L'oppressione climatica è estrattiva ed ecocida: tratta donne e gruppi subalterni allo stesso modo in cui tratta la terra.
La produzione della vita e l'economia di sussistenza, realizzate principalmente sotto forma non salariata dalle donne, gli schiavi, i contadini e altri soggetti colonizzati, hanno costituito la base permanente sulla quale il lavoro produttivo capitalista ha potuto essere performato e sfruttato.
Ai paesi del "Sud globale" (ricchi di risorse naturali), così come alle donne (prima in Europa, poi nel resto del mondo) è stato per secoli imposto un ruolo passivo e sottomesso nella divisione internazionale del lavoro, legato alle esigenze del capitalismo metropolitano.
Oggi, di fronte alla crisi ecologica, la "riconfigurazione globale del capitalismo" assume la forma di un’ulteriore espansione delle frontiere estrattive e di una modificazione ancor più profonda ed irreversibile degli ecosistemi, della vita e della riproduzione sulla terra: una nuova rivoluzione ecologica, alla continua quanto sempre più affannosa ricerca di "risorse a buon mercato".
In particolar modo le politiche della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale hanno messo in atto, negli ultimi decenni, uno sforzo continuo per imporre il controllo delle multinazionali, smantellando le istituzioni democratiche locali e mettendo il potere decisionale nelle mani delle stesse istituzioni che hanno tratto profitto dalla distruzione dell'ambiente.
Così, la cosiddetta "Crescita Sostenibile" ha assunto le sembianze di un mito pericoloso, che impedisce una seria presa d’atto della fine di questo sistema economico.
Ciononostante la "crescita", come principio etico politico e credo universale della civiltà moderna sta rapidamente tramontando in termini di fiducia e autorevolezza.
Non è più sostenibile infatti né tantomeno giusto, perpetuare lo sfruttamento della terra, delle risorse e del lavoro nei Paesi meno "sviluppati" (così come delle comunità storicamente sfruttate in quelli maggiormente industrializzati), solo per mantenere gli stili di vita e le crescenti aspettative di un’esigua minoranza di ricchi.
I beni comuni universali, come ad esempio l'acqua, dai quali dipende la vita delle persone e del pianeta, vanno salvaguardati e non gettati in pasto alla speculazione: devono rimanere fuori dalle dinamiche del profitto e della privatizzazione.
Affinché ciò sia possibile sarà necessario innanzitutto ribaltare il modello antropologico dell’"homo oeconomicus" e dell'individualismo competitivo dell’imprenditore di sé stesso, così come la finanziarizzazione di ogni aspetto della vita e del pianeta, opponendosi con forza alla quotazione in borsa del "valore ecosistemico" di un territorio.
Per ripensare in maniera radicale le relazioni tra produzione, territorio, salute e ambiente, la formula di limitazione cosciente di André Gorz, definita come la capacità umana di “autolimitazione culturale dei propri bisogni e dei propri progetti” è un principio essenziale, una vera e propria stella polare, ma nella costruzione di un movimento per la giustizia climatica si dovrà necessariamente procedere anche con la "messa in luce" del debito ecologico che i Paesi del Nord del mondo hanno contratto con quelli del Sud, che i ricchi hanno contratto con i poveri, gli uomini con le donne.
Un sistema orientato alla massimizzazione dei profitti è (e sarà sempre) portato a ridurre i costi e ad aumentare i guadagni; il principale meccanismo storico attraverso il quale questo obiettivo è stato perseguito, è stato quello di estrarre risorse e lavoro "a buon mercato".
Questa tendenza è stata sostenuta da processi violenti e giustificata dall'invenzione di costrutti culturali che hanno creato un “altro” e un “altrove” che fosse lecito sfruttare.
Così razza, classe e sesso sono emersi come sistemi di "oppressione/privilegio" che ancora oggi influiscono sulle nostre vite, posizionandoci nel mondo lungo linee fortemente divergenti.
La sola genuina speranza di liberazione risiede in una prospettiva di cambiamento sociale che tenga in considerazione il modo in cui i sistemi interconnessi di classismo, razzismo, sessismo, abilismo ecc… funzionano insieme, allo scopo di mantenere intatti l’oppressione e lo sfruttamento (innanzitutto delle donne).
L’ecologia politica, campo di ricerca "indisciplinato" che guarda alle relazioni socioecologiche senza nascondere il potere e le diseguaglianze, ha progressivamente allargato il suo sguardo, saldandosi con altre prospettive come quella femminista, quella decoloniale, con la riflessione sul rapporto tra umano e non umano, con l’analisi critica del discorso pubblico sulla natura.
Come insegna bell hooks, la teoria deve essere consapevolezza del posto che si occupa nella società: una pratica sociale che comporti la rinuncia al "potere di agire come colonizzatori".
La bianchezza, la classe, il genere, l’orientamento sessuale, la normoabilità fisica e psichica (e così via), ci posizionano anche nell’ambito delle lotte sociali ma, come ripete hooks, "il potere radicale della sovversione fiorisce nella marginalità", e dunque la forza trasformatrice non potrà che risiedere nelle mani di chi abita i territori e li difende: nelle mani di lavoratori, disoccupati, precari, di tutti quelli che non intendono emigrare e, allo stesso tempo, di chiunque desideri vivere in un ambiente sano, accogliente e pacifico; per dirla tutta, indipendente dal capitale.
Perché ciò sia possibile sarà fondamentale saper ascoltare e apprezzare i legami profondi che tutte le persone hanno con la terra e il territorio da cui provengono: per provare a capire (almeno in parte) la violenza che può esserci nell’emigrazione, nell’eradicazione o nella perdita del proprio territorio.
La violenza coloniale europea – in Asia, Americhe, Australia, Nuova Zelanda e Africa – e lo sterminio sistematico dei popoli indigeni, hanno gettato le basi per la crisi climatica che minaccia il mondo di oggi.
Schiavitù e colonialismo hanno svolto un ruolo centrale nel processo di arricchimento dell’Occidente; le odierne diseguaglianze tra Paesi, e all’interno di essi, conservano una chiara traccia di questa eredità: le ferite coloniali sono incarnate e scolpite nei corpi e nelle menti.
Non è un caso che le principali caratteristiche del "modello di piantagione", cioè sfruttamento del lavoro, accaparramento di ampi tratti di terra e foreste comunitarie, distruzione e contaminazione dei mezzi di sussistenza delle comunità, siano rimaste pressoché intatte.
I meccanismi dell’economia globalizzata, consentendo alla grande distribuzione di ottenere prezzi bassi e contemporaneamente ai consumatori di risparmiare denaro, hanno incarnato in braccianti e operai nuove forme di schiavitù.
Così "relazioni socioecologiche tossiche" hanno continuato a ri-produrre luoghi e comunità umane (e non umane) di scarto.
Il concetto di Wasteocene, elaborato da Marco Armiero, descrive bene la «natura contaminante del capitalismo» e le modalità con cui questa tossicità viene introiettata, tramite l’oppressione e lo sfruttamento, nella sfera del vivente e delle relazioni che consentono la vita sulla terra.
Il corpo – umano e non umano – assume così una fondamentale dimensione politica: è al contempo «spazio di oppressione e di liberazione».
Molti attori sociali, incluse coltivatrici e famiglie delle zone rurali, popolazioni indigene e agricoltori, donne e uomini senza terra, collettivi di fabbrica e movimenti per la giustizia climatica stanno resistendo; e difendendo territori o risorse naturali, stili di vita e patrimoni culturali prefigurano forme inedite del “comune”: esperimenti riconducibili a pratiche di commoning che possono sabotare dall'interno la logica del Wasteocene.
Comunità che mettono in pratica modelli di società, di relazione, di rapporti di partnership tra umano e vivente, di autogestione e democrazia radicale, dimostrando come la giustizia ambientale possa essere costruita solo attraverso la partecipazione dal basso e un nuovo protagonismo dei popoli e dei cittadini.
Le ontologie indigene hanno codificato per secoli il rapporto tra collettivo umano e ambiente attraverso il principio dell'interconnessione: l’essere umano esiste in quanto nodo di una rete che tiene assieme il mondo animato, quello inanimato e quello spirituale.
Le popolazioni indigene basano ancora oggi la loro resistenza sulla forza delle istanze collettive, arricchite dal contributo di tutte e tutti: per questi popoli "uguaglianza è partecipazione".
Intorno al paradigma della cura sarà possibile costruire una diversa società, che sia ecosocialista e femminista invece che capitalista e patriarcale; equa, inclusiva e solidale anziché predatoria, escludente e disuguale.
Ai tempi della crisi socio-ambientale, "cura" deve essere manutenzione della rete di relazioni che informano il mondo: per aprire la strada a una visione dell'esistenza "più-che-umana" come intreccio di materia, azioni, conoscenze, interscambi e influenze; perché le fondamenta stesse della ricchezza e del benessere del pianeta poggiano sulla riproduzione sociale e il lavoro di cura.
Il lavoro e la produzione potranno essere orientati al soddisfacimento dei bisogni, e non al profitto, solo in un sistema socio-economico totalmente diverso da quello attuale; potrebbero dunque essere le rivoluzioni il freno d’emergenza al quale potrà fare ricorso il genere umano in viaggio su questo treno?
"Fine del mondo" e "fine del mese" fanno parte di un’unica trama: quella di un sistema di sviluppo disumano ed insostenibile; la convergenza tra luoghi di lavoro e territori, di cui la vertenza GKN in Italia è esempio, sarà un elemento decisivo per le ampie mobilitazioni necessarie per arrivare a fine mese andando "oltre" la fine del mondo.
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