tratto da "La storia dell’ambiente.
Un’introduzione"; di Marco Armiero e Stefania Barca.
Da qualche tempo la natura è tornata a prendere il suo posto dentro la storia.
Le scienze umane dell'ambiente, o Environmental Humanities (EH) sono interessate da un progetto ambizioso, che intende mettere in discussione l’intero statuto epistemologico delle scienze storiche lanciando una sfida: rimettere la natura dentro la storia, guardando al modo in cui gruppi, società, nazioni, individui e culture hanno interagito con i loro ambienti, e sono stati influenzati da essi.
Per cominciare, cerchiamo di rispondere a una domanda: da dove viene la storia ambientale?
Non è facile trovare un accordo su questo.
Probabilmente, volendo fare un discorso sulle origini storiografiche, sarebbe giusto concentrarsi su due filoni:
1) la storiografia sulla "frontiera" americana;
2) le “Annales” francesi.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento Frederick Jackson Turner pubblicava i suoi lavori sulla frontiera nella storia americana, inaugurando una feconda stagione di studi dedicata all’espansione verso l’Ovest.
Nella frontiera, spazio da conquistare e non linea di confine, le istituzioni ed i valori dei pionieri si erano trasformati nell’impatto con un ambiente radicalmente nuovo.
Se nella frontiera gli agenti naturali diventavano attori della storia, allo storico
toccava il compito di attrezzarsi per riuscire a leggerne gli accadimenti: per questo Turner raccomandava ai suoi allievi di uscire dai rigidi steccati disciplinari, avvicinandosi ai lavori degli scienziati naturali.
La frontiera diventava, dunque, uno spazio di contaminazione non solo geografico, ma anche disciplinare.
A partire da Turner, la western history avrebbe iniziato a tessere una proficua rete di relazioni con le scienze naturali: valgano per tutte le opere di storici come Walter Prescott Webb e James Malin, o
di ecologi come Aldo Leopold; esempi fecondi di questa stagione di
contaminazioni tra saperi umanistici e naturalistici.
In particolare, Le grandi pianure di Prescott Webb, pubblicato negli anni trenta del Novecento, rappresenta uno dei primi e più interessanti esempi di questa esperienza, maturata all’interno della western history: le grandi pianure non erano solo lo sfondo della narrazione, ma ne diventavano le protagoniste, senza che questo comportasse affatto l’invisibilità dei gruppi umani.
Nelle Great Plains, spagnoli, indiani, americani si confrontavano tra loro e, soprattutto, con le sfide dell’ambiente naturale: tecnologie, istituzioni, economie, successi e fallimenti dovettero fare i conti con gli agenti naturali.
Il risultato storiografico di tutto questo fu un libro ancora oggi straordinario, nel quale si tenne conto del clima e della letteratura, dell’idrografia e della legislazione, della cultura materiale e degli elementi religiosi.
Non sembra un caso che la western history e la sua diretta discendente, la new western history, meno ideologica e teleologica della prima (ossia meno incline a una visione tutta positiva dell’espansione ad Ovest della frontiera), siano state tante volte indicate come le radici profonde della storia ambientale; non si tratta, tuttavia, solo di una questione di opportunità.
Il West, luogo selvaggio per eccellenza, costituirebbe l'incarnazione della "wilderness americana"; ma la frontiera, oltre ad essere uno spazio geografico è, come tutti gli spazi, anche e soprattutto una costruzione culturale: da questo punto di vista, l’Ovest è un buon laboratorio di storia dell’ambiente proprio perché la sua natura – ecologica e culturale insieme, dunque storica –appare davvero come una metafora più generale delle relazioni tra uomini e ambienti.
Sull’altra sponda dell’Atlantico non c’era da tempo traccia di wilderness, e la frontiera, intesa come spazio da occupare, si era esaurita dopo le prime grandi ondate di colonizzazione, con il diboscamento e la bonifica di gran parte del Vecchio Continente.
Così, se negli Stati Uniti la storia dell’ambiente sarebbe nata dall’incontro tra la western history turneriana e la tradizione protezionista simboleggiata da H. D. Thoreau e J. Muir, in Europa era la geografia umana francese a costituire l’humus sul quale si sarebbero innestate le prime esperienze storiche relative all’ambiente.
Storia dell’ambiente e storia sociale sembrano nascere, dunque, dallo stesso brodo di coltura: le “Annales” scoprivano nuovi campi di indagine, restituendo alla memoria soggetti prima invisibili (ceti subalterni, marginali, piccole comunità, ecc.).
La critica degli annalisti per quello che definivano l’evenemenziale, ossia la storia del tempo breve, fatta di battaglie, trattati e personaggi celebri, portava in sé l’opzione per una scala temporale più dilatata; era il tempo lungo a scandire le dinamiche evolutive delle strutture profonde che sottostavano ai sommovimenti più appariscenti della superficie.
L’ambiente è presente in molte delle opere dei principali esponenti delle “Annales”: Lucien Febvre dedicava un intero volume sostanzialmente ai rapporti tra geografia e storia; Marc Bloch impostava I caratteri originali della storia rurale francese con una forte impronta ambientale, collegando l’inesorabile avvento dell’individualismo proprietario agli assetti ecologico-territoriali.
In effetti l’attenzione all’ambiente maturata nelle “Annales” trovava un solido retroterra, oltre che nella geografia umana francese, anche nella storia agraria e in quella economica.
Le fonti di energia, la demografia, la produttività della terra, le tecniche
costituivano i punti di forza delle ricerche e delle ipotesi interpretative di Fernand Braudel; oggi nessuno storico dell’ambiente può fare a meno di confrontarsi con la sua ripartizione del tempo storico.
Pur ammettendo l’esistenza di una matrice annalista della storia europea dell’ambiente, per niente scontata, essa ha significato soprattutto questa forte contaminazione, almeno all’origine, con gli studi di storia economica, in generale, e agraria in particolare.
Se andassimo a frugare nel background degli storici ambientali europei, troveremmo molti storici dell’agricoltura (soprattutto in Italia e Spagna, ma anche in Inghilterra o in molti paesi nord-europei), dell’industria (soprattutto in Germania), dell’urbanizzazione (in Francia, Gran Bretagna, Germania), molto meno storici della cultura e/o dei movimenti sociali.
D’altronde era l’economia stessa che ripensava il suo rapporto con la natura: la nascita prima dell’economia ambientale, cioè di un tentativo di inserire nel discorso economico le esternalità legate alla
produzione, e poi dell’economia ecologica, che all’opposto si proponeva di inserire il sistema economico all’interno di quello ecologico, trascinavano con loro anche pezzi della storia economica.
Insomma, non è facile ricostruire alberi genealogici universali, che funzionino a tutte le latitudini storiografiche; in altre parole, alla storia ambientale si è giunti spesso attraverso traiettorie e percorsi diversi, strettamente collocati nei diversi contesti nei quali sono maturati.
Tuttavia, malgrado queste forti specificità, è possibile cogliere alcuni passaggi che hanno scandito l’affermazione dell’interesse per l’ambiente su scala più ampia.
La storia dell’ambiente risulta, infatti,
strettamente connessa tanto all’ecologia scientifica quanto all’ecologia politica.
Gli anni settanta sono senza dubbio uno spartiacque importante: risaliva al 1970 (che era peraltro anno europeo della natura) la prima giornata mondiale della Terra; nel 1972 si convocava a Stoccolma la conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente.
La crisi petrolifera del 1973 avrebbe segnato, come è noto, uno shock per i paesi occidentali non solo di natura economica, ma anche culturale: per la prima volta dalla rivoluzione industriale apparivano evidenti i limiti fisici delle risorse naturali e l’illusorietà della crescita illimitata.
Non si trattava, peraltro, di eventi isolati; in realtà era dagli anni sessanta che stava
maturando una nuova sensibilità ecologista, ben rappresentata dall’impatto che su scala planetaria ebbe il libro della biologa americana Rachel Carson, Silent Spring, che denunciava gli effetti nocivi dei
pesticidi su tutte le forme di vita, compresa l’umana.
L’ondata verde fu piuttosto forte tra gli anni sessanta e settanta del Novecento: tra i
libri pubblicati in questo periodo, e che senz’altro hanno esercitato il maggiore stimolo sugli storici dell’ambiente, va ricordato Il cerchio da chiudere, del biologo statunitense Barry Commoner.
Il volume, divenuto uno dei testi sacri del pensiero ecologico, ricordava l’unità che
lega l’insieme dei fenomeni biologici e fisici nell’ecosfera, in cui la vita si presenta come un insieme di cicli: il sistema economico moderno, sosteneva Commoner, «ha spezzato il cerchio della vita trasformando i suoi cicli senza fine in eventi umani di tipo lineare», mettendo in pericolo, per la prima volta nella storia dell’umanità, la capacità di riproduzione delle risorse fondamentali per la vita sul pianeta.
La metafora del cerchio spezzato ebbe vasta eco nella formazione del pensiero ecologista, grazie anche alla ricchezza delle suggestioni contenute nel libro: il fallout radioattivo successivo agli esperimenti nucleari inaugurati negli anni cinquanta, lo smog a Los Angeles, la contaminazione delle acque dell’Illinois causata dai fertilizzanti sintetici, il clamoroso caso di eutrofizzazione del lago Erie, sono soltanto alcuni degli esempi storici che accompagnavano argomentazioni più generali sulla questione demografica, sulla “società affluente” ( cioè il modello di consumo dei paesi industrializzati), sul ruolo della tecnologia nel proporre risposte sociali alle questioni ambientali, e così via.
Ovviamente la questione è valutare quanto questa ondata ecologista sia riuscita a penetrare tra gli storici.
Qui il discorso si fa piuttosto complesso, perché la situazione americana è diversa da quella europea e anche all’interno del Vecchio Continente le differenze sono
rilevanti.
A tentare qualche generalizzazione, si può sostenere che tra le scienze sociali la storia è stata quella più refrattaria a misurarsi con i temi, i problemi e le metodologie dell’ecologia e dell’ambientalismo.
Probabilmente la questione investe lo stesso statuto disciplinare ed ontologico della storia dell’ambiente: in altri termini, esiste una storia dell’ambiente come disciplina e come la si pratica?
"Riuscire ad entrare e stare dentro la storia economico-sociale, tentando di cambiarne i paradigmi e i presupposti concettuali" sarebbe, secondo Martinez Alier, l’antidoto all’ennesima sotto-disciplina magari accademicamente forte, ma debole sotto il profilo dell’impatto nella costruzione del sapere storico.
Ma davvero la storia dell’ambiente comporta una svolta di prospettive, l’introduzione di nuovi paradigmi?
O piuttosto si è verificata soltanto un’espansione di temi di ricerca, tale da comprendere nuovi e originali oggetti d’indagine?
Sia chiaro che anche questo non è poco: studiare i boschi, le risorse idriche, i disastri, le legislazioni ambientali, l’energia ha arricchito la mole di conoscenze storiche, restituendo pezzi di un passato a lungo invisibile.
Inoltre l’oggetto di ricerca ha spesso costretto a fare i conti con saperi diversi e a volte con le logiche interne di funzionamento di quegli stessi oggetti: difficile confrontarsi con i boschi o con i fiumi senza considerarne la complessità ecologica di funzioni e relazioni.
La storia dell’ambiente è anche questa dilatazione di campi di ricerca.
Tuttavia, gli elementi di maggiore innovazione non sono necessariamente connessi all’opzione per determinati temi, quanto piuttosto al punto di vista: il rifiuto di una visione teleologica e progressiva della storia, l’approccio olistico e la nozione di entropia costituiscono i tratti più innovativi, anche se non gli unici, di questo filone di ricerca.
La storia dell’ambiente, inoltre, sembra caratterizzarsi per una forte carica etico-politica: in piena crisi delle ideologie, essa propone una radicale critica all’attuale sistema di produzione, distribuzione e consumo, rifiutando l’assioma che esso sia il migliore possibile.
Commenti
Posta un commento