L’idea di "sviluppo", dominante nella nostra cultura, intende mostrare ciò che distingue le società moderne da quelle che le hanno precedute.

tratto da "Il concetto di sviluppo: un mito dell’Occidente"; di Marco Aime.


Lo sviluppo è costituito da un insieme di pratiche, a volte apparentemente contraddittorie, le quali per assicurare la riproduzione sociale costringono a trasformare e a distruggere, in modo generalizzato, l’ambiente naturale e i rapporti sociali, in vista di una produzione crescente di merci (beni e servizi) destinate, attraverso lo scambio, alla domanda solvibile.
Concepito in questi termini, lo sviluppo, non è altro che l’espansione planetaria del sistema di mercato.
Con un’analisi raffinata e originale Gilbert Rist sostiene che il concetto di sviluppo svolge per la società occidentale la stessa funzione dei miti nelle società cosiddette "primitive". 
Lo sviluppo è il mito fondante della nostra società, senza di esso tutto il sistema crollerebbe e poiché stiamo imponendo a tutti il nostro sistema, imponiamo anche il vangelo dello sviluppo. 
Sviluppo, quindi, come elemento della moderna religione economicistica: un’ideologia si discute, una fede no. 

Il concetto di sviluppo affonda le sue radici nella filosofia di Aristotele e di Sant’Agostino, ma i suoi veri padri sono l’Illuminismo e l’evoluzionismo sociale
Il primo, con la sua fede incrollabile nell’uomo e nella sua capacità di creare un progresso infinito, ha gettato solide basi sulle quali appoggiare i pilastri della credenza "sviluppistica". 
Tale era la fede dei Lumi nelle potenzialità del genere umano, che si ipotizzava in tempi piuttosto brevi il raggiungimento dell’eguaglianza delle nazioni, in quanto l’Occidente avrebbe esportato nei Paesi più remoti quell’idea di democrazia e uguaglianza nata dalla Rivoluzione 
Francese. 
Si andava formulando in questo periodo una concezione dello sviluppo come un processo "naturale" che prima o poi avrebbe coinvolto tutto e tutti.
Storpiando le teorie di Darwin, applicate dall’autore al regno animale e basate non sull’evoluzione ma sulla selezione naturale, gli evoluzionisti sociali del secolo scorso assimilarono lo sviluppo umano a quello naturale: il cammino verso la ‘civiltà’ è "uno solo" ed è composto da gradini: sul più alto siedono gli Occidentali, poi via via a calare gli altri popoli (o razze come si diceva allora). 
Con il tempo e con l’aiuto dell’Occidente tutti avrebbero risalito la scala, fino a diventare dei perfetti Europei.

La storia non ha dato ragione né ai Lumi né agli evoluzionisti. 

L’Occidente ha esportato prima violenza e sfruttamento più che democrazia e uguaglianza, mentre oggi esporta "sviluppo", credendo di esportare benessere. 
L’obiettivo di elevare tutti gli esseri umani al tenore di vita degli occidentali è "materialmente irrealizzabile", se teniamo conto che questi ultimi consumano 4/5 delle risorse del Pianeta, lasciando al rimanente 80% della popolazione mondiale solo il 20% dell’energia disponibile. 
Eppure per sostenere la nostra fede nell’inevitabilità del progresso, inteso come aumento di produzione e di accumulo di beni, cioè di occidentalizzazione del mondo, occorre fare come se tutto ciò fosse realizzabile.

Lo sviluppo degli altri

La presunta naturalezza dell’idea che "bisogna" svilupparsi viene messa in crisi se si esce dal nostro guscio etnocentrico e ci si confronta con altre culture. 
Scopriamo allora che presso molte società non esiste neppure un termine linguistico che definisca tale concetto. 
Vediamo alcuni casi: presso i Bubi della Guinea Equatoriale per definire lo sviluppo si indica un termine che significa allo stesso tempo "crescere" e "morire"; in Rwanda lo stesso concetto viene espresso con il verbo "marciare", "spostarsi", senza che però venga indicata alcuna direzione prestabilita. 
In wolof l’equivalente di sviluppo è stato identificato dai membri di molti villaggi con "la voce del capo"; i camerunesi di lingua eton lo traducono, con inconscio sarcasmo, con "il sogno del bianco", mentre in moré non si è trovato un equivalente per descrivere il concetto in questione. 
Ciò che emerge da questa breve e insufficiente rassegna etnografica è che al riguardo del concetto di sviluppo registriamo diverse lacune nelle lingue considerate. 
Ciò sta a significare che altre società non considerano affatto che la loro sopravvivenza dipenda da un’accumulazione continua di beni e saperi, capaci di rendere per forza il futuro "migliore" del passato.

Poiché il nostro sviluppo si fonda su principi fondamentalmente economici occorre anche prendere in esame le economie degli altri. 
Karl Polanyi, economista e antropologo, analizzando le diverse forme di economia presso società definite "semplici", ha formulato l’espressione di economia "embedded", cioè incorporata nelle strutture sociali, politiche e religiose. 
Ciò significa che l’economia è legata a doppio filo alla vita e non isolata in una sfera autonoma in grado di imporre le proprie regole e i propri ritmi all’interno della società. 
Solo nel mondo occidentale l’economia rappresenta un copione al quale tutti si adeguano.
Pertanto la visione di certe società non si concilia con quella degli economisti: terra e lavoro non sono per loro semplici fattori di produzione che aspettano di essere combinati in maniera naturale, come 
invece viene espresso nel pensiero economico dominante.
L’evoluzionismo sociale consenti', invece, sul piano teorico di giustificare le diversità delle società e su quello politico di giustificare schiavismo e colonizzazione.

Nel caso dello sviluppo la metafora naturalistica viene deformata a uso e consumo degli autori. 
Infatti un qualsivoglia organismo naturale nasce, cresce fino a raggiungere un apice e poi inizia inevitabilmente a declinare fino a terminare irrimediabilmente la sua vita. 
Quest’ultima parte viene dimenticata nella trasposizione della metafora dalla natura alla società. 
Lo sviluppo, così come è concepito dai suoi sostenitori, non finisce mai.

La politica degli aggettivi

Negli ultimi tempi, di fronte ai palesi fallimenti delle politiche di sviluppo, si è tentato di restaurarne la facciata dipingendogli sopra nuove etichette come "durevole", "sostenibile", "umano", "compatibile", al fine di dare nuovo respiro a un concetto palesemente in debito d’ossigeno.
Tale operazione di cosmesi non ha però intaccato la visione dello sviluppo come di un "processo in continua crescita", indifferente al fatto che le risorse rimangono costanti.
L’idea dello "sviluppo durevole" è un invito a fare durare la crescita e non la capacità dell’ecosistema Terra a sostenerlo. 
Come sostiene Wolfgang Sachs: "In principio ci si appellava all’ambiente come elemento dell’atto d’accusa contro la crescita; oggi si utilizza il concetto di ambiente come bandiera di un nuovo sviluppo".
Secondo Georgescu-Roegen, il modello di "sviluppo",  figlio del pensiero economico occidentale, "continua a ruotare in un sistema chiuso che tiene conto solamente della produzione e del consumo, senza mai mettere tale processo in connessione con la biosfera". 

Secondo il pensiero economico dominante: «Dopo avere reso lo sviluppo universale, bisogna renderlo eterno».
Presentando lo sviluppo e la modernizzazione come un modo per moltiplicare le scelte offerte alla popolazione, si rischia di dimenticare che l’economia dominante, quella insegnata nelle università, nasce dall’osservazione di fenomeni avvenuti nei Paesi "sviluppati" e non negli altri, che sono la maggioranza. 
L’economia è dunque una scienza locale e non universale. 
Si può pertanto affermare che uno degli effetti più insidiosi dell’era dello sviluppo è stato probabilmente la perdita a livello mondiale di direzioni alternative.
Un esempio per tutti: sul nostro Pianeta vengono parlate oggi circa 5100 lingue, un buon 99% delle quali in Asia e in Africa, nel continente americano e nel Pacifico e solo l’1% in Europa. 

Rischiamo di tagliare il ramo su cui siamo seduti! 

Possiamo dire che nessuna specie si è comportata come quella umana, o meglio, di una parte di quella umana: quella che ha costruito e sviluppato l’era industriale, dando vita a quello che oggi chiamiamo Antropocene e che alcuni preferiscono denominare Capitalocene
Scegliere di andare avanti di questo passo implica un sempre maggiore consumo di risorse e un conseguente sempre più rapido impoverimento del Pianeta. 
Questo da un lato consentirebbe di mantenere il tenore di vita avuto finora in Occidente, ma fino a un certo punto: 
infatti l’evidente cambiamento climatico, innescato anche dal nostro modello di produzione e di vita, non provoca solo danni irreparabili all'ambiente, come spesso siamo portati a pensare. 
O meglio, dovremmo imparare a pensare che anche noi siamo parte dell’ambiente, che quest’ultimo non è solo uno sfondo, uno scenario che fa da contorno alle nostre esistenze, ma è uno degli elementi grazie ai quali possiamo sopravvivere.
Per il noto effetto farfalla, il surriscaldamento del Pianeta provoca l’inaridimento e la progressiva desertificazione di alcune regioni, come il Sahel, oppure inondazioni sempre crescenti in aree come il Bangladesh o mutamenti radicali dell’habitat come nelle regioni artiche
Sopravvivere diventa sempre più difficile e la gente è costretta a emigrare. 
I cosiddetti "profughi climatici" sono sempre di più. 
Spesso l’impoverimento di una terra fa crescere le disuguaglianze, che possono degenerare in conflitti e dai conflitti, chi può, fugge, cercando asilo altrove. 
Nei prossimi 30 anni centinaia di milioni di persone saranno costrette a lasciare la propria terra a causa del degrado e della siccità. 
Troppo poco si riflette sulle cause 
dell’emigrazione e una di queste, una delle più rilevanti, è proprio l’emergenza climatica causata da un sistema che consuma ogni anno le risorse di 1,3 pianeti. 

Forse rallentare non basta 

Forse è il caso di fermare per un po’ il treno, ripartire dalla minaccia della catastrofe, quanto mai vicina, e ripensare il percorso, cambiandone la direzione. 
Forse è il caso di fare salire altra gente, condividere con loro ciò che abbiamo, ripensare in modo radicale il nostro rapporto con gli altri e con l’ambiente che ci circonda, armonizzandoli; fare società anche al di fuori dell’umano; adottare e condividere punti di riferimento che non siano soltanto il PIL.
Una crescita esponenziale dell’utilizzo delle risorse porterebbe inevitabilmente 
al crash finale. 
L’inizio del declino verrebbe bruscamente anticipato, ma non è solo un problema tecnico; è soprattutto politico: occorre pensare a una vera e propria rivoluzione culturale
Non pensare più a piante e animali solo come a risorse, ma come entità con un significato intrinseco, con le quali è certo possibile interagire. 
Senza esitazione, dobbiamo preservare globalmente la vita terrestre – umana e non umana. 
Umana e non umana, questo è un punto centrale, che significa ripensare totalmente il nostro rapporto con la natura, uscendo dalla nostra torre antropocentrica. 
Dobbiamo allora riscoprire e reimmettere al centro del nostro parlare quella parola ormai espulsa da ogni lessico politico che è "solidarietà", estendendola a tutte le componenti del Pianeta. 
Una nuova solidarietà contrapposta alla competitività: in una società competitiva c’è sempre uno sconfitto; in una realtà solidale, si possono condividere momenti buoni e momenti di crisi. 

Occorre diventare più consumatori di socialità che non di cose, coltivare gli spazi comuni non solo come reazione a un modello insostenibile, ma perché configurano un valore in sé, un miglioramento delle nostre vite: per riscaldare i rapporti umani e raffreddare il Pianeta. 

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