Marx sostiene che nel capitalismo l'alienazione del lavoro è allo stesso tempo "alienazione della natura dall'uomo".
tratto da "Sull'ecologia del capitalismo";
di Antithesis.
Nei "Manoscritti economici e filosofici del 1844" Marx scrive: "Abbiamo considerato l'atto dell'estraniazione dell'attività pratica dell'uomo, cioè il lavoro, da due lati.
(1) Il rapporto dell'operaio col prodotto del
lavoro considerato come oggetto estraneo e oppressivo.
Questo rapporto è ad un tempo il rapporto col mondo esterno sensibile, con gli oggetti della natura, inteso come un mondo estraneo che gli sta di fronte in modo ostile.
(2) Il rapporto del lavoro con l'atto della produzione entro il lavoro.
Questo rapporto è il rapporto dell'operaio con la sua propria attività come attività estranea che non gli appartiene, l'attività come passività, la forza come impotenza, la procreazione come svirilimento, l'energia fisica e spirituale propria dell'operaio, la sua vita personale - e infatti che [altro] è la vita se non attività? - come un'attività rivolta contro di lui, da lui indipendente, e che non gli appartiene".
E ancora: "La natura è il corpo inorganico dell'uomo, precisamente la natura in quanto non è essa stessa corpo umano.
Che l'uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto per non morire.
Che la vita fisica e spirituale dell'uomo sia congiunta con la natura, non significa altro che la natura è congiunta con se stessa, perché l'uomo è una parte della natura.
Poiché il lavoro estraniato rende estranea all'uomo la natura e l'uomo stesso, la sua propria funzione attiva, la sua attività vitale, rende estranea all'uomo la specie; fa della vita della specie un mezzo della vita individuale".
Quest'idea è stata sviluppata ulteriormente nei "Grundrisse" dove Marx ha presentato per la prima volta il processo storico per mezzo del quale sarebbe possibile spiegare come è avvenuta la rottura dell'unità dell'umanità viva ed attiva, con le condizioni naturali del suo scambio metabolico con la natura, come è avvenuta "la separazione di queste condizioni inorganiche dell'esistenza umana da questa esistenza attiva, una separazione che è posta compiutamente solo nel rapporto tra lavoro salariato e capitale"; cioè il processo storico che alla fine porta alla separazione dei produttori dai mezzi di produzione: il processo storico della cosiddetta accumulazione primitiva.
In maniera caratteristica, scrive: "La relazione fra lavoro e capitale, ovvero le condizioni oggettive del lavoro in quanto capitale, presuppone un processo storico che dissolva le varie forme in cui il lavoratore è un proprietario, o in cui il proprietario lavora.
Quindi, innanzitutto [presuppone] la dissoluzione della relazione con la terra - terra e suolo - come condizione naturale di produzione - a cui egli si riferisce come al suo proprio essere inorganico."
E, nello stesso contesto: "Per la prima volta la natura diventa un puro oggetto per l'umanità, un puro oggetto di utilità, e cessa di essere riconosciuta come forza per sé; e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome si presenta semplicemente come astuzia capace di subordinarla ai bisogni umani sia come oggetto di consumo sia come mezzo di produzione.
In virtù di questa sua tendenza, il capitale spinge a superare sia le barriere e i pregiudizi nazionali, sia l'idolatria della natura, la soddisfazione tradizionale, orgogliosamente ristretta entro angusti limiti, dei bisogni esistenti, e la riproduzione del vecchio modo di vivere.
Ma dal fatto che il capitale pone ciascuno di questi limiti come un ostacolo e perciò idealmente lo ha superato, non ne deriva affatto che esso lo abbia superato realmente, e poiché ciascuno di tali ostacoli contraddice alla sua destinazione, la sua produzione si muove tra contraddizioni continuamente superate ma altrettanto continuamente poste".
È precisamente questo il punto in cui ha origine la possibilità, sia di cambiamenti catastrofici in ecosistemi locali e periferici, che quella di un disturbo più onnicomprensivo dell'equilibrio ecologico planetario.
Ad ogni modo, per rispondere alla domanda su come questa possibilità di "crisi ecologica" divenga attualità, è necessario studiare ed analizzare concretamente la storia dello sviluppo capitalistico.
La frattura metabolica
In Marx, lo straniamento della società rispetto alla natura viene concretizzato, nei termini della sua dimensione materiale, nel primo e nel terzo volume de "Il Capitale".
Qui, Marx introduce il concetto di frattura metabolica: la frattura avvenuta nel metabolismo fra società e natura.
Questa frattura deriva dall'approfondirsi dell'antitesi fra città e campagna, vale a dire, dalla divisione geografica della produzione capitalistica con la concentrazione delle industrie nelle aree urbane e dell'agricoltura nelle campagne.
Secondo quest'approccio, dato che una piccola parte della classe operaia viene impiegata nell'agricoltura capitalista, la parte più grande della popolazione si è concentrata nelle città.
In tal modo, le sostanze nutritive e gli elementi che vengono estratti dalla terra per produrre cibo, abiti ed abitazioni per la popolazione, non vengono riciclati e sono convertiti in sostanze inquinanti nelle città.
È evidente che i fenomeni contemporanei di disturbo ecologico, come la perturbazione dei cicli di azoto e fosforo, o l'acidificazione dei mari, possono essere esposti in base al concetto di "frattura metabolica" introdotto da Marx 150 anni fa.
In questo contesto, nel terzo volume de "Il Capitale", Marx scrive: "In entrambe le forme [agricola su piccola e su larga scala], invece di un trattamento razionale e consapevole della terra, vista come una proprietà comune permanente, come condizione inalienabile per l'esistenza e per la riproduzione della catena delle generazioni umane, abbiamo lo sfruttamento e lo sperpero dei poteri della terra.
Dall'altra parte, le grandi proprietà fondiarie riducono la popolazione agricola ad un minimo sempre più decrescente e la contrappone ad una sempre più crescente popolazione industriale che si trova stipata tutta insieme in grandi città; in tal modo si producono condizioni che provocano un'irreparabile frattura nel processo interdipendente del metabolismo sociale, un metabolismo prescritto dalla leggi naturali della vita stessa.
Il risultato di ciò è uno spreco della vitalità del suolo, che viene trasportato per il commercio ben oltre i confini di un singolo paese.
L'industria su larga scala e l'agricoltura perseguita industrialmente su larga scala hanno lo stesso effetto.
Se in origine si distinguono per il fatto che la prima emette rifiuti e rovina la forza lavoro, e quindi il potere naturale dell'uomo, mentre la seconda fa lo stesso per quanto riguarda il potere naturale del suolo, poi si collegano durante il corso successivo dello sviluppo, dal momento che il sistema industriale applicato all'agricoltura mette in pericolo i lavoratori, mentre da parte loro l'industria e il commercio forniscono all'agricoltura i mezzi per esaurire il suolo."
La frattura, nel metabolismo fra società e natura è, quindi, accompagnata dallo sperpero e dalla distruzione della forza lavoro, del potere naturale degli esseri umani, in quanto la produzione del plusvalore si basa sul massimo sfruttamento possibile della forza lavoro, fino al punto di arrivare alla sua rovina e alla sua deformazione per mezzo dell'incremento del tempo di lavoro e dell'intensità del lavoro, ma anche attraverso la distruzione della salute dei lavoratori, in quanto effetto dell'inquinamento.
Questi due aspetti complementari della distruzione del potere naturale degli esseri umani e della terra, vengono descritti con ancor maggiore chiarezza nel primo volume del Capitale: "Con la preponderanza sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula in grandi centri, essa accumula da un lato la forza motrice storica della società, dall’altro turba il ricambio organico fra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque l’eterna condizione naturale di una durevole fertilità del suolo.
Così distrugge insieme la salute fisica degli operai urbani e la vita intellettuale dell’operaio rurale.
Ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso della rovina delle fonti durevoli di questa fertilità.
La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio.
Il capitale non si pone nessuna domanda circa la lunghezza della vita della forza lavoro.
Ciò che gli interessa è puramente e semplicemente il massimo della forza lavoro che può essere messa in moto nel corso di una giornata lavorativa.
Ottiene quest'obiettivo accorciando la vita della forza lavoro, allo stesso modo in cui un avido contadino strappa al suolo più prodotti possibili, privandolo così della sua fertilità."
Naturalmente, quando Marx faceva le osservazioni di cui sopra, lo stato sociale capitalista non era ancora stato formato.
Contrariamente alla miopia e all'avidità dei singoli capitalisti, il welfare tenta di gestire lo sfruttamento della forza lavoro e della natura in maniera più razionale, al fine di facilitare un processo più fluido di quella che è la riproduzione allargata del capitale sociale totale.
Il capitalismo dello stato sociale fa emergere, a sua volta, nuove contraddizioni ed antagonismi, che cerca poi di abolire attraverso delle politiche di "sviluppo sostenibile".
Per Marx, l'ampliamento dei bisogni sociali non deve necessariamente portare all'approfondimento della frattura metabolica e all'esaurimento delle risorse naturali: "Questo regno della necessità naturale si espande insieme al suo [dell'uomo] sviluppo, poiché lo fanno anche i suoi bisogni; ma allo stesso tempo si espandono anche le forze produttive per soddisfarli.
La libertà, in questa sfera, può consistere solo in questo, che l'uomo socializzato, i produttori associati, governi in maniera razionale il metabolismo umano con la natura, portandolo sotto il proprio controllo collettivo, anziché esserne dominato come da un potere cieco; realizzandolo con il minimo dispendio di energia e nelle condizioni più degne e più appropriate alla loro natura umana".
In altre parole, la "straniazione della società dalla natura" verrà superata nel comunismo per mezzo della regolazione razionale del metabolismo con la natura, attraverso la soddisfazione dei ricchi e diversi bisogni umani con il minor dispendio possibile di energie e con lo sviluppo di nuove forze produttive che non esauriranno la fertilità della natura.
Marx era stato chiaro sul fatto che, non solo il capitalista, ma nemmeno l'intera società umana fosse la "proprietaria" della terra: "Dal punto di vista di una più alta formazione socioeconomica, la proprietà privata da parte di particolari individui sulla terra apparirà altrettanto assurda quanto la proprietà privata di un uomo su altri uomini.
Perfino un'intera società, una nazione, o tutte le società simultaneamente esistenti prese tutte insieme, non sono i proprietari della terra.
Essi ne sono semplicemente i possessori, i beneficiari, ed hanno il dovere di lasciarla alle generazioni successive in uno stato migliore di come l'hanno trovata".
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