La relazione con la terra è ciò che permette ai Mapuche di continuare ad esistere.

tratto da "Alla fine del mondo. La vera storia dei Benetton in Patagonia"; di P. Camuffo e M. Zornetta. 
Il Diluvio, la Terra e il Serpente: le origini del pueblo Mapuche

C’è un diluvio all’origine del popolo Mapuche. 
Secondo la tradizione riportata da José Bengoa, fu scatenato dallo scontro tra i serpenti Kai-Kai e Tren-Tren: il primo viveva nelle profondità del mare, l’altro in cima a una collina. 
Quando le acque, su ordine di Kai-Kai, iniziarono a invadere la terra, ad allagare valli e boschi, Tren-Tren suggerì alla gente di scappare e di rifugiarsi sulla collina; non tutti, però, riuscirono a mettersi in salvo e, travolti dalle acque, finirono per annegare, trasformandosi in pesci. 
Preghiere e canti, per chiedere aiuto e protezione, si innalzarono così dalla cima della collina, e sacrifici furono celebrati per pacificare il mare e placare la paura.
L’acqua, allora, cominciò a ritirarsi, a farsi mare e cielo e i sopravvissuti scesero finalmente dalla collina per ripopolare la terra. 
Fu così che nacquero i Mapuche.

Al principio il loro territorio si estendeva da una parte all’altra del continente, dall’attuale Santiago del Cile alla zona oggi occupata dalla capitale argentina, Buenos Aires, comprendendo gran parte del “cono sud” dell’America meridionale.
La parola “Mapuche” tiene insieme due termini del loro idioma, il mapudungun: Mapu, che significa Terra, e Che, cioè Popolo, Gente. 
I Mapuche, dunque, sono la gente "de la tierra", che parla e dà vita alla lingua della terra. 
Nel Wallmapu, il loro territorio ancestrale, si distinguono due grandi unità separate dalla Cordigliera delle Ande: a ovest il Gulu Mapu, che si estende in alcune regioni del sud del Cile; a est il Puel Mapu, che abbraccia alcune province meridionali dell’Argentina. 
Il rapporto con la terra ha per i Mapuche, come per molti altri popoli originari, un’importanza fondamentale. 
La terra di cui parlano non è intesa esclusivamente come suolo o come pianeta, ma è tutto ciò che crea e sviluppa quotidianamente la loro identità: è tutto ciò che era prima di loro (la dimora degli antenati), tutto ciò che è, tutto ciò che sarà. 
La Madre Terra, Ñuke Mapu, per i Mapuche non è solo fonte di sussistenza, di cibo, di vita, ma sostrato dell’intera loro impalcatura spirituale e rituale: va ascoltata, cantata, celebrata, rispettata, raccontata, perché in tutte queste attività viene riattivata l’energia primordiale, ricostruito e ri-praticato il rapporto con l’intera gamma delle forze vitali, con la natura, gli esseri ancestrali, gli antenati. 
La relazione con la terra è ciò che permette alla loro cultura di continuare ad esistere.

È per questo motivo che i Mapuche hanno alle spalle una lunga storia di resistenza e di lotta all’occupazione straniera. 

Hanno respinto gli attacchi degli Inca che nel XV secolo cercavano di espandersi nella zona centrale e meridionale dell’odierno Cile, e hanno costretto gli spagnoli alla firma, nel 1641, del trattato di Kilìn con cui l’Impero ispanico riconobbe l’autonomia territoriale della Nazione Mapuche a sud del fiume Bío-Bío. 
Questo evento, che non trova parallelo nella storia dei popoli nativi del Sudamerica, segna il fallimento di ogni tentativo da parte della Corona spagnola di sottomettere militarmente un valoroso “popolo sovrano”. 
Il trattato di Kilìn, analogamente ai successivi 28 che da esso derivano e ratificati durante i due secoli di relazioni diplomatiche, ha assicurato alla Nazione Mapuche una posizione particolare nella storia dei popoli nativi dell’America meridionale, in quanto è stata la prima e unica, nel continente, a godere di una sovranità e di un’autonomia giuridicamente riconosciute.

Tuttavia, ciò che non riuscirono a fare Incas e spagnoli lo fecero i neonati Stati di Cile e Argentina. 

Tra il 1860 e il 1885, per mezzo di un’azione militare congiunta ma chiamata dalle parti in modo differente (Pacificación de la Araucanía, dai militari cileni guidati dal colonnello Cornelio Judas Tadeo de Saavedra y Rodriguez e Conquista del Desierto, da quelli argentini agli ordini, nella sua fase finale e dichiaratamente genocida, del generale Julio Argentino Roca), vennero impunemente massacrati circa centomila Mapuche. 
Con questa guerra Argentina e Cile violarono in modo evidente il diritto internazionale, non rispettando una frontiera già riconosciuta dagli spagnoli.
Al termine della Pacificazione, o della Conquista, la condizione in cui versavano i Mapuche era drammatica.
La maggior parte del loro bestiame fu rubato e diviso tra gli ufficiali e i soldati, e ciò che avanzava fu venduto all’asta. 
Su ambedue i versanti delle Ande il loro territorio fu espropriato in seguito a una legge che stabiliva che tutta la terra non direttamente occupata dai Mapuche appartenesse allo Stato. 
In Argentina gran parte di questa terra passò ben presto nelle mani dei privati.
Le poche comunità rimaste vennero obbligate a spostarsi nelle aree più inospitali, quelle in cui nessuno voleva vivere.
In Cile, tutti i settori della società concordavano sul fatto che fosse necessario "ridurre" i Mapuche allo scopo di spartirsi la loro terra.
Già realizzate negli USA nel 1786, le riserve furono istituite in Cile nel 1860, con le leggi sulle riserve indigene. 
Nel giro di trentacinque anni (1884 -1919) circa 80 mila Mapuche furono confinati in 3mila reducciónes. 
In questo stesso periodo, più di 9 milioni di ettari furono assegnati a stranieri e a coloni cileni. 
Il XIX secolo si concluse così con la sottomissione definitiva dei Mapuche.

Sul versante argentino il Wallmapu venne smembrato e le sue terre donate dallo Stato, a titolo di ricompensa, ai soldati che avevano partecipato alla Conquista e alle imprese commerciali britanniche che l’avevano sostenuta e finanziata. 
Vennero inoltre svendute - e battute all’asta - ai latifondisti argentini e stranieri, permettendo loro di intraprendere una inarrestabile scalata sociale. 
Tra le case d’asta più attive e prestigiose del Paese vi era la Adolfo Bullrich y Ca, fondata dal commerciante, massone e futuro intendente della città di Buenos Aires, Adolfo Jorge Bullrich, antenato della politica Patricia Bullrich, ex militante montonera, ex ministro del Lavoro e della Sicurezza sociale nel Governo di Fernando de la Rua e, più di recente, della Sicurezza della Nazione nel Governo di Mauricio Macrì.
Ai nativi non vennero riconosciute le ragioni collettive ma, anzi, ciascuno di loro fu considerato un semplice occupante: poteva insediarsi precariamente su quella terra, grazie a un apposito permesso, ma non rivendicare diritti o pretendere garanzie.
A partire dai primi decenni del Novecento ebbe inizio un meticoloso e spietato processo di esproprio dei territori che avrebbero dovuto ospitare i sopravvissuti alla guerra sporca del generale Roca: questi sgomberi, che rimangono a tutt’oggi una pratica molto usata in Patagonia, si svolsero attraverso azioni concertate tra i latifondisti, i rappresentanti del Governo, la gendarmeria e l’esercito. 

Tutti i conflitti e le controversie tra i Mapuche e chi ha comprato, o si è in qualche modo appropriato delle terre ancestrali (Stato o privati non fa differenza), ruotano attorno al disconoscimento dei loro diritti.
Accanto al "robo de tierra" e alla devastazione, la dolorosa storia della terra Mapuche racconta anche del lento e metodico sterminio dei suoi abitanti. 

Da quanto appurato dai giornalisti argentini Andrès Klipphan e Daniel Enz nel loro libro di inchiesta del 2006, "Tierras S.A. Crònica de un paìs rematado", più di 45 milioni e mezzo di ettari delle migliori terre coltivabili del Paese sono state vendute a investitori stranieri: di questi, quasi 24 milioni a gruppi multinazionali. 
Le terre in questione sono ricchissime di risorse naturali, giacimenti minerari, petroliferi, riserve d’acqua.
Il 90% della ricchezza naturale del Paese è in mano straniera.
I dati del Registro Nacional de Tierras Rurales, ente creato con la legge nazionale 26.737 del 2011 e dipendente dal Ministero di Giustizia argentino, parlano di circa 62 milioni di ettari – pari al 35% del territorio dello Stato – comprati da privati, il 5,57% dei quali di nazionalità non argentina: tre milioni da statunitensi, poco più di due milioni da italiani e quasi due milioni da spagnoli. 
Si tratta di grossi gruppi industriali, di ex presidenti e ministri della Repubblica argentina, di segretari di Stato e di finanzieri, di tycoon e di stelle di Hollywood, di sportivi e di altri soggetti che preferiscono celarsi dietro società offshore ubicate in paradisi fiscali.

Attualmente la maggioranza dei Mapuche vive in Cile, dove rappresenta l’87,3% delle comunità native; risiede soprattutto nelle province di Bío-Bío, Arauco, Malleco, 
Cautín, Valdivia, Osorno, Llanquihue y Chiloé. 
A causa dell’esasperata densità abitativa registrata nelle riserve, molti si sono trasferiti nelle grosse città, urbanizzandosi poco a poco ma trovandosi anche, in breve tempo, alle prese con il tradimento di tutte le promesse e i sogni di miglioramento insiti nel faticoso processo di migrazione. 
Ancora oggi, infatti, i Mapuche occupano gli strati più bassi della scala sociale e sono vittime di discriminazioni, violenze e abusi così frequenti e sistematici da costringerli a spagnolizzare il proprio cognome per nascondere l’origine indigena. 
Fino agli anni Settanta del secolo scorso non era affatto raro trovare nei giornali locali notizie di Mapuche che ricorrevano ai tribunali per potersi chiamare Lopez, Mesa o Correa anziché Pichuleo, Huenante, Manque o Llancalahuèn.

Nella vicina Argentina i Mapuche sono poco più di 100 mila, concentrati fondamentalmente nella regione patagonica e in misura minore nelle province centrali di La Pampa e Buenos Aires. 
L’Argentina possiede parecchi strumenti legislativi a carattere nazionale e internazionale varati per tutelare i loro diritti: si tratta di provvedimenti che, se fossero applicati in maniera adeguata, ridurrebbero di molto il numero delle controversie e dei conflitti tra Stato, privati e pueblos originarios
Secondo l’Osservatorio dei Diritti Umani dei Popoli Indigeni (ODHPI), nel 2013 
sono stati circa 350 i Mapuche coinvolti in cause giudiziarie legate a dispute sui diritti alle terre, mentre secondo “La Nación” sarebbero 437 i processi ancora aperti.
Purtroppo l’ampia disponibilità di leggi, norme e convenzioni a loro tutela non trova, in genere, una piena applicazione – e spesso viene del tutto disattesa – quando si scontra con gli interessi economici, statali o privati che siano. 
Le classi dirigenti argentine, composte dai diretti discendenti degli immigrati europei della fine del XIX secolo, continuano a battersi per mantenere inalterati i propri privilegi coloniali.
L’antropologa argentina Diana Lenton, condirettrice della “Rete di studiosi del genocidio e delle politiche indigene”, sostiene che per l’olocausto dei popoli originari non è possibile fissare un termine, una data che ne ravvisi la conclusione, come si è invece fatto per altri genocidi: si pensi a quello nazista o a quello cambogiano. 
Non sono mai stati istruiti processi o comminate condanne. 

Il massacro dei nativi in Argentina – è la convinzione di Lenton – è quindi ancora in atto. 
Lo Stato argentino stesso si è, di fatto, formato su questo. 
Si tratta di un “genocidio costituente”, come l’ha definito l’antropologa, per cui un Paese non può accusare e giudicare se stesso per qualcosa che fa parte del suo stesso percorso di formazione e sviluppo: in altre parole, l’Argentina non può smettere di essere e continuare a essere genocida, e l’azione di criminalizzazione dei Mapuche messa in atto da vari esecutivi, in modo particolarmente feroce da quello di Macrì, ne è un drammatico esempio.

I Mapuche sostengono di subire proprio ora la loro terza invasione. 

La prima è stata il tentativo fallito da parte degli spagnoli di occupare i loro territori; la seconda, la guerra sporca degli Stati cileno e argentino alla fine dell’Ottocento; la terza è quella che stanno portando avanti con successo, anche mediatico, le multinazionali e i capitali stranieri. 

Uno dei protagonisti di quest’ultima è il gruppo italiano Benetton, arrivato in Patagonia con la propria inconfondibile facciata buonista ma anche con l’ombra scura di un modello di sviluppo del tutto insostenibile per le popolazioni originarie e per l’ambiente in cui vivono.


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