Razionalità e modernità sono prodotti esclusivamente europei, a cui farebbero da contraltare l’irrazionalità e l’arretratezza delle popolazioni colonizzate.
tratto dalla recensione di Cristian Perra al volume di Carmine Conelli "Il rovescio della nazione"; (TAMU, 2022).
"Il rovescio della nazione" di Carmine Conelli è un libro importante per comprendere, da una prospettiva decoloniale e subalterna, la questione dei territori periferici dello stato italiano, passata alla storia come questione meridionale.
Secondo l'autore, ciò che spesso accomuna le rivendicazioni meridionalistiche (quelle siciliane e quelle dell’indipendentismo organizzato in Sardegna) è una dimensione di riscatto legata ad una presunta "originarietà perduta": una purezza identitaria che sarebbe stata (immediatamente) soppiantata da forme coloniali o para–coloniali.
Per l'autore, questo approccio rivelerebbe un "provincialismo non interessato a comprendere le cause materiali della subalternità" (privilegi e oppressioni insite nella società meridionale e nelle sue élites); che "si arrocca dietro una strenua difesa culturalista di un nucleo originario e intoccato dello spirito meridionale".
Si tratta – secondo Conelli – di "una ricostruzione storica che assomiglia di più a una mitologia selettiva, poiché glissa sull’assenza di diritti di cittadinanza nel sud Italia preunitario, dove gli abitanti erano piuttosto dei sudditi a cui erano negate le più elementari libertà politiche; e che pure sorvola sulla distribuzione ineguale della ricchezza, vagheggiando un diffuso benessere popolare poi perduto con l’unificazione".
Questo mito ha contribuito, dando voce a un malessere radicato nella società meridionale, ad una lettura autoconsolatoria dell’unificazione nazionale come "offesa storica da riscattare".
Nazione e narrazione
Il volume di Conelli prende invece in considerazione le intersezioni tra i rapporti di potere plasmati dal colonialismo e le divisioni di classe proprie della società meridionale, sia sul piano materiale che su quello della rappresentazione.
Come afferma l'autore "inscrivendo la questione meridionale in una dialettica tra memoria e storia tutta interna allo stato italiano spesso emerge, in particolare nei suoi territori marginali, una torsione identitaria che anziché muovere verso una giustizia riparativa che compensi i torti subiti dalle popolazioni meridionali, annulla le differenze sociali presenti all’interno del Meridione, ponendosi a sostegno dello status quo".
Per Conelli "richiamarsi a un passato glorioso, infatti, permette di rendere la storia una superficie liscia su cui costruire la propria narrazione: la tesi dell’età dell’oro dei Borbone, che nasconde le tensioni e i conflitti interni che percorrevano allora la società meridionale, e che ancora oggi la percorrono".
La colonizzazione del sud rischia così di essere un’etichetta retoricamente accattivante per definire un rapporto privo di ombre tra bene e male, tra i due monoliti del nord oppressore e del sud oppresso: in questo senso è un’etichetta pericolosa perché priva del suo peso effettivo il riferimento al colonialismo come "fenomeno storico e come ordine di discorso".
Un discorso, per Conelli, "le cui interpretazioni binarie hanno inchiodato l’arretrato Meridione al cospetto del più moderno e sviluppato nord, rappresentando gli abitanti del sud come oziosi, propensi alla criminalità e al malaffare, ancorati al passato e devoti al malgoverno; in un continuo confronto con i più civilizzati settentrionali.
Un Meridione in cui non esistono zone di privilegio né sfruttamento ma solo inefficienza, illegalità, degrado".
La cassetta degli attrezzi decoloniale
In una prospettiva decoloniale, questo volume propone di abbandonare l’idea del sud Italia come questione nazionale per proiettarlo – e proiettarsi – in una mappa globale.
Su questa mappa riconosciamo un nord globale che pensa settentrionalmente al sud come a un "non-ancora-nord", come a un luogo di mancanze e assenze; e vediamo emergere il sud Italia non dalla storia degli stati-nazione ma dai perduranti effetti del colonialismo europeo.
Attraverso una lettura non ingenua della questione meridionale si scopre come quella tra nord e sud dello stato italiano non sia altro che una geografia immaginaria creata e rappresentata allo scopo di celare le relazioni di potere asimmetriche instaurate dall’unità dello stato italiano in poi e l’ordine discorsivo che scaturisce da queste.
Il sud è dunque – se seguiamo le argomentazioni di Said in "Orientalismo" – quell’altro, sebbene interno, che permette di plasmare un noi.
Aspetto fondativo dell’identità nazionale durante il Risorgimento è stato, infatti, un discorso, volto a dipingere il Mezzogiorno come il lato oscuro del nuovo stato–nazione italiano, modellato a partire dall’immaginario coloniale di cui l’Europa si dotava per confrontarsi con i territori al di fuori dei suoi confini.
La posta in gioco di questo sguardo subalternizzante è far sì che i territori meridionali dello stato italiano vengano storicamente visti come appartenenti a una linea temporale differente, ad un "not yet", evocando l’espressione fornita da Chakrabarty in "Provincializzare l’Europa".
Archivio e colonialità
Quella della modernità, come dimostrato sia dagli studi postcoloniali che dall’opzione decoloniale, è un tipo di concettualizzazione profondamente connessa sia con la colonialità che con il colonialismo propriamente detto.
Infatti, è solo a partire dalla scoperta di terre al di là del "vecchio mondo", nel tardo Quattrocento, che la temporalità comincia a misurare l’avanzamento o il ritardo rispetto ad una supposta linea del progresso.
Si tratta, chiaramente, di un concetto limite che crea identità speculari, raffronti e differenze ataviche e incolmabili.
Le popolazioni mesoamericane conquistate da Cortés sono state il metro di paragone attraverso cui l’occidente ha proclamato il proprio dominio globale e fornito un modello di sfruttamento applicabile anche alle sue periferie.
All’interno dello stato italiano, come mostra Conelli, si è osservata una simile dinamica di negazione della coevità.
Questo concetto consiste nella "tendenza sistematica a posizionare i referenti del discorso antropologico in un tempo altro rispetto al presente di chi questo discorso produce".
Una rappresentazione che confinava i meridionali in una immaginaria sala d’attesa della storia, inaugurando quella visione dualista che ancora oggi governa i tropi della questione meridionale lungo la direttrice nord–sud.
Una visione che si pone nella stessa traiettoria del modello di conoscenza eurocentrico messo a fuoco da Quijano nell’analisi della "colonialità del sapere".
È particolarmente curioso osservare come le regioni più remote del regno di Napoli venissero chiamate "Las indias de por acà" da quei gesuiti che tornavano dalle Americhe, assimilando alla figura dell’indio le popolazioni del meridione della penisola italiana.
Come scrive Conelli si tratta di «un’espressione, quella dell'India italiana, che rimandava all’immaginario del selvaggio e del primitivo, a genti irriducibili alla morale comune e al cristianesimo, ignoranti e licenziose, che – proprio come gli indigeni delle Americhe – andavano civilizzate e riformate».
Il sud Italia era così una palestra per coloro che si apprestavano a colonizzare il centro America tanto che, come riporta Conelli, il gesuita Michele Navarro, trovatosi a Messina nel 1575 poteva scrivere che «chiunque darà buona prova di sé in queste nostre Indie di qui, sarà adatto anche a quelle di là dell’Oceano».
Così l’altro esterno nei possedimenti coloniali e il subalterno interno hanno consentito alla soggettività europea (del nord) di considerarsi – e anche tutt’oggi è così – come "l’orizzonte culturale, politico e sociale più progredito al mondo".
Conelli nota inoltre come il colonialismo sia allo stesso tempo il fil rouge della modernità e il suo rimosso dall’ordine del discorso.
Riprendendo il Foucault de "l'Archeologia del sapere" viene utilizzato il concetto di archivio come materiale grezzo sul quale si forma la narrazione coloniale.
Nella formulazione foucaultiana emerge «una dimensione figurata dell’archivio la cui funzione è quella di costruire attivamente un immaginario politico, nonché i saperi e l’orizzonte culturale che modellano la nostra comprensione della realtà sociale e della storia.
Nel produrre fatti, narrazioni e identità, esso incorpora alcuni registri e forme di sapere a scapito di altri, giudicati insignificanti, inappropriati e dunque esclusi dall’archivio stesso».
Nella narrazione della modernità, il silenzio dell’archivio è storicamente incarnato dal colonialismo.
Da alcuni decenni, però, gli studi postcoloniali e decoloniali hanno messo in crisi la narrazione fondata sulla rimozione del colonialismo, riconoscendolo come l’elemento determinante della storia e mettendone in luce la deliberata assenza dal discorso.
Come scrive Conelli "dalla conquista delle Americhe ha avuto origine non solo l’organizzazione coloniale del mondo, ma anche quell’archivio globale contrassegnato dalla fabbricazione dei saperi, dei linguaggi, della memoria e dell’immaginario nel solco del colonialismo.
La totalità dello spazio e del tempo di tutte le culture, dei popoli e dei territori del pianeta è stata riordinata in una grande narrazione universale in cui l’Europa è simultaneamente il centro geografico e il culmine del progresso temporale".
I territori periferici dello stato italiano, tuttavia si trovano a metà tra una forma di colonialismo interno e i privilegi propri della modernità eurocentrica.
Scrive Conelli "nella narrazione ottocentesca della modernità, la penisola iberica, la Francia meridionale, l’Italia e la Grecia – l’area del Mediterraneo in generale – sono state collocate su un gradino più basso rispetto all’Europa nordoccidentale, laddove avevano avuto luogo gli eventi chiave per lo sviluppo della soggettività moderna: la Riforma, l’Illuminismo e la rivoluzione francese.
Il sud Italia ha vissuto pienamente la sua appartenenza alla modernità e alle contraddizioni coloniali da essa aperte.
Lo ha fatto durante la lotta per l’egemonia culturale e geopolitica in Europa tra Riforma e Controriforma; durante le prime rivolte contro lo stato e la proprietà, e nel momento in cui le rivoluzioni politiche hanno fatto vacillare e poi definitivamente tramontare il potere delle monarchie assolute.
La posizione liminale del Mezzogiorno, prima periferia orientale dell’impero spagnolo e successivamente periferia meridionale di quell’Europa, che nell’800 colonizzava l’intero globo, rivela così anche l’impossibilità di una presunzione di innocenza coloniale da parte delle sue élite."
Iniziative autonome
Conelli intende inoltre ricostruire, nel meridione d’Italia, le "tracce dell’iniziativa autonoma dei gruppi subalterni", seguendo l’indicazione suggerita da Gramsci.
Nella visione gramsciana i gruppi subalterni vengono raffigurati come frammentati e accomunati da una tendenza all’unificazione sempre rotta dall’iniziativa dominante.
Tuttavia, Gramsci, mettendo in evidenza l’esistenza di tracce dell'iniziativa autonoma di queste compagini, suggerisce la possibilità del loro agire politico e la loro potenziale rilevanza storica.
I subalterni sono "l’agente di raccordo tra la realtà della storia e la sua negazione": la loro esistenza, infatti, è reale e insieme mancante di una autonoma volontà politica, atta a valorizzare la loro disgregazione.
In tal senso nei gruppi subalterni si fa presente e si offre all’osservazione lo "storicamente negativo".
Un "negativo" che ha la figura concreta di un determinato gruppo umano con caratteristiche precise, non deducibile: esso è solamente constatabile come residuo, come scarto dalla totalità ordinata e la sua esistenza non è mai recuperabile in una compiuta sintesi dialettica che lo renda momento negativo necessario per l’apparizione sempre egemone del "positivo".
Mondo contadino ed economia informale di sussistenza
La "mentalità comunitaria e territoriale", che caratterizzava il socialismo contadino del sud Italia, era considerata generalmente più arretrata rispetto al socialismo operaio del nord e andava per questo ricondotta sul "giusto tracciato".
Conelli ricostruisce chiaramente come rispetto alle rivendicazioni e alle lotte operaie che si sono manifestate nel nord Italia, quelle meridionali hanno avuto caratteristiche molto diverse per direzione (o dovremmo dire non–direzione) e per composizione.
La motivazione è prettamente materiale: il modello economico delle regioni meridionali non è mai stato quello di fabbrica, per quanto sia nel sud Italia che in Sardegna ci sia stato un tentativo di industrializzazione sostenuto – tra le varie realtà politiche – anche dal PCI per creare una classe proletaria in grado di avere coscienza di classe.
La coscienza politica dei contadini del sud – come scrive l’autore – "rifuggiva le interpretazioni del partito e procedeva in un percorso autonomo, contrapponendosi all’assetto capitalistico e borghese della proprietà".
Ad esempio, per quanto riguarda Napoli, Conelli mette l’accento sull’economia del vicolo, «un complesso di relazioni che la borghesia e le classi medie instauravano con artigiani, guantaie, lavoratori e lavoratrici a cottimo, ambulanti.
Un tessuto produttivo abitato da un proletariato fragile e frammentato, dove spesso la linea di demarcazione tra economia formale e informale, tra lavori legali e illegali, si assottigliava e confondeva».
Ma la marginalità – come insegna bell hooks, non è esclusivamente un limite: è anche una potenzialità.
Per questa ragione rivestono importanza fondamentale le iniziative autonome delle compagini e delle soggettività subalterne: perché, probabilmente, sono ancora oggi l’unica eccedenza in grado di andare oltre colonialismo interno e colonialità.
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