Razza, classe e sesso sono sistemi di oppressione/privilegio che determinano le nostre vite e ci posizionano nel mondo.

tratto da "Dai margini dei femminismi neri e della decolonialità. Rompere l’universale, praticare la libertà"; di Francesca De Rosa.

https://doi.org/10.1405/100501

Il rinnovato interesse per il femminismo nero, che si somma all’attenzione crescente per le prospettive decoloniali e intersezionali, si inserisce in quel panorama che vede, negli ultimi anni, diversi soggetti affrontare alla radice questioni sostanziali legate ai temi di razza, classe e sesso.

Insegnante, teorica e attivista femminista, Gloria Jean Watkins (1952-2021), cresciuta in un ambiente umile caratterizzato dall’autoritarismo paterno in un sistema di discriminazione razziale profondamente ancorato al sud rurale e segregato degli Stati Uniti, decide di marcare la linea femminile della sua storia familiare scegliendo di firmarsi bell hooks.

Portare a casa la pelle

Ben consapevole del ruolo che il sessismo aveva assegnato alle donne, nel saggio "Casa. Un sito di resistenza", bell hooks invita a guardare come, durante la segregazione, le case appartenessero alle donne nere, e come queste le avessero sottratte alla mera funzione convenzionale. 

Questo spazio diventava un approdo di fronte alla brutalità segregazionista, in cui «potersi misurare in modo libero con la propria umanità, dove poter resistere», dare significato alla dignità dell’esistenza nera e sentirsi al sicuro. 

Casa diventa così tante posizioni, comunità resistente costruita dalle donne nere in pieno apartheid razziale, fatta dei loro saperi e sottratta al controllo in una società suprematista bianca: un luogo necessario per ri-umanizzare le relazioni sociali attraverso quelle donne «che avevano sempre lavorato». 

Più che immaginare possibili vie di fuga dallo spazio domestico, rivendicare un’emancipazione lavorativa, queste donne lottavano per ritornare a casa vive e salve, dopo lunghissime giornate di lavoro e sfruttamento. 

Il margine e la memoria collettiva

hooks si posiziona, sceglie il margine come spazio di apertura radicale, e invita a posizionarsi, a scegliere le nostre parole per guardare quei rapporti di potere e di oppressione riconosciuti attraverso l’esperienza, la sofferenza e il dolore.

Il margine è un luogo all’estremità, di una profondità assoluta, capace di far sviluppare uno sguardo particolare sul mondo: nutre la capacità di resistenza, di creatività, non è un semplice luogo di privazione ma lo spazio adatto per articolare un discorso contro-egemonico. 

Patricia Hill Collins propone il concetto di "outsider within" per descrivere l’uso creativo che le intellettuali nere hanno fatto della propria marginalità come base di produzione teorica situata e di autodefinizione. 

L’essere simultaneamente fuori e dentro è teorizzato da Collins attraverso l’esperienza delle donne nere in diversi ambiti da cui sono state storicamente escluse. 

Questa ricorda come il ruolo delle lavoratrici domestiche nere, outsider/insider all’interno delle case dei padroni bianchi, abbia permesso loro di riconoscere elementi invisibili agli altri, e di avere chiaro che il razzismo era l’unico elemento che giustificava lo status superiore dei loro padroni.

Durante la schiavitù, la relazione serva-padrona è l’unico punto di contatto tra donne nere e bianche, argomenta bell hooks: «le donne nere servivano e le donne bianche venivano servite».

Il rapporto serva-padrona si mantiene durante la segregazione come unico terreno d'incontro. 

Nelle narrazioni di molte donne bianche le serve nere erano considerate «una della famiglia» senza riconoscere che l’intimità e la cura possono coesistere con il dominio, mentre «la serva era perennemente consapevole del fatto che nessun grado di affetto o cura avrebbe alterato le differenze di status». 

L’importanza di ricordare le donne nere, nella scrittura di bell hooks, non è una semplice celebrazione della sofferenza, ma un riconoscimento delle continue forme di resistenza che queste hanno sempre messo in campo, attraverso la loro lotta e i loro gesti politici radicalmente sovversivi.

Esercizi di sguardo

Imparare a vedere, per bell hooks, è un «processo costante che alimenta consapevolezza e comprensione» e in "Estetica della nerezza: estraneità e opposizione", fa appello al senso di bellezza e di eredità estetica trasmessale da generazioni di antenati neri i cui modi di pensare si erano costruiti nella diaspora africana, nell’esperienza dell’esilio e della dominazione. 

La mancanza materiale, «l’arte nella vita di tutti i giorni della povera gente», diventano ulteriori lenti per guardare al mondo con occhio critico, lontano dai canoni del consumismo e del capitalismo. 

hooks propone un’estetica radicale capace di instaurare legami tra politica rivoluzionaria e arte fuori da parametri interni e rigidi di valutazione, per liberarci dall’idea che la cultura bianca sia il luogo originario da cui la discussione estetica ha origine.

Tale sollecitazione viene ripresa anche nel saggio "Nerezza postmoderna", dove l’invito è ad abbandonare quei paradigmi coloniali che hanno a lungo rappresentato la nerezza come un fenomeno unidimensionale. 

hooks rimarca il carattere problematico della costruzione identitaria e della rappresentazione dell'identità nera autentica, per lei la critica radicale postmoderna deve abbandonare l’univocità essenzialista e riconoscere quanto gli effetti di classe e razza rendano frammentaria la narrazione monolitica dell’esperienza. 

La presa di parola

«Lo sguardo è stato ed è un sito di resistenza per i neri colonizzati di tutto il mondo» nonostante venisse loro impedito di guardare.

Le donne e gli uomini neri avevano sempre parlato, nonostante venissero messi in campo tutti i tentativi per zittirli. 

Per rompere il postulato del silenzio, Djamila Ribeiro riprende l’analisi dell’artista interdisciplinare Grada Kilomba che rievoca la figura di culto, nella cultura afrobrasiliana, della schiava Anastasia raffigurata con la maschera del silenziamento. 

Composta da un pezzo di metallo posto all’interno della bocca tra la lingua e la mandibola e fissata dietro la testa con due corde, questa maschera serviva ufficialmente per impedire agli africani schiavizzati di mangiare durante il lavoro nelle piantagioni, ma la sua principale funzione era impedire a queste persone di parlare. 

Anche la scrittrice brasiliana Conceição Evaristo si rifà a questa immagine, per ricordare che nonostante la brutalità: «abbiamo imparato a parlare attraverso le fessure della maschera e a volte abbiamo parlato con tale potenza da frantumarla». 

La lingua dal margine fa quello che vogliamo noi

L’individuazione del margine, per bell hooks, viene proposta per avviare un processo di re-visione e scavalcare i confini del dominio anche attraverso il linguaggio, e imparare così a cambiare la natura delle nostre parole, fuori dall’autorialità e dal padroneggiamento. bell hooks descrive quanto la stessa lingua sia un luogo di lotta, di riflessione sul modo in cui riusciamo ad articolare i nostri discorsi se ci troviamo di fronte all’oppresso o all’oppressore. 

Come riprende in "Insegnare a trasgredire", gli oppressori hanno reso la lingua un’arma utile a causare vergogna e umiliazione. 

hooks ci invita a considerare la traumatica perdita della lingua che lungo la storia ha costretto africani sfollati, deportati negli Stati Uniti, ma anche nativi americani, a rinunciare al proprio linguaggio e alla propria lingua, dovendosi costantemente tradurre nella lingua standard, «in cui il suono stesso della propria lingua madre non aveva significato».

Ricorda, inoltre, come gli/e schiavi/e neri/e riprendessero frammenti di inglese trasformandoli in una contro-lingua, cambiandone il significato e riconoscendo la connessione ininterrotta tra l’inglese riappropriato dagli schiavi africani deportati di ieri e gli slang utilizzati oggi dai neri. 

Oltre gli essenzialismi, rompere l’universale

Non esistono ordini naturali, esistono rapporti di dominazione naturalizzati e a questi va contrapposto un discorso contro-egemonico, prassi e teorie di liberazione attraverso il passaggio dalla sofferenza alla presa di coscienza. 

È in tale direzione che, riprendendo le parole di Maria Nadotti, teorizza «la condensatissima formula politica di patriarcato capitalista suprematista bianco», con cui racchiude tutti gli elementi in gioco per ribadire che il razzismo e il sessismo non possono essere presi isolatamente, ma vanno indagati insieme. 

Razzismo e sessismo si rafforzano a vicenda: lo sottolinea la hooks in "Riflessioni su razza e sesso", per evidenziare quanto il sessismo sia sempre stato un utile atteggiamento politico di mediazione del dominio razziale, che la sessualità ha fornito metafore di genere alla colonizzazione e lo stupro è stato usato per ricordare continuamente ai maschi dominati la loro perdita di potere. 

Contraria al destino comune delle donne, al femminismo essenzialista, al determinismo biologico, alla reintroduzione della figura della madre come categoria privilegiata ed esclusiva del femminile, al matrimonio, hooks definisce la teoria delle donne come «una casta sessuale». 

Si sofferma, inoltre, sulla difficoltà da parte del femminismo bianco di riconoscere il razzismo, e sottolinea come il razzismo, all’interno del patriarcato fondato sulla supremazia bianca, abbia costruito l’immagine del maschio nero stupratore trattandolo come fenomeno di carattere speciale e una forma di disordine sociale.

hooks sottolinea come le analisi contemporanee sulla relazione storica tra donne bianche e nere debbano includere il riconoscimento dell'amarezza che le schiave nere provavano nei confronti delle donne bianche. 

Più volte evidenzia anche il ruolo fondamentale giocato dalle femministe bianche provenienti da contesti poveri, o fuori dai sistemi binari dell’etero-patriarcato, capaci di ascoltare le donne nere «sull’impatto della razza e del dominio senza sentirsi minacciate», rendendo così la sorellanza ancora possibile, ancora potente. 

Per hooks il femminismo sta nella capacità di continuare a misurare sé stesse nel rapporto con gli altri, nell’interazione col mondo, nella lotta comune al sessismo, allo sfruttamento e all’oppressione sessuale, non «nell’istituzionalizzazione del sapere femminista, acquisito attraverso un curriculum universitario».

Pedagogia Impegnata

La teoria, per hooks, è consapevolezza del posto che si occupa nella società, è pratica sociale. 

È rinunciare al potere di agire come colonizzatori. 

Nei saggi presenti in "Insegnare a trasgredire" hooks propone una sorta di cassetta degli attrezzi per ripensare il processo di educazione e insegnamento dentro e fuori l’aula. 

Il volume ci conduce verso la pedagogia impegnata attraverso prassi che hooks definisce «interazioni illuminanti di pedagogie anticoloniali, critiche e femministe». 

Convinta che chiunque possa imparare, individua l’aula come spazio di possibilità e di piacere capace di generare entusiasmo e desiderio, attraverso lo sforzo collettivo, in cui tutti rivendicano la conoscenza in un rapporto di reciprocità

Trasgredire, per bell hooks, significa incoraggiare l’eccitazione e rivoluzionare i valori che inseriscono la persona in sistemi di dominazione, per curare l’anima.

«Il piacere dell’insegnamento è un atto di resistenza»: attraverso l’indissolubile legame tra prassi e teoria, hooks riconosce che teorizzare è una forma di attivismo e conferisce un ruolo centrale all’esperienza come possibilità di conoscenza. 

L’aula rimane «lo spazio più radicale dell’accademia», in cui trasformare ciò che insegniamo e il modo in cui lo facciamo. 

Per bell hooks decolonizzare l’accademia significa decostruire le vecchie epistemologie e mettere in discussione la stessa università corrotta e morente, nel ruolo che si è data di diffondere la verità: «l’accademia non è il paradiso; ma l’apprendimento è il luogo in cui è possibile creare il paradiso». 

Immaginari decoloniali

Educare alla libertà assume il profondo significato di sfidare il modo in cui si è abituati a pensare ai processi pedagogici, contrapporre complicità, alleanze, alimentare il desiderio e non cancellare il corpo. 

Dare spazio a sentimenti di cura,«ri-portare la passione o farla nascere in aule dove non c’è mai stata».

Françoise Vergès propone un’analisi multidimensionale dell’oppressione per introdurre il suo contributo alla pedagogia critica decoloniale, possibile attraverso la decentralizzazione dell’epistemologia occidentale. 

Le lotte dei movimenti sociali hanno prodotto una biblioteca di esperienze, teorie e saperi il cui obiettivo è quello di ri-umanizzare il mondo. 

La sfida del femminismo decoloniale sta nella possibilità di pensare attraverso l’ascolto, e nel decostruire la morsa dell'educazione scolastica che ha messo da parte i sensi e non fa più «vedere». 

In questo modo è possibile evitare la gerarchizzazione delle lotte attraverso la possibilità di pensare insieme le manifestazioni delle oppressioni. 

Un lavoro di riscoperta, di valorizzazione e di diffusione dei saperi attraverso svariate forme di circolazione. 

Per Vergès, la politica decoloniale si inscrive nel lungo lavoro archeologico di rivelazione di quelle storie buttate fuori dall’umanità, per contrastare i racconti che a lungo hanno descritto le razzizzate senza un passato, e per ribaltare le narrazioni dominanti che hanno svuotato l’immagine di attiviste radicali, come nel caso di Rosa Parks, ingabbiata nelle più rassicuranti rappresentazioni.

L’esercizio che lega le pratiche dei femminismi qui riportati, a partire dal e attraverso il pensiero di bell hooks, sembra tendere verso una continua e incessante ricerca di un profondo senso di giustizia. 

Sono questi mondi che ci parlano anche di casa nostra, che ci invitano a smontare le nuove declinazioni su cui si costruiscono i rapporti di dominazione e di razzismo strutturale. 

Uno stimolo per comprendere quanto, ancora oggi, la razza sia una «categoria sociale di esclusione e di assassinio, che non esiste, ma i suoi effetti e le sue pratiche sì: produce morti, garantisce il potere ed è la più tangibile, reale delle realtà», che costruisce i/le migranti e definisce il corpo nazionale


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