La dinamica espansiva della crescita fa affidamento su un "cittadino-consumatore" che non si senta mai sazio e soddisfatto di quello che ha.
tratto da "La fine della crescita e le sfide ecologiche alla democrazia"; di Marco Deriu.
Come sottolineava André Gorz, l’alienazione del lavoro favorisce il fatto che il denaro, ovvero il potere di acquistare merci, divenga lo scopo degli individui: "Ogni categoria di salariati si propone di raggiungere il livello di reddito della categoria immediatamente superiore, la quale a sua volta cerca di ‘riacciuffare’ quella che la precede.
[…] in una società fondata sulla remunerazione ineguale di prestazioni lavorative ugualmente private di senso, la rivendicazione dell’uguaglianza è il propulsore segreto dell’espansione continua del desiderio di consumo, dell’insoddisfazione e della
concorrenza sociale".
Da cittadini a consumatori: la trasformazione antropo-psicologica
Il meccanismo accrescitivo dell’economia ha bisogno di individui insoddisfatti, che cercano di affermarsi attraverso un aumento del potere di acquisto.
Da questo punto di vista il consumismo ha successo perché contribuisce in profondità ai processi di costruzione dell’identità: il consumo diviene un bisogno emotivo, psicologico, esistenziale.
Ci costruiamo una certa immagine di noi stessi, anche sulla base di ciò che compriamo, vestiamo, indossiamo, mangiamo, usiamo ecc.
In altre parole, gli oggetti che compriamo
divengono appendici dell’io dell’individuo moderno.
Allo stesso tempo non si tratta di una dinamica solamente psicologica ma anche sociale e antropologica.
L’acquisto e il consumo continuo di merci sembrano corrispondere a rituali cruciali che consentono di tenere assieme individui e società.
L’atto di acquisto mantiene una dimensione individualistica e allo stesso tempo sociale.
I legami sociali, le appartenenze, le forme di riconoscimento sono sempre più mediate da regimi di consumo, da simboli e identificazioni con l’immaginario prodotto dai grandi marchi e brand industriali; questi ultimi non vendono più semplici merci ma universi di senso, immaginari che permettono di identificarsi, di aggregarsi ma anche di distinguersi.
A questo proposito, il sociologo francese Alain Caillé è giunto a ipotizzare che la
prospettiva della crescita senza fine, affermatasi nel secondo dopoguerra, abbia svolto la funzione sociale di un capro espiatorio alla rovescia:
"Mentre in una società chiusa la messa a morte sacrificale dei capri espiatori consentiva di ritrovare l’armonia perduta, nella società democratica aperta è stata la prospettiva della crescita senza fine a svolgere la funzione di capro espiatorio, di sostegno a tutte le speranze e di esorcizzazione di tutte le sventure e di tutti gli odi".
Ha funzionato come un capro espiatorio al contrario, positivo anziché negativo.
Non uno spazio di proiezione dell’odio e della disperazione ma, al contrario, della fede nel futuro e delle speranze condivise.
Anziché competere, disputare e uccidersi per beni, simboli e altri oggetti mimetici,
la produzione industriale e il consumismo capitalistico hanno dischiuso a ciascuno la sensazione di poter arrivare a ottenere i simboli di status desiderati.
Tutti aspiravano a possedere la propria auto, la propria televisione, i propri abiti alla moda, i propri computer, tablet, cellulari o smartphone.
Allo stesso tempo con l’obsolescenza,
l’innovazione e il meccanismo della moda e della pubblicità, il rilancio continuo di nuovi oggetti desiderabili, di nuovi dispositivi simbolici, ha tenuto assieme un’effettiva gerarchia di status con una rincorsa e un rilancio continui che distraevano dal conflitto.
Si può dire quindi che l’invidia viene continuamente proiettata (e in qualche modo esorcizzata) sul bene di consumo anche se questo è continuamente destinato a perdere d’importanza e dunque a rinnovare la frustrazione.
La dimensione simbolica e fantasmatica di questa dinamica di (in)appagamento oggi diventa sempre più evidente, se pensiamo al fatto che il godimento è sempre più proiettato sull’atto di acquisto in sé piuttosto che sull’effettivo godimento dell’oggetto.
Comprendere questa dinamica non deve condurci d’altra parte a disconoscere
l’altra faccia della medaglia.
Quando riconosciamo che l’individuo moderno dipende sempre di più in termini psicologici dal consumo e che il consumismo è divenuto una forma surrogata di legame e collante sociale, non dimentichiamo d’altra parte che questa dinamica insidia la possibilità di processi di individuazione su altre basi e soprattutto erode altre forme di legame sociale, fondate sul dono, sulla condivisione e sulla solidarietà, più capaci di sostenere le persone, soprattutto quelle con meno risorse.
In termini antropologici si potrebbe dunque dire che l’immaginario della crescita ha sostituito l’interdipendenza fondata sulla logica del dono, che vincolava le persone le une alle altre, con una idea di libertà individuale e un’illusione di indipendenza che tuttavia nasconde una dipendenza più profonda e radicale dal consumo e dal mercato, e che al contempo dipende più radicalmente dalla disponibilità di soldi.
La crescente dipendenza dal mercato per ogni genere di necessità, bisogno, desiderio o relazione, crea l’illusione della libertà per tutti ma contemporaneamente si trasforma in fragilità sociale per la grande maggioranza.
Se per ogni cosa dobbiamo cercare soddisfazione nel mercato e nel consumo, anziché nelle relazioni e nella condivisione, alla fine ci troviamo imprigionati in quel paradosso messo in luce da Arlie Russel Hochschild: l’allargamento dei confini del commerciabile si trasforma nel tentativo “di rimpicciolire l’idea di ciò che ci serve in
modo da farla rientrare fra quello che si può comprare”.
Questo ulteriore passaggio rappresenta il terzo momento dell’evoluzione
dell’intreccio tra democrazia e crescita.
In un primo momento le basi energetiche, economiche e materiali hanno contribuito a dare forma alle fondamenta delle istituzioni democratiche moderne.
In un secondo momento il boom economico e la garanzia di un nuovo benessere hanno instaurato un “consenso di fondo” verso le democrazie liberali.
A questo punto lo sviluppo del regime economico e di consumo ha finito col modificare lo stesso modo di pensare e di relazionarsi dei cittadini.
Questi vengono educati a partecipare al consumo più che al processo democratico.
Pian piano dunque il consumatore prende il posto del cittadino anche nello spazio pubblico.
La politica stessa finisce per adottare le logiche del marketing e trasforma la dialettica democratica in una competizione tra prodotti e brand per consumatori politici sempre più superficiali.
Dal punto di vista della collettività, questa assuefazione psicologica al consumo e alla rincorsa di stili di vita sempre più insostenibili diventa un ostacolo molto forte, non soltanto alla sostenibilità ambientale ma anche a quella politica.
Se infatti oggi ci accorgiamo sempre di più che l’ideologia della crescita da tanti punti di vista ci ha portato in un vicolo cieco, d’altra parte questo immaginario della crescita con i suoi correlati di produttivismo e consumismo è sceso così in profondità nella nostra psiche collettiva che concepire qualcosa di diverso sembra impossibile.
La fine dell’era della crescita e dell’espansione occidentale.
Senza l’idea di crescita – cui si collegano facilmente le nozioni di sviluppo e di progresso – si genera in noi un’angoscia
del vuoto.
Molte persone si stringono attorno all’idea di crescita come se fosse l’unica boa a cui aggrapparsi di fronte al diluvio.
Nonostante le sue contraddizioni, il suo rovesciarsi in una forma di insostenibilità ecologica, sociale ed economica, persiste la paura di abbandonare un riferimento ideale per il quale si è tanto lottato e si è tanto sacrificato.
Abbandonare questo obiettivo significa per molti confrontarsi con il senso di vuoto, di spaesamento, di mancanza di prospettiva.
Per questo molti ideologi della crescita accusano coloro i quali parlano di decrescita di essere utopisti, sognatori e perfino reazionari.
Ma il paradosso è che nella situazione attuale è l’obiettivo della crescita a diventare sempre di più una chimera, mentre un più lucido realismo dovrebbe condurre ad interrogarci su quali forme di benessere e prosperità si possono garantire nel momento in cui la fase di espansione delle economie capitalistiche occidentali comincia a declinare vistosamente.
Il regime politico democratico strutturatosi e cristallizzatosi nell’epoca della crescita,
connesso al governo delle risorse fossili (carbone e petrolio), al consenso garantito dalla promessa di arricchimento materiale e di mobilità ascensionale collettiva, al contenimento del conflitto mimetico tramite l’artificio e l’assuefazione al consumismo, si trova oggi a confrontarsi con un mondo radicalmente trasformato nelle sue condizioni di base proprio a causa del suo successo.
Ci sono molti indizi in effetti che ci portano a definire la prospettiva nella quale ci troviamo come la fine dell’era della crescita, quantomeno nel mondo occidentale.
Parlare di “fine dell’era della crescita” non significa che il PIL dei paesi occidentali non avrà più segno positivo; con questa espressione riassumiamo piuttosto
quattro questioni differenti:
a) in primo luogo, la constatazione che le condizioni dell’economia reale in molti paesi più sviluppati non sono più quelle di una fase espansiva;
b) in secondo luogo, la consapevolezza che l’idea di “crescita” come sinonimo di
benessere omnicomprensivo (crescita della produzione=crescita dell’occupazione=crescita dei redditi=crescita del potere di acquisto=crescita della sicurezza=crescita della qualità della vita=crescita della felicità) non tiene più, e che quello a cui stiamo assistendo è un generale disaccoppiamento di tutte queste variabili;
c) in terzo luogo, la presa d’atto che la crescita economica si basa su un aumento dell’estrazione e del consumo di risorse sempre meno sostenibile e che si trasforma né più né meno in una depredazione di risorse dal futuro;
d) infine, la convinzione che la crescita come principio etico politico e
come credo universale della civiltà moderna stia tramontando in termini di fiducia e autorevolezza.
Possiamo notare infatti che – se visti in una prospettiva di medio o lungo periodo,
per esempio dagli anni ’60 ad oggi – i tassi di crescita annuali del PIL nei paesi OCSE, come in molti paesi occidentali mostrano, al di là delle oscillazioni, un declino piuttosto evidente e sono in pochi oggi a credere che si potrà tornare a quegli stessi tassi.
Molti segnali ci dicono che le condizioni di forte espansione dell’economia che hanno
caratterizzato gli ultimi secoli della storia dell’Occidente sono venute meno.
Non a caso sono sempre più numerosi gli studiosi e gli osservatori che – anche a partire da prospettive culturali e politiche molto differenti – cominciano ad affermare che l’era della crescita è finita.
E tali convinzioni si fanno spazio non solo tra gli studiosi tradizionalmente detrattori della crescita o sostenitori della decrescita, oppure tra gli economisti eterodossi, ma anche tra gli economisti tradizionali e mainstream.
Certamente altre regioni, più giovani e più dinamiche, potranno approfittare sul medio-lungo periodo di questa contrazione dei paesi occidentali.
Da questo punto di vista assisteremo a un crescente spostamento degli investimenti e della produzione verso altri mercati e all’emergere di nuovi paesi a fare da traino.
Non solo l’evidente caso della Cina, ma più in generale un ruolo sempre più importante dei cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) o BRICST (aggiungendo anche Sud Africa e Turchia).
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