Nella tradizione occidentale, la pratica di separazione tra passato e presente costituisce il "mito fondatore" della modernità.
tratto dalla recensione di Mariuccia Salvati
al volume di Benedict Anderson "Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi".
"Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism" è stato pubblicato per la prima volta nel 1983 e ripubblicato in una versione più ampia nel 1991.
Nello stesso anno è stato tradotto anche in Francia, ma con un titolo cambiato, rispetto all’originale, in maniera significativa: "L’imaginaire national" (Réflexions sur l’origine et l’essor du nationalisme, Paris, La Découverte).
È chiaro che Immaginario nazionale e Comunità immaginate sono due versioni non sovrapponibili.
La prima rimanda a un soggetto-nazione già esistente di cui si cercano le origini; la seconda insiste invece sulla comunità e il suo immaginario come premessa della nascita stessa della nazione e del nazionalismo.
Comunità è un termine che, come si spiega nel volume, può anche tradursi nel corso del tempo in nazione, ma, se e quando accade, è per effetto di una serie di passaggi successivi, tra gli altri, quelli della costruzione simbolico-istituzionale a cui fa riferimento il titolo francese.
Nel titolo "Comunità immaginate" è implicita, soprattutto, l’idea che il passaggio da una comunità immaginata a una comunità mappata e censita, cioè alla nazione, si venga costruendo, nel corso del tempo, con una serie di processi legati all'intensificarsi delle comunicazioni tra i soggetti appartenenti alla comunità (viaggi, stampa, mercati).
Lo slittamento semantico della traduzione francese verso la parola nazione è rivelatore di un milieu di ricezione (la storiografia di quel paese, si pensi a Marc Bloch e Lucien Febvre) da sempre attento al ruolo delle costruzioni simboliche di una nazione che – in quel caso specifico e, appunto, eccezionale – coincide con il suo territorio fin dai tempi dei re taumaturghi e di Giovanna d’Arco.
Allo stesso tempo la Francia è anche il paese che alle soglie della modernità diventa il paese vessillo dell'Illuminismo e della rivoluzione dei diritti: ciò in parte spiega perché il ricorso alla parola comunità (rispetto a nazione) sia meno frequente tra gli storici dell’età contemporanea, mentre è stato accolto con favore dagli studiosi di scienze sociali e di etno-antropologia presso i quali, non a caso, Benedict Anderson è molto noto.
Osserva Chivallon: "Sappiamo dallo studio di Benedict Anderson che i musei occupano un posto privilegiato nella costruzione della nazione in quanto delineano le genealogie del Sé e dell’Altro".
L’autrice poi così prosegue: "la scenografia museale è radicata nella tradizione occidentale, in quanto le pratiche di conservazione servono da magazzino per alimentare le immagini storiche che costruiamo a proposito del passato".
Tuttavia, aggiunge l’autrice: "nella tradizione occidentale è la pratica di separazione tra il passato e il presente che costituisce il mito fondatore della modernità; tale procedura serve alla proclamazione identitaria, a partire dal momento in cui queste tracce, volte a incarnare il passato, sono selezionate e organizzate in un racconto esplicito della traiettoria collettiva".
È questa – la separazione tra il passato e il presente – la caratteristica della «costruzione occidentale» del racconto nazionale.
Si tratta di un procedura diventata comune anche nei paesi del sud est asiatico dove, però, come racconta Anderson, è arrivata solo di recente, nel Ventesimo secolo.
Così inizia il cap. 2 "Radici culturali": «Nessun simbolo della moderna cultura del nazionalismo attira l'attenzione più dei cenotafi e delle tombe del Milite Ignoto».
Il suo significato culturale risalta, se pensiamo che né il marxismo né il liberalismo sono toccati dal tema della morte o dell’immortalità: «che l’immaginario nazionalista ne sia così coinvolto suggerisce una notevole affinità con l’immaginario religioso».
Anderson sostiene che il nazionalismo vada interpretato commisurandolo non a ideologie politiche sostenute in modo autocosciente, ma ai grandi sistemi culturali che l’hanno preceduto: la Comunità Religiosa e il Regno Dinastico; unitamente ad una concezione del tempo in cui cosmologia e storia sono indistinguibili.
Al centro del libro si colloca, in maniera del tutto originale, un intermezzo di secoli (e di spazi!): quello che intercorre tra le nazioni come comunità immaginate, ma senza tempo, religiose e del regno dinastico – in cui domina la lunga durata, la simultaneità di passato e futuro (allorché cosmologia e storia sono indistinguibili).
Dopo l’irrompere della modernità nel ‘700, quando si afferma «il tempo vuoto e omogeneo», la nazione è allora: "la nuova comunità immaginata dal lettore del giornale e dal consumatore e produttore del mercato".
A questo proposito Anderson cita soprattutto "Angelus Novus" di Walter Benjamin e il "Manifesto del partito comunista" del 1848.
Il termine nazione compare nel terzo brevissimo capitolo "Le origini della coscienza nazionale", dove si trovano riunite tutte le precondizioni tipiche citate nei più noti volumi sulla nascita delle nazioni: l’invenzione della stampa, la Riforma, la diffusione del volgare attraverso la lingua amministrativa, il capitalismo.
Eppure, ricorda Anderson, tutto questo aveva ancora poco a che fare con l’estensione della nazione moderna, perché, semplicemente, si sovrapponeva ai confini dinastici tramandati.
Come mai?
Anderson, accantonando la strada seguita dai più, procede oltre e ci regala, nei successivi capitoli, due formule linguistiche innovative che sono il riflesso di uno sguardo globale alla storia.
La prima è quella dei pionieri creoli, volendo intendere con ciò che i pionieri del nazionalismo non si trovano, diversamente da una credenza diffusa, in Europa, ma nelle colonie europee del continente americano: l’attenzione si concentra in particolare sui funzionari degli imperi europei nelle Americhe, sui creoli, che sono i primi sostenitori di una patria nazionale in conflitto con la madrepatria con la quale, è stato osservato paradossalmente condividono sia lingua che religione.
Dunque la patria per cui si è ora disposti anche a morire (pensiamo alle guerre ispano-americane) è un territorio che è stato in realtà disegnato alla fine del Cinquecento nelle cancellerie europee: è una mera unità amministrativa, che è stata fatta propria da una nuova emergente classe sociale locale.
È solo dopo questa prima esperienza che nascono, nei primi decenni dell’800, i nazionalismi europei, che hanno come base le lingue nazionali e che si costruiscono con discipline apposite e la formazione di una burocrazia di funzionari (e qui si aggancia anche l’apporto fondamentale di Edward Said in "Orientalismo", a proposito della costruzione dell’Oriente da parte dell’Europa tra ‘700 e ‘800).
Si forma una solidarietà, una comunità, non più fondata su fattori dinastici, ma sulla borghesia in quanto classe che ha bisogno per le sue attività produttive di una nazione, cioè di una lingua comune.
Il passaggio successivo è la «naturalizzazione» delle dinastie europee, con riferimento a quanto viene definito un "ufficial-nazionalismo", di cui la russificazione zarista è l’esempio più conosciuto ma non certo il solo, cioè un nazionalismo dall’alto, un modo per combinare potere dinastico e nazione; così come, tra diciannovesimo e ventesimo secolo, la nascita del nazionalismo coloniale, con l’emergere di nuovi centri amministrativi e il passaggio allo stato-nazione, con il suo bisogno di nuovi eserciti di funzionari e il coincidente diffondersi – in Indonesia, Indocina, Africa – di un’istruzione di tipo “moderno” (basata, paradossalmente, sull’insegnamento della Magna Carta, o della Rivoluzione francese!) e di una coscienza nazionale da parte delle nuove borghesie.
Infine «l’ultima ondata» dei nazionalismi è quella che si abbatte sui territori coloniali d’Africa e d’Asia, in risposta ai modelli d’imperialismo resi possibili dalle realizzazioni del capitalismo globale.
Un capitalismo, tuttavia, che contribuisce, grazie alla diffusione della stampa, a creare in tutta Europa nazionalismi popolari e basati sulla lingua.
Si torna così alla domanda: perché si muore per la patria?
Qui Anderson ha chiaramente in mente il dibattito del tempo, che lega il nazionalismo al razzismo (fascismo, nazismo), al quale egli oppone un punto di vista diverso.
Non è il razzismo la risposta a quella domanda, bensì la comunità immaginata della lingua e della letteratura, perché attraverso la lingua si esprime il misto di fatalità storica e comunità immaginata.
Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il razzismo: "il nazionalismo pensa in termini di destini storici, il razzismo sogna di contaminazioni eterne, trasmesse all’alba dei tempi.
Il nazionalismo è immaginazione affettuosa di una comunità di lingua appresa sulle ginocchia della madre".
Nel capitolo finale "L’angelo della storia", Anderson condensa e sintetizza alcuni risultati della sua ricerca e riflessione, di tipo metodologico, oltre che contenutistico.
I termini di «nazione», «nazionalità», «nazionalismo», egli afferma, non vanno equiparati ad un'ideologia, bensì collocati su un altro livello di fenomeni rispetto alla sfera politica: si tratta di particolari costrutti culturali, sistemi complessi rispondenti a un insieme stratificato di bisogni sociali e individuali.
La visione globale della storia (e della geografia) consente a Anderson di suggerire formule nuove e particolarmente illuminanti, come la seguente sul carattere del nazionalismo e la sua durata: "...alla fine del ‘700, il nazionalismo aveva subito un processo di modularizzazione e di adattamento, a seconda dei diversi periodi, regimi politici, economie e strutture sociali; il risultato fu che la comunità immaginata si diffuse in ogni possibile società contemporanea".
La debolezza di altri tipi d’analisi sta, per Anderson, nella loro incapacità di comprendere il nazionalismo come istituto complessivo, e soprattutto a considerare la sua dimensione sacra: "per la nazione si è disposti a morire", ricorda spesso Anderson; il suo immaginario è quello di una collettività immortale che affonda le sue radici all’inizio della storia.
Il sacro è ritenuto quindi una costante della vita sociale umana e il mondo moderno non fa eccezione; la sua novità consiste soltanto nel fatto che la forma nazionale assume essenzialmente un carattere secolare.
Anderson così definisce le sue «nazioni» (rigorosamente senza maiuscola): "una comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente limitata e sovrana insieme".
Il termine che fa la differenza è, come si è già sottolineato, "immaginata": un termine che secondo Anderson evoca emozione, appartenenza e che può far comprendere la mobilitazione e l’accettazione della morte da parte di milioni di individui.
La storia che ci racconta Anderson è quella della persistenza, dietro il tragitto istituzional-giuridico dello Stato occidentale (il monopolio della forza), di valori di appartenenza “comunitari” pronti ad essere mobilitati nei conflitti, al di là di ogni ragionamento politico.
Tornando alla premessa iniziale, per concludere su questa singolare figura di studioso, è necessario ribadire la novità nell’approccio alla storia di Benedict Anderson, che sarebbe persino banale definire interdisciplinare.
Guardando ai trent’anni che sono seguiti a "Comunità immaginate" è importante sottolineare il carattere anticipatore di quel libro anche rispetto a due svolte storiografiche allora ancora in divenire, ma oggi pienamente affermate nel dibattito mondiale: quella della cultural history e quella, ancora più recente, della global history.
In entrambe Ben Anderson è stato un maestro e un anticipatore.
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