’Antropocene possiamo notare un singolare paradosso. 

Vi si definisce la nuova era geologica come quella in cui l’essere umano diventa “visibile” nella configurazione del suo ambiente biofisico: un agente geologico tra altri (seppur più determinante).

Cade dunque quella narrazione di "eccezionalismo umano" che, soprattutto a partire dalla modernità, vede l’Uomo (bianco, maschio, eterosessuale) separarsi nettamente da quella che egli stesso definisce Natura, e sulla base di questa separazione esercitarvi il proprio dominio. 

Al posto di questa narrazione emerge una visione di esseri umani immersi, interrelati, dinamicamente co-emergenti con la biosfera: il loro incontro si materializza in forma di singolare concrezione, strato di roccia, concentrazione di CO2. 

Tuttavia, il discorso dell’Antropocene mette in campo simultaneamente delle proposte che poco hanno a che vedere con un "decentramento" dell’essere umano. 

Infatti, la sua narrazione passa subito a evidenziare che gli effetti pur catastrofici dell’azione tecnoscientifica recente sono a ben vedere l’espressione del "potere dell’Uomo"; un potere persino in grado di alterare gli equilibri della Terra. 

La soluzione è quindi: più tecnica, più scienza e maggiore dispiegamento di questo "formidabile potere"

Si re-instaurano così agency, potere e controllo dell’Uomo proprio alla soglia della loro destituzione. 

Da quando si può vedere l’Antropocene?

C'è accordo unanime sul fatto che la problematica convogliata dalla nozione di Antropocene sia emersa sul finire degli anni Ottanta del Novecento, per poi farsi via via più pressante col passaggio di secolo. 

Per comprendere il "regime di visibilità" che costruisce l’Antropocene come fenomeno geologico-politico rilevante occorre in primo luogo segnalarne le differenze rispetto al regime precedente. 

E, se si parla di crisi ecologica, a una prospettiva materialista conviene partire dal "nesso valore-natura", cioè dal rapporto che l’economia politica istituisce tra ambiente/biosfera e accumulazione di capitale (e poi ovviamente dal suo sviluppo storico). 

Secondo gli economisti classici la relazione tra natura e valore vede la prima fungere da risorsa non contabilizzata – “infinita e gratuita”, nelle parole di Ricardo – sia all’inizio del processo (materie prime della produzione) sia alla fine (smaltimento dei rifiuti della produzione). 

In questo modello la natura è, per dirla con J. Moore, natura sociale astratta e in quanto tale "condizione" del valore. 

"Fonte" del valore è invece il lavoro sociale astratto, cioè capacità lavorativa umana organizzata dal capitale attraverso la forma-salario. 

Vale la pena di sottolineare la necessità, per questo regime di visibilità ecologico, che l’ambiente/biosfera sia trasformata attraverso l’astrazione in risorsa infinita e gratuita: è su questa base, infatti, che il paradigma della "produzione per la produzione" ha potuto affermarsi come obiettivo politico ragionevole, e che successivamente la crescita economica ha potuto imporsi come panacea di tutti i mali, a prescindere dalla sua destinazione sociale (welfare keynesiano fino agli anni Settanta o assolutismo dell’impresa negli ultimi decenni). 

Non dovrebbe inoltre essere difficile scorgere un "nesso di filiazione diretta" tra l’espansionismo della sfera produttiva e l’esplosione della crisi ecologica tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del Novecento. 

Benché noto almeno dal XIX secolo, il cambiamento climatico è diventato un problema pubblico, una questione politicamente visibile, solo a partire dagli anni Ottanta, cioè nel momento in cui la razionalità neoliberale ha permesso di scorgere una strategia di sviluppo per il capitale dentro a una “crisi di riproduzione” (cioè ecologica) creata dal capitale stesso. 

Da allora – da quando le élites globali possono affermare che il riscaldamento globale è un fallimento del mercato (in quanto incapace di internalizzare i costi ambientali) che può tuttavia essere risolto solo da un’ulteriore ondata di mercatizzazione (carbon trading e altre forme di mercificazione della natura) – l’Antropocene ha potuto finalmente diventare l’orizzonte dell’accumulazione "sostenibile".

Si tratta di una mutazione politico-epistemica di primaria importanza – incapsulata nelle formule "sviluppo sostenibile" e "green economy" – che pensiamo possa essere spiegata sulla base della trasformazione del nesso valore-natura descritto sopra. 

Esso infatti non si presenta più nella forma classica della subordinazione della sfera riproduttiva a quella produttiva (infinita e gratuita la prima, finita e pagata la seconda), ma anche nelle nuove sembianze del "capitalismo cognitivo"

Utilizziamo l’espressione capitalismo cognitivo per indicare "una fase dell’accumulazione maggiormente dipendente che in passato dall’esproprio di conoscenza generale socialmente prodotta"

In questo contesto alcuni elementi della riproduzione sociale, mischiandosi per l’appunto a lavoro cognitivo e sottoposti dunque allo sfruttamento, finiscono per diventare elementi diretti della valorizzazione capitalistica. 

Ciò del resto non può stupire se si considera, ad esempio, il ruolo fondamentale svolto dalla computazione digitale nel produrre dati e simulazioni riguardanti il riscaldamento globale. 

Affinché infatti si possa stabilire un nesso tra un evento meteorologico – non importa quanto estremo – e il riscaldamento globale, si richiede invariabilmente una mobilitazione su larga scala del "general intellect" nelle sue diverse forme (le varie fabbriche del sapere: università, think-tanks, contro-argomentazioni da parte dei movimenti sociali, ecc.). 

La percezione politica dell’Antropocene è dunque possibile solo grazie a una rete globale (apparentemente neutra) di sensori, data center, supercomputer e istituzioni scientifiche.

Ma se l’Antropocene è una "performatività" che non esisterebbe senza il lavoro cognitivo che lo (ri)produce, occorre allora interrogarsi su che tipo di potere sottenda all’emergere e al proliferare della narrazione antropocenica. 

Infatti, con Foucault possiamo sostenere che "il sapere è strettamente connesso al potere"


Dunque, cui prodest?

Il nostro suggerimento è che non solo l’esistenza ma anche il “successo” dell’Antropocene siano legati alla "governamentalità neoliberale" e ai processi di neoliberalizzazione cui sono state sottoposte la biosfera e le comunità umane che la abitano a partire dagli anni ’70. 

Uno dei dogmi che struttura la logica di azione neoliberale è quello secondo cui il cosiddetto “libero mercato”, subordinando a sé l’intera produzione e autoregolandosi, produca effetti ottimali per tutti gli attori in campo. 

Tale dogma ha una ricaduta diretta sulla crisi ecologica e sul suo governo, dal momento che promuove l’eliminazione di barriere non economiche alla valorizzazione, tra le altre cose, della Natura: la convinzione è che l’inclusione delle cosiddette “risorse naturali” e delle attività riproduttive della biosfera all’interno dell’economia, attribuendo loro un giusto prezzo, le salvi dallo sfruttamento eccessivo a cui sono state precedentemente sottoposte. 

Nei fatti, tale cambiamento del nesso lavoro-natura-valore è funzionale al rilancio dei processi di valorizzazione necessari dopo le crisi degli anni ’70: da un lato de-regolamenta lo spazio di azione economica sulla “natura” slegandola da vincoli sociali e politici di deliberazione collettiva; dall’altro apre a nuove frontiere di sussunzione della biosfera al capitale. 

In questo contesto, la narrazione dell’Antropocene e il suo sintomatico paradosso possono essere visti come abilitatori e intensificatori della fase attuale di governance della natura. 

La rimozione della rigida distinzione prima posta tra Uomo e Natura costituisce un’apertura degli orizzonti di valorizzazione capitalistica: essa inaugura un certo "postumanismo neoliberale" in cui la “natura”, non più esistente indipendentemente dagli esseri umani, si apre fluidamente ai processi tecno-scientifici che la plasmano. 

Dire allora che l’essere umano è un agente geologico capace di cambiare la storia evolutiva del pianeta diventa funzionale a questa (con)fusione tra natura e società che giustifica sperimentazioni e manipolazioni sempre più ardite di impasti umani, più-che-umani, trans-umani in vista di qualcosa di “troppo umano”: la valorizzazione. 

Un altro concetto chiave della governamentalità neoliberale emerge in sordina ma tuttavia in modo pervasivo: quello di "responsabilità"

Si invoca l’(auto)controllo dell’individuo, dell’Umanità, della tecnoscienza rispetto alle proprie azioni; si rimette alle loro scelte il destino del pianeta. 

In altre parole, si re-istituisce in extremis l’autonomia sovrana appena infirmata dal riconoscersi implicati in processi terrestri. 

A sua volta, questa mossa è funzionale alla perpetuazione e promozione di politiche dei corpi-natura volte a manipolazione e dominio in funzione di particolari progetti e al mantenimento dello stato di cose attuali, "naturalizzandole" e oscurandone il carattere politico. 

Attribuire la responsabilità della crisi ecologica a una generica Umanità ha l’effetto di nascondere come il capitalismo abbia piegato l’intero globo agli interessi di una minoranza di uomini bianchi attraverso diverse forme di imperialismo (anche ecologico). 

Ciò fa apparire l’espansione di modelli industriali e consumistici occidentali, a cui viene imputato il degrado ecosistemico a cui assistiamo, come un processo neutrale e semplicemente accettato, desiderato, da tutto il pianeta. 

Non si discute invece di come si tratti di un processo violento che annichilisce resistenze talvolta molto forti. 

Allo stesso modo, parlare di innovazione tecnoscientifica “responsabile” illude che sia possibile un’autoregolazione di questa sfera al di fuori di un dibattito collettivo politico circa i suoi fini più ampi e le sue implicazioni socio-ecologiche. 

Si potrebbe infine dire che il paradosso dell’Antropocene risponde (almeno in parte) al "paradosso neoliberale"

Abbiamo da una parte la tensione verso una totale deregolamentazione della sfera economica, che può infiltrarsi in qualsiasi ambito e processo vitale, quindi tensione verso lo “scioglimento” della rigida dicotomia tra società e natura, operare umano e processi biologici – un certo postumanismo. 

D’altra parte, e simultaneamente, assistiamo a una spasmodica necessità di mantenere una posizione soggettiva di supremazia e controllo correlata a un nodo imprescindibile del capitalismo: il dominio per il profitto. 

Si tratta di un processo di "deterritorializzazione-riterritorializzazione" che salva i processi che stanno alla base dell’accumulazione capitalista. 

Ri-pensare la Terra

A questo punto si pone sempre più pressante la domanda: è l’Antropocene una narrazione adatta ad affrontare la crisi che stiamo vivendo? 

Deve piuttosto essere abbandonato in favore di differenti discorsi, maggiormente emancipatori? 

Si è proposto di rimpiazzare il suo nome con termini quali Capitalocene, Plantatiocene, Chtulucene, era di Gaia e così via. 

Tuttavia, forse il punto non è tanto destituire questo nome, quanto politicizzare la sua narrazione. 

Il superamento della dicotomia cartesiana tra Civiltà/Umanità e Natura (e correlate: umano e non-umano, mente e corpo, pensiero e materia, ecc.) può essere concepito come positivo momento di emancipazione dai dispositivi di sapere/potere che hanno costituito le basi del dominio sulla Terra nella modernità. 

D’altra parte, l'attuale "postumanismo neoliberale", pur (quantomeno in apparenza) superando questa dicotomia, non pare avere effetti emancipativi: al contrario, intensifica il raggio di azione dell’essere umano sul resto della biosfera, lo sgancia sempre più da qualsiasi tipo di limite. 

Nodo cruciale dell'ontologia post-cartesiana che caratterizza il neoliberalismo è la necessita di reintrodurre surrettiziamente un "soggetto dominante" che si faccia veicolo dei processi di accumulazione capitalistici. 

È invece necessario, partendo da una genealogia critica delle categorie del presente, individuarne i nodi ove si innestano dinamiche di dominio, assoggettamento, sfruttamento. 

Un’onto-epistemologia che faccia i conti con l’inevitabile co-emergenza e co-costitutività di umano e non umano deve perciò, se non vuole cadere nella trappola neoliberale della valorizzazione senza limiti, interrogarsi contemporaneamente sull’emergenza di assemblaggi più-che-umani, concreti e contestuali, e insieme chiamare in causa la critica dell’economia/-ecologia politica del capitalismo contemporaneo. 

Per far incontrare umano e non-umano sul comune terreno di una vita, e di un suo sapere, sottratti alla valorizzazione capitalista. 

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