Fratture coloniali e margini di resistenza.

tratto da “La terra dentro il capitale. Conflitti, crisi ecologica e sviluppo nel delta del Senegal”; di Maura Benegiamo.
Quasi duecento anni fa il barone Jacques-François Roger si insediava nella sua nuova casa sul bordo del fiume Senegal, un maestoso ed eccentrico edificio in stile neoclassico molto più principesco di quello in cui risiedeva precedentemente nel vicino centro urbano di Saint Louis. 
Era arrivato in Senegal qualche anno prima per prendere possesso del palazzo che il re di Francia aveva fatto costruire sul modello delle lussuose residenze dei funzionari coloniali e proprietari di piantagioni di Santo Domingo, al tempo tra le più ricche colonie dell’Impero francese.
Con la grande festa di inaugurazione che venne allestita nella nuova residenza, Roger voleva probabilmente marcare uno specifico carattere al suo mandato di governatore che, dopo vari tentativi, era riuscito ad ottenere con stipula reale il 26 luglio del 1821 e la nomina a Commandant et administrateur du Sénégal et dépendances
Incaricato dal re di Francia di attuare una politica di recupero e sviluppo della colonia, sarebbe stato nella regione del delta del fiume Senegal che il barone avrebbe portato avanti il suo progetto di costruzione di una fattoria modello, prima di arrendersi agli insuccessi ed abbandonare il Paese sette anni dopo.

Intenzionato ad importare in Senegal il modello coloniale delle piantagioni, Roger si sarebbe impegnato a condurre, nel delta, alcuni tentativi di sviluppo di un’agricoltura di irrigazione e coordinare delle sperimentazioni botaniche d’avanguardia. 
Le specie vegetali interessate dai suoi esperimenti furono principalmente il riso, alcuni alberi da frutto, l’indaco, il caffè e l’arachide, unica pianta da cui ottenne importanti successi e di cui divenne un fervente promotore. 

Oggi il palazzo di Roger giace come una rovina nel delta, il suo progetto tuttavia non è tramontato. 
La regione è il principale centro di produzione di riso del Senegal, i suoi corsi d’acqua sono stati tutti a poco a poco incanalati per poter irrigare i campi dei contadini e permettere all’agricoltura di avanzare su quella che era prima una vasta area quasi interamente coperta da acquitrini, stagni e zone umide. 
Bisogna lasciare la strada ed inoltrarsi lungo la savana per scoprire una nuova e diversa vegetazione, intervallata da numerose acacie e alberi di baobab e dalla presenza di alcune mandrie di mucche, pecore, capre e asini. 
È qui che, almeno sino al 2012, si estendeva la Riserva di Avifauna di Ndiaël.

Quando vi giunsi, nel 2013, ero da poco arrivata in Senegal con l’intenzione di esplorare da vicino una delle grandi acquisizioni fondiarie che avevano interessato il Continente a ridosso delle crisi del 2007-2008 e negli anni immediatamente successivi. 
In quel periodo la notizia che da un po’ di anni, in tutto il mondo, le terre stessero passando di mano ad un ritmo e ad una concentrazione inedita dai tempi della colonizzazione aveva cominciato a circolare anche sui media non specializzati. 
Come suggerito dalla tempistica di tali operazioni, si trattava nella stragrande maggioranza dei casi di un tentativo di risposta e adattamento rispetto alle grandi crisi che il pianeta stava attraversando, climatica, ecologica, alimentare, energetica e finanziaria. 
Molte di quelle operazioni erano anche animate da una serie di nuove politiche di sviluppo agricolo e transizione energetica sancite a livello globale e dai singoli Stati.
Si trattava comunque di un fenomeno dalle proporzioni assai sconvolgenti. 
Secondo le stime più ufficiali di quel periodo almeno 45 milioni di ettari di terra arabile erano passati di mano nel solo biennio 2008-2009, stime maggiori sono emerse nel periodo immediatamente successivo al picco di investimenti.
La maggior parte delle acquisizioni riguardava aree comprese tra i 10.000 e i 200.000 ettari. 
Con più della metà delle transazioni registrate, il continente africano, e in particolare l’Africa subsahariana, risultava tra le aree più coinvolte da questo processo. 
Interi pezzi di territorio stavano transitando nelle mani di gruppi e attori economici dalle identità poco chiare e sulla base di processi poco trasparenti.

Sapevo dunque che avrei molto probabilmente incontrato un conflitto tra delle imprese capitaliste e delle comunità locali interessate a non essere espropriate dalle proprie terre. 
La storia di un territorio che c’è stato e che non c’era più, si è rivelata essere la prima chiave di lettura per analizzare ciò che stava avvenendo in quei luoghi. 
La seconda, richiedeva di guardare allo sviluppo capitalista non tanto, o non solo, come il processo sotteso all’evoluzione del mercato e della proprietà privata, ma anche come la continua alterazione degli spazi vitali e la riorganizzazione dei ritmi di rigenerazione e delle forme di riproduzione delle specie, inclusa quella umana.

Alcune studiose, tra cui l’antropologa Anna Tsing, hanno proposto di chiamare la nostra epoca come l’epoca delle piantagioni. 
Quest’approccio propone di situare in quel processo che ha visto l’economia della piantagione espandersi nelle isole del mar dei Caraibi, dalle Barbados alla Jamaica, nei primi anni del XV secolo, l’emergere di una particolare congiunzione tra disciplinamento della natura (discipline of plants) e disciplina del lavoro che avrebbe finito col permeare l’insieme delle strutture sociali della modernità. 
La logica delle piantagioni prevedeva il lavoro di migliaia di schiavi africani ed ha implicato l’estinzione di interi popoli e culture, piante, microbi e animali. 
Non ha solamente imposto una radicale semplificazione delle forme di vita presenti su quelle isole rigogliose, ma ha anche influenzato le forme della progettazione territoriale e richiesto la creazione di norme e standard di regolazione tuttora in uso.
Le piantagioni hanno cambiato le geografie dei luoghi e della circolazione su scala globale, creando nuove infrastrutture e tecnologie e permettendo l’espandersi dei centri urbani. 

Come spiega Jason Moore, questo enorme progetto di riscrittura del “sistema-mondo” ha avuto come obiettivo principale quello di creare una natura “a buon mercato” che ha reso disponibili risorse e cibo a basso costo per un proletariato in espansione nelle nascenti economie industriali europee. 
Ovviamente ciò non si è prodotto nell’immediato, molte altre dinamiche hanno dovuto articolarsi per rendere tale progetto reale. 
Per esempio, la maggioranza delle donne si è vista destinare ad attività che sono state giudicate senza valore, non remunerabili né produttive, come accudire i figli, preparare da mangiare, curare i malati, raccogliere le erbe e la legna nel bosco. 
Per liberare gli uomini e renderli dei lavoratori salariati, vaste estensioni di terra hanno dovuto essere privatizzate. 
Infine senza un intenso e crescente sfruttamento dei minerali fossili, né agricoltura né industria avrebbero potuto evolversi come hanno fatto.

Nelle ultime due decadi il problema di garantire cibo accessibile e a sufficienza ad una popolazione urbana mondiale in crescita ha riguadagnato un posto centrale nel dibattito scientifico e in quello delle politiche sullo sviluppo. 
Diversi fattori hanno contribuito a questa rinnovata centralità della questione alimentare. 
Anzitutto l’acutizzarsi, tra il 2007 ed il 2008, di una crisi dei prezzi del cibo di portata globale che ha condotto il numero di persone nel mondo che patiscono la fame o versano in condizioni di sotto-nutrizione a superare il miliardo per la prima volta dal 1970.
Il dibattito sull’agricoltura è stato anche influenzato dalla presenza di un movimento rurale e contadino globale, che è andato rafforzandosi sin dai primi anni ’90, evidenziando il ruolo centrale che l’agricoltura può avere nel garantire società giuste, inclusive e sostenibili e nel cambiamento radicale dei modi di produrre, distribuire e consumare il cibo che tale società necessita. 
Entrambi, crisi alimentare e movimenti rurali, si pongono, seppur da prospettive molto diverse e sostanzialmente divergenti, nel solco di quella che può essere definita come una crisi del “cibo a buon mercato” e del sistema mondiale e geopolitico entro il quale tale cibo era prodotto. 
Nelle zone rurali del “sud globale” il modello del cibo a buon mercato ha causato soprattutto fame e disastri ambientali costringendo, in particolare a partire dagli anni ’80, molte persone a migrare verso i quartieri poveri delle grandi megalopoli in espansione, vendendo o perdendo le proprie terre che venivano ad essere inglobate nella creazione di monocolture, nell’edificazione di grandi opere infrastrutturali o nei nuovi progetti di sfruttamento minerario che sono andati moltiplicandosi per tutti gli anni ’90 e 2000. 
Ciò nonostante, il modello dell’agricoltura su piccola scala ha continuato, seppur con tutte le sue difficoltà, ad essere il principale fornitore di cibo, in particolare nei paesi a più basso reddito, garantendo a migliaia di persone il diritto a nutrirsi. 
Ciò si spiega con il fatto che queste attività sono principalmente orientate verso la produzione alimentare e privilegiano il contesto nazionale per vendere le loro eccedenze nei mercati regionali e locali.
Seguono una logica distinta da quelle operate dal settore agro-industriale controllato dalle grandi corporation, che tende invece a privilegiare una destinazione d’uso non alimentare dei propri prodotti agricoli, essenzialmente diretta all’esportazione e sottomessa alle variazioni dei mercati finanziari.

All’indomani della crisi alimentare del 2007-2008, il quadro appena delineato è andato incontro a riconfigurazioni profonde che stanno ridisegnando in maniera decisiva le condizioni materiali ed i rapporti di forza in numerosi contesti. 
Tali processi minacciano di pregiudicare definitivamente la capacità dell’agricoltura di piccola scala di garantire la propria autosussistenza ed alimentare i mercati locali, portando un numero sempre maggiore di persone dentro quel margine di esclusione costituito dalle vite la cui riproduzione sembra oramai essere superflua allo sviluppo del capitalismo.

Sia la crisi alimentare che le modalità con cui vi si stava rispondendo restano dentro al sistema che le ha generate. 
Il capitalismo è abituato alle crisi e rispondervi fa parte del suo modo di avanzare. 
Come spiega David Harvey, un meccanismo centrale di risposta è quello che vede il capitale espandersi geograficamente e, allo stesso tempo, fissarsi in luoghi specifici ristrutturando radicalmente gli spazi in cui atterra per poi eventualmente abbandonarli. 
Un secondo meccanismo, proprio del capitalismo neoliberista, è quello di appropriarsi della ricchezza comune per accrescere il proprio potere e poter mettere a profitto nuove merci. 
In questo quadro la mercificazione e la privatizzazione della terra e la conversione di varie tipologie di beni – comuni, collettivi, statali, ecc. – in diritti esclusivi di proprietà privata costituiscono dei meccanismi fondamentali. 
Il capitalismo ha bisogno, ciclicamente, di estrarre valore dalle pratiche che sottendono quella che Marx chiamava l’accumulazione primitiva.

Anche se buona parte di quelle riflessioni restano valide, ciò che sta succedendo nel contesto della nuova corsa alla terra mette in luce anche altre dinamiche. 
In effetti sembrava che questioni come il valore della natura, l’acqua, la biodiversità e la possibilità di garantirsi una fornitura di beni di base avessero un ruolo primario non tanto, o non solo, in quanto strategie di produzione e accumulazione del valore, ma quali garanzie della riproduzione dello stesso sistema capitalista e al contempo tentativo di incorporare e piegare le forme della riproduzione in nuovi circuiti di valorizzazione e commercio. 
La riconfigurazione globale del capitalismo di fronte alla contraddizione ecologica, riassunta nella crisi del cibo a buon mercato, assume allora la forma di un’ulteriore espansione delle frontiere estrattive e di una modificazione ancora più profonda ed irreversibile degli ecosistemi, della vita e della riproduzione sulla terra. 
Se osservate a livello locale, queste dinamiche ci permettono di affrontare con uno sguardo decolonizzato le grandi trasformazioni sociali. 
Esse si mostrano come crisi, metamorfosi e resistenze materialmente incorporate nelle relazioni, nei territori e nelle forme della soggettività.

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