Clifford Geertz sosteneva che il relativismo consistesse nella disponibilità a cogliere nella diversità significati o “verità” che non fossero soltanto quelli “di casa”.
tratto da "Relativismo culturale"; di Francesco Remotti.
Le ragioni del relativismo
Il relativismo culturale è una modalità di confronto con la variabilità e la molteplicità di costumi, culture, lingue, società.
Di fronte alla molteplicità l’atteggiamento relativistico è incline a riconoscerne le ragioni e ad affermarne non solo l’esistenza, ma anche l’incidenza e la significatività.
Alla base del relativismo vi è una profonda diffidenza nei confronti dell’universalità di strutture psichiche o mentali - di ordine naturale - che accomunerebbero tutti gli uomini.
Il relativismo non nega che esistano strutture di tal genere; ritiene tuttavia che esse rappresentino una componente per così dire minoritaria nell’organizzazione umana: più importante appare invece la dimensione culturale, con la sua inevitabile variabilità, per cui ciò che contraddistingue l’uomo nella sua vera essenza sarebbe proprio questa variabilità, anziché l’uniformità di leggi o strutture naturali.
Gli uomini aderiscono a norme o leggi ‘culturali’, che ricevono dalle loro tradizioni e che in definitiva essi si fabbricano con la loro cultura (i costumi); ma per dare a esse consistenza e una sorta di indiscutibilità le trasformano ideologicamente in leggi ‘generali e naturali’, come se, anziché provenire dalla cultura, provenissero dalla natura.
Il relativismo accorda un significato particolarmente profondo agli universi culturali che in modi diversificati gli uomini di volta in volta costruiscono.
Questi universi - per quanto strani e
persino estranei possano apparire gli uni rispetto agli altri - rispondono tutti all’esigenza di dare forma (una forma culturale) all’umanità: essi non sono semplicemente delle stravaganze (anche se tali possono apparire), bensì costituiscono i modi specifici mediante cui, nelle più varie situazioni storiche e geografiche, gli uomini hanno costruito la loro umanità.
Da ciò il relativismo trae alcune implicazioni piuttosto importanti:
a) vi sono molti modi - pressoché indefiniti - mediante cui si può dare forma e senso
all’umanità, per cui occorre essere disposti a scorgerne sempre altri oltre a quelli che ci sono più familiari o che finora si è stati in grado di conoscere;
b) questi modi, proprio in quanto conferiscono senso, sono internamente organizzati, anche se la conoscenza e l’analisi degli universi culturali rappresentano passi ed opzioni che inevitabilmente travalicano una prospettiva meramente relativistica;
c) se gli universi culturali non sono costruzioni cervellotiche e superflue, ma decidono del senso dell’umanità, conferendo ad essa forme inevitabilmente particolari, si comprende più facilmente l’attaccamento ai propri costumi che gli osservatori etnografi (a cominciare quantomeno da Erodoto) hanno da sempre rilevato.
I relativisti si dispongono anche a comprendere "la logica interna ai sistemi di pensiero" alla base di principi, valori e categorie.
Questa propensione a valorizzare una visione ‘dall’interno’, elaborata mediante principi e categorie particolari e irripetibili, specifici di una società determinata, salda il relativismo culturale con il relativismo linguistico.
Il linguaggio è “l’organo formativo del pensiero” e nel contempo dell’umanità; il linguaggio non può che tradursi in una serie indefinita di lingue particolari, ciascuna delle quali esprime “non una diversità di suoni e di segni, ma una diversità di visioni del mondo".
In queste formulazioni, che troviamo riecheggiate nelle pagine di Sapir e di Whorf, è possibile rintracciare una combinazione tra due principi: quello della relatività linguistica, esprimibile nella formula “Non esiste limite alla diversità strutturale delle lingue", e quello del determinismo linguistico ("Il linguaggio determina il pensiero").
Rischi del relativismo
Nonostante i suoi pregi (apertura alla molteplicità e disponibilità a cogliere i significati interni all’alterità), non sempre il relativismo è visto di buon occhio.
Per i relativisti l’ammissione della molteplicità e il riconoscimento delle differenze comportano - almeno in linea di principio - un’apertura verso le forme più diverse che l’umanità può assumere, non avvertendo in ciò un pericolo, ma semmai un arricchimento: non ammettere la molteplicità e anzi screditarla appare come una chiusura.
E tuttavia è innegabile che il relativismo culturale possa assumere aspetti assai inquietanti, a dimostrazione di come il relativismo - alla stregua di un’infinità di altri movimenti o tendenze - non presenti un unico volto, ma possa piegarsi a molteplici usi e interpretazioni.
Se gli esseri umani prendono forme culturalmente diverse e se entro i confini di tali forme si decide di volta in volta il senso della loro umanità, quali possono mai essere le relazioni effettive tra tali forme, tra i differenti ‘tipi’ di umanità?
Se l’‘interno’ delle culture è denso di umanità, nel senso che solo all’interno delle culture prende forma l’umanità, il rischio è che lo spazio tra le culture divenga una sorta di "terra di nessuno" caratterizzata dall’incomunicabilità, dall’ignoranza e incomprensione reciproca, o peggio dal rifiuto, dal disprezzo, dall’esclusione, dalla sopraffazione, da tentativi di annientamento.
Forme di umanità ‘differenti’ vengono avvertite come minacce, e in una situazione siffatta ogni cultura - portatrice di una forma di umanità peculiare, esclusiva - dovrebbe sentirsi giustificata nel suo atteggiamento di autoaffermazione o quantomeno di difesa, pena la sua soppressione, la sua perdita di
identità.
Il relativismo culturale, inizialmente tanto efficace nel porre in luce la varietà delle forme e delle soluzioni, e quindi nel togliere credibilità ai vari tipi di etnocentrismo, rischia fortemente di tramutarsi in una sorta di avallo e di giustificazione di questo stesso atteggiamento.
In una prospettiva tipicamente relativistica, nella quale non esistono istanze superiori oltre le varie culture particolari (ovvero le specifiche forme di umanità che in esse si incarnano), i passi che si compiono sembrano essere i seguenti:
1) riconoscimento della pluralità e delle differenze (criterio quantitativo);
2) attribuzione alle singole differenze di un peso specifico di umanità particolare (criterio qualitativo);
3) giustificazione dei sentimenti di lealtà verso i propri costumi e degli atteggiamenti di affermazione, rivendicazione, difesa della ‘propria’ forma di umanità.
In questa visione l’etnocentrismo non appare più come una manifestazione condannabile; si configura invece come l’unica, vitale possibilità di affermazione
della propria identità.
Ma se per ogni cultura la ‘propria’ umanità è anche l’‘autentica’ umanità (realizzando anche qui un passaggio dalla quantità alla qualità), lo spazio esterno, quello delle altre culture, in quale altro modo potrà configurarsi se non come lo spazio della dis/umanità, di forme più o meno tollerabili di dis/umanità?
Oltre il relativismo
Una catena di implicazioni - a partire dalla percezione della molteplicità di forme dell’umanità, fino all’affermazione della ‘propria’ umanità e lo ‘spregio’ o la negazione di quelle altrui - potrebbe descrivere efficacemente i tipi di scenari storici in cui i vari gruppi umani si dibattono tra reciproche tolleranze più o
meno convinte e dichiarati atteggiamenti di sopraffazione.
Il relativismo rischia di coltivare nel suo oggetto la sua stessa negazione: le società e i loro comportamenti sono una costante e pesante smentita del relativismo e della sua aspirazione al riconoscimento e alla valorizzazione della molteplicità.
Riteniamo che, allorquando dalla
rilevazione della molteplicità si passa all’attribuzione di significati interni ai singoli universi culturali, ciò che prevale nettamente nei relativisti è una concezione ‘chiusa’ delle culture o delle società, come se davvero le società o le culture fossero universi in cui si decide tutto, in cui si elaborano tutte le risposte (ancorché particolari) di cui gli uomini hanno bisogno.
Che il carattere ‘chiuso’ dei mondi culturali sia un tratto che ritorna con preoccupante insistenza si può osservare proprio quando i pensatori maggiormente interessati a difendere il relativismo passano dalla considerazione di società tradizionali o premoderne alla considerazione della società moderna e, soprattutto, della scienza o delle comunità scientifiche.
È indubbio che il nocciolo dell’acceso dibattito sul relativismo - quale si è sviluppato negli ultimi decenni - coincide con la posizione della scienza moderna: da una parte i relativisti (reclutati tra antropologi, sociologi e filosofi della scienza) disposti a trascinare la scienza moderna in un novero di saperi locali e
plurali, alternativi e difficilmente comunicabili; dall’altra coloro che invece scorgono in questa avventura
un’abdicazione irrazionalistica.
Se per il primo schieramento - quello dei relativisti - tutti i mondi culturali (compresa la scienza moderna) sono chiusi e il relativismo appare dunque una prospettiva che ingloba anche la modernità, per il secondo schieramento - quello dei difensori della scienza e della modernità - la molteplicità di mondi chiusi, sostanzialmente incomunicabili, e il connesso relativismo appartengono a un passato ormai superato, sconfitti dall’unica ‘società aperta’, quella della scienza moderna.
L’alternativa entro cui dovremmo scegliere sarebbe dunque tra un relativismo invincibile e onnipervadente e un relativismo che invece arretra di fronte all’apertura progressiva della modernità; tra una visione in cui tutti i mondi, compresa la modernità, sono chiusi e una visione per la quale tutti i mondi tradizionali sono chiusi, eccetto la
modernità.
Le due alternative hanno questo in comune: considerare la chiusura come un fatto normale e tradizionale per le società; si differenziano invece per il fatto che la prima estende a tutte il carattere della chiusura, mentre la seconda ritiene che l’apertura sia caratteristica di una sola società.
È però proprio vero che le società sono normalmente e tradizionalmente chiuse?
Che nel chiuso di ogni singola cultura si
decide il senso e la forma dell’umanità, addebitando agli ‘altri’ i vari gradi e forme di dis/umanità? .
Non può essere che l’antropologia, insieme alle altre scienze sociali, sia rimasta vittima di questa impostazione e non si sia attrezzata in maniera sufficiente per cogliere i fenomeni di apertura che potrebbero caratterizzare tanto le società moderne, quanto le società definite tradizionali?
Su questo punto, occorre spingere più avanti il relativismo, ponendo in luce come i confini di differenziazione siano funzione non soltanto del punto di vista del ricercatore, ma anche delle scelte degli attori sociali, i quali creano e ricreano ‘noi’ più o meno inclusivi.
I confini, relativi alle scelte, si spostano, e le società corrispondentemente si ampliano o si restringono.
Inoltre, entro i confini variabili e relativi di un qualsiasi ‘noi’, esistono “nessi aperti", la cui organizzazione “né chiusa né definitiva” può essere sempre modificata: come a proposito della lingua, abbiamo qui a che fare con un’attività che è sempre di “trasformazione”.
Questa costante trasformazione, unitamente all’idea dei confini relativi, induce a pensare lingue, società e culture non come entità date, ma come processi in cui da subito è coinvolta, in vario modo l’alterità.
E così l’idea che nelle singole culture prende forma l’umanità non viene affatto abbandonata; ma si aggiunge che, anziché avere luogo nel ‘chiuso’ di una cultura, questo processo si verifica preferibilmente nel ‘dialogo’ (non importa quanto ampio o ristretto, e quanto pacifico o conflittuale) ‘tra’ culture differenti.
Sono le stesse società a esigere il contatto con gli ‘altri’ per questioni di vitale importanza, a provocare quindi l’‘apertura’ verso l’alterità e lo scambio interculturale: i confini, proprio perché sono posti, sono fatti anche per essere travalicati: risulta fondamentale per la definizione del nostro ‘noi’, per l’identità stessa della nostra civiltà.
È in definitiva questa attribuzione di
relativismo alle stesse società umane ciò che consente di scorgere aperture e connessioni (non soltanto chiusure ed etnocentrismi) tanto nel mondo moderno quanto più in generale nel mondo umano e, nello stesso tempo, di superare le aporie di un relativismo programmaticamente ‘aperto’ alla molteplicità e tuttavia troppo a lungo convinto del carattere ‘chiuso’ e ‘incomunicabile’ delle altre culture umane.
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