Demercificazione della produzione, riduzione dell’orario di lavoro, redistribuzione della ricchezza: questi, in breve, gli elementi cardine di una transizione ecologica dal basso.
tratto da "Dall’ambientalismo operaio alla giustizia climatica. La sfida della convergenza, oggi"; postfazione di Lorenzo Feltrin ed Emanuele Leonardi al volume "Un piano per il futuro della fabbrica di Firenze. Dall’ex GKN alla Fabbrica socialmente integrata"; AA. VV.
https://fondazionefeltrinelli.it/schede/ebook-piano-ex-gkn/
Il fallimento della transizione ecologica dall’alto
A partire dai grandi scioperi per il clima del 2019, e ancor più dopo la presa di coscienza delle cause ambientali della pandemia di COVID-19, sembra che la transizione ecologica sia ovunque.
L’Unione Europea ne fa la pietra angolare della propria strategia di rilancio; un entusiasmo facilmente smorzabile con una rapida ricognizione storica.
Infatti, è per lo meno dal 1992 – anno del Summit della Terra di Rio de Janeiro – che, sotto l’egida delle Nazioni Unite, i Paesi partecipanti legiferano all’interno di una strategia che possiamo definire di transizione ecologica dall’alto.
L’idea-forza che la sorregge è tanto semplice quanto dirompente: non è vero, come si era pensato in precedenza, che protezione ambientale e crescita economica si escludono a vicenda, tutt’altro.
La green economy propriamente intesa è in grado di internalizzare il vincolo ecologico non più come ‘blocco’ dello sviluppo capitalistico, bensì come ‘fondamento’ di un nuovo ciclo di accumulazione.
Focalizzando lo sguardo sul governo del clima, la traduzione di tale idea-forza è la seguente: benché il riscaldamento globale rappresenti un fallimento del mercato, che non ha saputo contabilizzare le cosiddette “esternalità negative”, l’unico modo per farvi fronte è l’istituzione di ulteriori mercati su cui dare un prezzo – e scambiare – varie tipologie di “merci-natura”, per esempio la capacità delle foreste di assorbire CO₂.
Dal Protocollo di Kyoto (1997) all’Accordo di Parigi (2015), la promessa di questa transizione ecologica applicata al riscaldamento globale è stata ambiziosa ed esplicita: la ‘mano invisibile’ del mercato avrebbe saputo ridurre le emissioni di gas climalteranti e, allo stesso tempo, garantire alti margini di profitto.
Chiediamoci dunque: sono diminuite le emissioni?
Il grafico in alto risponde con eloquenza: no; sulle ragioni di questa débâcle si è molto discusso.
Ecco alcune ipotesi al vaglio: eccessiva “generosità” nell’assegnazione delle quote, informazione imperfetta, onnipresenza di fenomeni corruttivi, difetti di concezione, regolazione insufficiente.
Rimane però il fatto che il risultato – ciò che più conta – sia lampante: mettere il mercato al centro della politica economico-climatica non conduce a una riduzione delle emissioni ma le fa aumentare ulteriormente; un fallimento senza appello.
Ed è a partire da questa consapevolezza che possiamo porre, oggi, il tema della convergenza tra lotte sul luogo di lavoro e giustizia climatica.
La radice operaia della lotta ecologista
È sulla scia di lotte durissime e innovative negli anni sessanta e settanta, come quelle ai reparti verniciatura della Fiat o negli stabilimenti chimici della Montedison, che il tema della salubrità dell’ambiente – prima in fabbrica, poi su tutto il territorio – si trasforma da questione tecnica riguardante i siti produttivi a posta in gioco politica della pratica antagonista sindacale e di movimento.
Possiamo utilizzare l’evocativo termine ambientalismo operaio per descrivere il costituirsi di un sapere di parte, focalizzato sul luogo di lavoro; quest’ultimo diventava un tipo particolare di "ecosistema" in quanto la classe lavoratrice ne faceva il suo habitat ‘naturale’ e finiva per conoscerlo meglio di chiunque altro.
Non è un caso che i "conflitti contro la nocività industriale" siano i primi a sottoporre a critica feroce la cosiddetta monetizzazione della salute: l’idea cioè che un aumento salariale o uno scatto di livello potessero ‘compensare’ l’esposizione a sostanze inquinanti, talvolta letali.
Due elementi importanti vanno aggiunti a questo quadro: il primo è che le lotte contro la nocività industriale non avrebbero avuto l’impatto dirompente che in effetti ebbero se non si fossero collegate ai più ampi conflitti che in quel periodo certificavano il protagonismo della riproduzione sociale, con riferimento al pensiero femminista.
Il secondo aspetto è che il movimento operaio non riuscì a esprimere una strategia univoca al riguardo: emerse piuttosto una tensione tra le prospettive di “redenzione" del lavoro salariato – sostenute per esempio da Bruno Trentin, al tempo segretario della FIOM, e dalla sinistra sindacale – e di “liberazione" dal lavoro salariato, fatta propria dalle organizzazioni operaiste come Potere Operaio prima e Autonomia Operaia poi.
Crediamo sia ragionevole ipotizzare che l’incapacità di conciliare queste due opzioni attorno alla comune rivendicazione di una "riduzione della giornata lavorativa a parità di salario" abbia contribuito in modo determinante alla sconfitta di quel ciclo di conflitti.
In luogo del potere operaio sulla composizione qualitativa della produzione si ebbe così la reazione – violentissima – del capitale: frantumazione del lavoro, smantellamento del welfare e finanziarizzazione accelerata, nonché, dal punto di vista ambientale, la transizione ecologica dall’alto che abbiamo tratteggiato più sopra.
Nel momento in cui tale strategia fallisce, però, la partita si riapre.
La memoria delle lotte di cinquant’anni fa assume ora una nuova importanza e il tema della convergenza tra lotte sul lavoro e mobilitazioni per il clima e l’ambiente può tornare d’attualità.
“Convergere per insorgere” dentro e contro la crisi ecologica
La sconfitta dell’ambientalismo operaio del Lungo Sessantotto ci ha catapultato in un mondo di “deindustrializzazione nociva", espressione con cui si indica la scomparsa di posti di lavoro nel settore manifatturiero in aree dove industrie significativamente dannose sono ancora in funzione.
Insomma, la logica del profitto ha portato sia a (relative) perdite di posti di lavoro nelle fabbriche (e alla precarizzazione che a tali perdite spesso si accompagna) sia all’aggravarsi della devastazione ambientale.
Le temperature in aumento, la siccità, i raccolti in calo, i ghiacciai che fondono e le morti connesse ai fenomeni meteorologici estremi che abbiamo visto nell’estate 2022, sono l’ennesima conferma di una situazione drammatica.
Siamo dentro la crisi ecologica, non solo come vittime degli impatti altamente disuguali della devastazione ambientale lungo linee intrecciate di classe, etnia e genere su scala globale; siamo dentro la crisi perché, nella nostra società, la sussistenza della classe lavoratrice deriva dal lavoro capitalista e di conseguenza la maggior parte delle persone dipende dalla "crescita infinita della produzione di merci".
Il ricatto occupazionale non riguarda dunque solo le grandi industrie altamente nocive: è invece una caratteristica intrinseca e trasversale del capitalismo, che si manifesta con intensità variabili in contesti diversi.
Per interrogarci su come rafforzare l’ecologismo dal basso, riteniamo utile aggiornare il metodo dell’analisi della "composizione di classe" lungo tre linee.
1) Una concezione ampia di classe lavoratrice, definita dalla coazione alla vendita della forza-lavoro: consideriamo come parte della classe lavoratrice coloro che, non possedendo né gestendo i mezzi di produzione, vivono la coazione a vendere la propria forza-lavoro, sia essa impiegata per produrre merci o per riprodurre forza-lavoro.
Questo a prescindere dal fatto che trovino o meno acquirenti stabili.
Sebbene questa prospettiva escluda il ceto medio, a cui il capitale delega alcune responsabilità di gestione, essa è comunque più ampia delle anguste visioni dominanti; ampia abbastanza da includere le lavoratrici e i lavoratori disoccupati, riproduttivi, informali, cognitivi subordinati e para-autonomi.
2) Una concezione del lavoro che includa sia la produzione che la riproduzione: seguiamo la teoria femminista della riproduzione sociale e definiamo come lavoro capitalista tutte quelle attività (salariate e non) direttamente produttive e riproduttive (esplicitamente o invisibilmente subordinate all’accumulazione di capitale), a prescindere dal settore economico.
Infatti, la classe viene messa al lavoro sia nella produzione di merci (lavoro direttamente produttivo) sia nella creazione e manutenzione non direttamente mercificata di una forza-lavoro impiegabile dal capitale (lavoro riproduttivo).
La distinzione tra lavoro direttamente produttivo e lavoro riproduttivo è determinata dalla “frontiera della mercificazione”, non dai diversi tipi di attività concrete in cui quest'ultimo viene impiegato.
3) Una concezione degli interessi di chi lavora inclusiva sia del luogo di lavoro sia del territorio: anche la distinzione tra luogo di lavoro e territorio non è basata su separazioni fisiche ma su relazioni sociali; il primo è la sfera dei “soggetti-come-produttori-o-riproduttori”, mentre il secondo è la sfera dei “soggetti-come-riprodotti”.
Gli interessi della classe lavoratrice sono spesso concepiti come incentrati sul luogo di lavoro (posto sicuro, alti salari, salute e sicurezza, ecc.) e, senza dubbio, una redistribuzione della ricchezza attraverso più salario per meno orario aiuterebbe a superare il dilemma ambiente-lavoro, riducendo il bisogno stesso di creare e mantenere nuova occupazione.
Ma in ogni caso, le lavoratrici e i lavoratori non svaniscono dopo aver abbandonato i luoghi di lavoro; al contrario, ritornano ai propri quartieri, respirano l’aria fuori dalle fabbriche e dagli uffici, godono del proprio tempo libero mettendosi in relazione con le ecologie che li circondano.
Gli interessi di classe, dunque, non riguardano solo i diritti nei luoghi di lavoro ma anche quelli nei territori (prezzi dei beni di consumo, strutture del welfare, ecologie salubri, ecc.).
Questa "tripla espansione concettuale di classe lavoratrice, lavoro e interessi di classe" intende superare le prospettive che rafforzano il ricatto occupazionale.
Infatti, se il lavoro “vero” è solo quello salariato e industriale, e di conseguenza la classe “vera” è più che proporzionalmente maschile (e, fino a poco tempo fa, bianca), e se i suoi “veri” interessi stanno prima di tutto nel conservare un determinato posto di lavoro così com’è, allora è impossibile scorgere una via d’uscita.
Al contrario, una concezione "allargata" dei concetti in questione rappresenta uno strumento efficace per la costruzione di alleanze tra segmenti di classe differentemente collocati nella matrice di potere classe-etnia-genere.
Per esempio, le comunità che vivono nei pressi di installazioni altamente inquinanti sono spesso più che proporzionalmente composte dagli strati più svantaggiati della classe lavoratrice, non necessariamente aventi ampio accesso ai posti di lavoro nelle fabbriche: per queste persone la transizione ecologica al livello locale significherebbe una diminuzione dei tassi di tumore e di altre patologie.
Per chi è direttamente impiegato nelle aziende inquinanti la situazione è diversa, seppur non necessariamente inconciliabile; in fin dei conti, in questo caso la transizione ecologica dall’alto rappresenta il rischio di dover accettare posti di lavoro più precari e meno remunerati.
La sfida contro la crisi ecologica è dunque quella di rompere il ricatto creando convergenza tra le lotte sul luogo di lavoro e quelle sui territori.
Si tratta di ricomporre queste segmentazioni a livello politico, costruendo piattaforme rivendicative volte ad articolare lotte sul luogo di lavoro e lotte territoriali.
La vertenza GKN e la transizione ecologica dal basso
"Nazionalizzazione sotto il controllo operaio per la creazione di un Polo Pubblico per la Mobilità Sostenibile".
La lotta del Collettivo di Fabbrica GKN è un passaggio cruciale nella costruzione di un’alternativa alla transizione ecologica dall’alto, la quale – non mettendo in discussione le fondamenta del sistema che ha prodotto la crisi – ha ben poco di davvero sostenibile.
Riprendendo il filo rosso dell’ambientalismo operaio, il Collettivo ha infatti dimostrato nella pratica militante come la convergenza tra luoghi di lavoro e territori attorno alle parole d’ordine della giustizia climatica sia una strategia percorribile.
Una reale transizione climatica, ambientale, sociale non può prescindere dalla capacità della società di dotarsi di forme di pianificazione complessiva ed ecosostenibile.
E tale pianificazione non si genera nel ricatto, nella gerarchizzazione dei luoghi di lavoro, nell’oppressione e repressione dei territori come succede da anni ad esempio in Val Susa, ma nel "risveglio della democrazia partecipativa e rivendicativa".
Queste parole centrano la dimensione sistemica del problema.
La mercificazione, infatti, è un "cuneo" che divide la produzione capitalistica dalla riproduzione della vita e subordina quest’ultima alla prima.
Il profitto non dipende solo dalla crescita infinita ma anche dalla capacità di produrre beni e servizi che troveranno acquirenti.
Tuttavia, il consumo di mercato è intrinsecamente individualista e di breve termine, mentre la pianificazione democratica è collettiva e potenzialmente lungimirante.
Il piano di conversione del Collettivo GKN è esemplare di come tali orizzonti in apparenza lontani possano trovare, anche nell’attuale congiuntura politica avversa, sbocchi rivendicativi concreti.
Accanto alla dimensione qualitativa della demercificazione, è necessaria anche la dimensione quantitativa relativa al salario e all’orario di lavoro: "Chiediamo di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario perché le quote di lavoro siano ugualmente redistribuite tra tutta la popolazione."
È possibile lavorare meno e lavorare tutti, ed è un diritto che ogni lavoratrice e lavoratore, di oggi o di domani, dovrebbe rivendicare.
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