"Il cielo è già crollato una volta"; ciò non va inteso come un semplice richiamo mitico ma come un avvertimento a noi occidentali: “a noi è già accaduto, ascoltateci”.
tratto da "Lasciar parlare la foresta: politica, ecologia e mito in La caduta del cielo di Davi Kopenawa e Bruce Albert";
di Gioacchino Orsenigo.
Uno sciamano nell’epoca dell’Antropocene
Gli Yanomami sono una popolazione indigena che abita i territori della foresta amazzonica della Serra Parima, che vanno quasi dall’alto Orinoco, a sud del Venezuela, fino alle sponde del Rio Branco e del Rio Negro in Brasile: una superficie di circa 230.000 km2 per una popolazione di circa 30 mila persone.
Si tratta di un territorio a più riprese soggetto alla violenza predatoria di cercatori d’oro, industria mineraria e compagnie agroalimentari.
Davi Kopenawa è sciamano della
comunità di Watoriki ed è uno degli ultimi rimasti ancora in grado di «parlare con gli xapiri», gli spiriti che abitano e vivificano la foresta.
Lo sciamano è una figura decisiva nella cultura yanomami, il cui senso e la cui importanza non possono essere compresi senza addentrarsi un minimo nella fitta maglia della cosmologia amerindiana.
Egli è allo stesso tempo custode della cultura, medico guaritore, collante della
comunità, fine ed esperto diplomatico dei rapporti inter-specifici tra le comunità umane e non-umane che abitano la foresta.
Senza sciamani, il mondo stesso è condannato a morire, il cielo a sgretolarsi sopra le nostre teste.
Gli Yanomami, che hanno ben presente la fitta rete che unisce gli esseri umani al loro ambiente e alle creature non-umane, sono tra coloro che soffrono più direttamente gli effetti degli squilibri ambientali.
Essi sanno che la distruzione provocata dall’attività mineraria e lo sfruttamento di petrolio e gas nei loro territori hanno effetti generali.
L’ignoranza e la violenza dei bianchi occidentali sono la causa della vendetta degli spiriti che provocherà la caduta del cielo.
La caduta del cielo è una presa di posizione contro questa crisi che contiene già in sé un’alternativa.
Per questo Kopenawa sceglie di rivolgersi
a noi, abitanti del “primo mondo”, e di farci ascoltare le voci degli spiriti.
Multinaturalismo e Sciamanesimo: la politica cosmica della foresta
Chi ha studiato a lungo gli Yanomami è l'antropologo Viveiros de Castro.
Egli cerca di mettere in pratica una «decolonizzazione permanente del pensiero», lasciando che siano i mondi stessi a emergere e a rivendicare il loro spazio di senso e significato, contro quella tendenza tutta occidentale che divora i mondi altri in una logica interpretativa che anestetizza le possibilità che dischiudono questi stessi mondi.
Ciò che de Castro intende dire è, cioè, di non trattare più pratiche e conoscenze indigene come oggetto di studio ma di lasciare che i popoli indigeni parlino come soggetti capaci di pensiero in senso pieno e autonomo.
Tale proposito richiede un ripensamento profondo dell'antropocentrismo inteso come dominio della natura e
dell'eurocentrismo come fulcro della razionalità moderna, per la quale "noi, solo noi, gli Europei, siamo gli umani compiuti o se si preferisce, ampiamente incompiuti", […] i “configuratori di mondi”.
Se si vuole decolonizzare il pensiero bisogna arrivare alle matrici stesse che hanno reso l’altro nient’altro che un mero oggetto, prendendo sul serio il conoscere indigeno e le sue pratiche per trarne concetti filosofici, «concetti – però – selvaggi, senza addomesticarli alle coordinate della tradizione occidentale»: per fare dell’antropologia il luogo in cui l’indigeno diventa soggetto, in cui anch’egli prende parola.
Punto di partenza della riflessione di de Castro è la constatazione che i popoli amazzonici vedono il mondo come composto da una varietà di punti di vista. Gli esseri sono «centri di intenzionalità», ciascuno dei quali ha una propria comprensione degli altri.
Tutte le creature condividono uno stesso modo di appercezione poiché sono tutte dotate di “anima”, vedono sé stesse come persone e sono dunque persone.
Questo implica che essi vedano noi umani come non-umani.
Dal loro punto di vista, sono loro gli esseri antropomorfi, con una loro cultura: i loro
alimenti sono alimenti umani, i loro attributi corporei (piumaggio, pelliccia ecc.) sono ornamenti culturali.
Secondo questa concezione, dunque, l’essere una persona, l’essere dotati di un punto di vista non è una qualità di una specie particolare ma di ogni ente.
Per essere più precisi, il concetto di persona è antecedente rispetto a ogni altro, compreso quello di specie.
Siamo ben lontani del relativismo culturale che prevede una molteplicità di rappresentazioni soggettive che hanno in comune una natura esterna, indifferente alla rappresentazione.
Il reale è caratterizzato da quello che de Castro chiama multinaturalismo, che afferma la compresenza di più reami fittamente intrecciati.
Lo sciamano svolge il ruolo di interlocutore primario in un dialogo trans-specifico che ha tutte le caratteristiche di uno scambio diplomatico.
Per rappresentare questo scambio, de Castro parla di una vera e propria forma di
«diplomazia interspecifica».
Se ogni collettivo di enti costituisce una comunità, l’intero ambiente si trasforma allora in una «società di società, un’arena internazionale, una cosmopoliteia».
Quando ogni ente esprime un punto di vista ed è elevato a soggetto, le sue azioni
sono espressione di attività intenzionale e le relazioni che si intrattengono saranno allora in tutto simili a relazioni politiche: «se il relativismo occidentale trova nel multiculturalismo la sua politica pubblica, il prospettivismo sciamanico amerindiano trova nel multinaturalismo la sua politica cosmica».
Così molti eventi o oggetti apparentemente “naturali” sono ricodificati come prodotti di una cultura e anche il più insignificante accadimento diventa espressione di civiltà.
Ciò che saremmo portati a dire “natura” si rivela essere la “cultura” di altri.
Lo sciamano è un diplomatico e un politico, custode delle complesse relazioni che tengono viva la foresta e ogni specie vivente, o meglio ogni comunità umana o non-umana, ha il proprio sciamano.
Kopenawa denuncia la scomparsa di queste fondamentali figure poiché solo loro sono in grado di parlare con gli spiriti e far funzionare il complesso sistema di relazioni che costituisce il mondo.
Urihi, la foresta, non ha niente a che vedere con quello che siamo abituati a chiamare natura e scopriamo che le relazioni al suo interno sono in primo luogo relazioni politiche.
A parlare attraverso lo sciamano sono gli spiriti xapiri, descritti come le «immagini degli animali ancestrali».
A ben guardare, come scopriamo nel testo, la parola xapiri designa in realtà più elementi: il principio vitale degli esseri della foresta e l’immagine dell’umanità arcaica ma finisce per indicare anche lo stesso sciamano.
Gli sciamani, cioè, condividono la stessa natura degli spiriti e si distinguono dagli altri esseri umani per questa ragione. Riprendendo quanto si diceva della
lettura di de Castro, scorgiamo qui quella zona di indistinzione fra umano e non-umano, lo sbiadirsi dei confini specifici.
La profezia di Kopenawa: tra mitologia ed ecologia
Nelle cosmologie amerindie la fine del
mondo equivale alla scomparsa di umanità nel mondo, quell’umanità non-umana che abbiamo detto costituire la realtà sociale e politica della foresta.
Non può non esistere un punto di vista, una esperienzialità e una cultura poiché ogni forma di vita è in sé umana e dotata quindi di questi attributi.
Ricreare il mondo, uscire dalla crisi, significa creare vita.
In una cosmologia come quella
yanomami, il mito è l’unica cosa che permette di riconnettersi con l’unità originaria e dar forma al complesso dialogo fra le forme di vita.
Scopriamo così tutta la forza dell’elaborazione mitologica, che ci mette in guardia dall’uso manipolatorio, apologetico e assolutorio che del mito può fare una classe dominante.
Qui vediamo tutto al contrario il carattere positivo ed emancipatore del mito, in quanto rielaborazione del legame stesso con il mondo.
In epoca neoliberale si è prodotto, come testimonia l’antropologa Elizabeth Povinelli, un nuovo movimento del capitale che neutralizza la forza delle analitiche dell’esistenza dei popoli colonizzati, rendendole prive di significato.
L’occidentale non crede né vuole credere alla verità dei discorsi indigeni perché, come dice Kopenawa, «i Bianchi dormono molto, ma sognano solo sé stessi».
Spesso però, non ci viene richiesto di credere.
Quello che sì ci viene richiesto è di lasciar
vivere quei discorsi.
Tuttavia, mitologia e cultura indigene vengono ridotte a fossili, testimonianze di un passato lontano ma incapaci di produrre storia.
Un passato verso cui al massimo avere un certo senso di colpa ma pur sempre reperto, da custodire nei musei a cielo aperto di storia naturale in cui rischiano spesso di essere trasformate le comunità indigene.
In Brasile è lo stesso Kopenawa a denunciare l’incapacità degli occidentali di vedere la vita pulsante, produttiva, storica potremmo dire, della foresta.
Se tutto un mondo viene così annullato e relegato a semplice testimonianza di un passato pre-colombiano, si consuma un vero e proprio epistemicidio.
Conoscenze, tradizioni e con loro forme dell’esperire e della relazione vengono
cancellate: o del tutto e nel modo violento e brutale della prima colonizzazione che agisce attraverso l’eliminazione fisica degli indigeni oppure, come si è detto, ridotte a fossili, tracce morte del passato.
La cultura viene assimilata al punto da renderla innocua, non più in grado, cioè, di dischiudere quei mondi altri di cui essa è testimonianza.
Eppure, ne La caduta del cielo, assistiamo davvero a una presa di parola.
Lo sciamano parla e con lui un intero mondo.
Quanto impariamo dalla stessa mitologia yanomami è che se vogliamo davvero
lasciar parlare allora dobbiamo permettere a un intero mondo di emergere: un intero regno di segni e significati reclama il suo spazio nell’ordine del senso.
L’epistemologia si accompagna a una
ontologia
Per gli Yanomami non esiste storia del proprio popolo disgiunta da quella di tutte le altre comunità non-umane che abitano la foresta e sono la foresta.
Così assistiamo al connettersi della rivendicazione politica con quella ecologica e, in realtà, al confondersi dei due piani.
Kopenawa è un attivista per i diritti indigeni in quanto sciamano e viceversa.
La sua natura, la sua foresta, è caratterizzata di per sé da relazioni politiche e la sua politica è già ecologia.
Scrive Kopenawa: Sin dall’inizio dei tempi, Omama è stato il centro di quello che i Bianchi chiamano “ecologia”.
È vero! Ben prima che queste parole esistessero da loro e iniziassero a parlarne tanto, erano già in noi, senza che le chiamassimo nello stesso modo.
Per gli sciamani, sono state da sempre
parole venute dagli spiriti per difendere la foresta.
Nella foresta, siamo noi esseri umani a essere l’ecologia; ma come noi, lo sono anche gli xapiri, la selvaggina, gli alberi, i fiumi i pesci, il cielo...
Politica indigena ed ecologia acquistano senso solo all’interno di un’impalcatura cosmico-ontologica che ne sfuma i confini.
Lo sciamano Davi è ambasciatore di ogni comunità e si rivolge direttamente agli aggressori della foresta per cercare di trasformarli e porre fine così alla guerra
da loro stessi iniziata.
Capiamo allora perché si tratta di sciamanesimo applicato: Kopenawa fa sciamanesimo anche nel rivolgersi a noi occidentali, cercando di rompere le
barriere che separano il nostro mondo dal suo.
Nell’opera di Kopenawa si rompono gli
schemi con cui la tradizione occidentale è stata solita catalogare e neutralizzare le culture altre.
Il mito, con la cultura e quindi la vita di cui racconta, pretende il suo spazio.
Non è un caso che la stessa profezia della caduta del cielo sia effettivamente una creazione di Kopenawa stesso.
Lo sciamano iniziò a elaborarla insieme a suo suocero a fine anni ’80, quando la corsa all’oro devastava le terre amazzoniche e una grossa crisi ecologica ed epidemiologica colpiva la sua comunità.
Di fronte a tale devastazione, l’unica reazione positiva è quella di produrre un discorso che dia senso a quanto sta accadendo per poterlo affrontare.
Lo sciamanesimo in atto nel testo non è la semplice testimonianza di un “indio acculturato” ma la rivendicazione di uno posto nella storia, pur volendo rimanere altro.
I mondi pretendono il loro spazio di senso in tutta la loro complessità: non chiedono tanto di essere compresi, quanto di essere lasciati parlare.
Le rivendicazioni del Davi attivista sono le stesse del Davi sciamano.
I confini che attribuiamo a ecologia, politica, mito, storia si confondono all’improvviso.
Nell’era in cui l’umano, un certo umano, si vuole signore della terra, quando fioccano catastrofi e catastrofismi di ogni genere,
Kopenawa ci invita a decentrare lo sguardo e a mettere in dubbio tutte le nostre categorie, a scoprire che quella che chiamiamo natura è un enorme campo di relazioni, sociali e politiche, e che l’intreccio fra questi elementi richiede una forma nuova di rivendicazione.
Gli Yanomami lo sanno da sempre, per questo la loro lotta per l’emancipazione e la sopravvivenza non può essere scissa dalla lotta per la salute della foresta e del mondo.
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