tratto dalla recensione di Valerio Bini al volume "The divide Guida per risolvere la disuguaglianza globale"; di Jason Hickel.
Rivista geografica italiana, CXXVI,126, giugno 2019; pp.167-190.
Il volume è costruito in tre sezioni; nella prima parte viene esposta la tesi di
fondo del volume: che l’aiuto allo sviluppo debba lasciare spazio a interventi
strutturali di riduzione delle disuguaglianze globali.
Nelle due parti centrali l’autore opera una ricostruzione storica delle diseguaglianze e nell’ultima propone alcune soluzioni al problema.
“L’industria dello sviluppo ha ripetutamente fallito nel mantenere le sue grandi promesse di porre fine alla fame nel mondo o rendere la povertà un ricordo del passato”.
L’attacco del libro si colloca nel solco di un’ampia schiera di ricercatori e commentatori che negli ultimi decenni hanno sottolineato la scarsa efficacia dell’aiuto allo sviluppo: dai primi studi di economisti che ponevano in dubbio la correlazione positiva tra aiuto allo sviluppo e crescita economica, ad analisi critiche più complesse e strutturate, fino a posizioni estremamente semplificate, ma
di grande successo mediatico nel quale si sottolineano gli effetti negativi dell’aiuto per contrapporvi l’efficacia del libero mercato.
Molte di queste analisi critiche, pur diverse nelle loro prospettive, condividono
un certo riduzionismo economicista, che trae conclusioni dalla correlazione di poche variabili (di norma PIL e Aiuto Pubblico allo Sviluppo), lasciando poco o nessuno spazio al territorio come sistema complesso di interazione tra società e ambiente.
L’assenza di una geografia che non sia mera analisi distributiva di valori statistici alla scala globale è elemento ricorrente in queste analisi e corrisponde a una tendenza, altrettanto riduzionista, da parte della comunità internazionale, a leggere le
dinamiche di sviluppo attraverso pochi semplici indicatori che misurerebbero l’avanzamento o meno degli stati verso l’orizzonte della “fine della povertà”.
In questo quadro è gioco facile per Hickel mostrare come l’utilizzo delle statistiche sia ideologico e possa essere facilmente manipolato: "i successi nella riduzione della fame e della povertà vantati dalle Nazioni Unite non sono più tali se utilizziamo altre date di riferimento (il 2000 e non il 1990 come data di partenza) o se osserviamo i dati con maggiore dettaglio, scoprendo che buona parte dei risultati è l’esito del miglioramento delle condizioni di vita di un solo paese, la Cina".
L’argomento centrale dell’analisi di Hickel, tuttavia, è la necessità di distinguere la carità dalla giustizia, andando alla radice delle disuguaglianze globali: “Tutto questo non vuole essere una critica agli aiuti in quanto tali; serve per dire che il discorso degli aiuti non ci permette di cogliere il quadro più generale perché occulta i meccanismi di estrazione del valore che provocano attivamente l’impoverimento del Sud del mondo e ne impediscono uno sviluppo reale".
Tale prospettiva più politica viene sviluppata in una lunga sezione che ripercorre la storia delle relazioni internazionali dalla “scoperta” dell’America fino ad oggi, proponendo una lettura alternativa a quella ufficiale.
Anche in questo caso l’autore mette a sistema analisi già note: teorie marxiste e post-marxiste sulla produzione del valore, elementi della teoria della dipendenza, dello scambio ineguale e del sistema-mondo, riferimenti economici di matrice keynesiana, analisi politiche di matrice terzomondista e altermondialista.
L'autore aggiunge anche un interessante approfondimento sul ruolo chiave svolto dallo sfruttamento delle risorse naturali nel processo di accumulazione capitalistica.
Si tratta di un ragionamento teso a osservare la “natura come mezzo di produzione”, per dirla con Neil Smith, mettendo in relazione le riflessioni di Marx sull’accumulazione originaria con le pratiche successive e persino contemporanee di sfruttamento della natura alla scala globale.
Hickel si inserisce qui in una linea di pensiero che trova le sue radici nell’analisi delle “relazioni tra capitalismo e modi di produzione non capitalisti” di Rosa Luxemburg, nell’introduzione al libro I del Capitale di Louis Althusser e nel concetto di “accumulazione per espropriazione” proposto da David Harvey.
La seconda sezione del volume è anche quella in cui è più evidente la “territorial trap” di cui è vittima il testo: l’analisi condotta è infatti incentrata in larga parte sul ruolo degli stati, poco spazio è lasciato alla scala locale, mentre gli attori internazionali (Banca mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale del Commercio) vengono analizzati come diretta emanazione delle strategie degli Stati Uniti, in una ricostruzione non priva di elementi di verità, ma forse limitata.
Tale prospettiva, infatti, semplifica non poco il quadro internazionale e nello scontro tra potenze occidentali e stati non-allineati finisce per dare un’immagine edulcorata dei governi che hanno amministrato i territori liberati dal dominio coloniale.
Due appaiono gli elementi più critici, tra loro complementari.
Il primo riguarda l’ideologia dello sviluppo che, pur essendo valutata criticamente in alcuni passaggi del testo, nella parte centrale viene difesa con poche sfumature, come quando l’Autore afferma che: “L’ideologia dello sviluppo ebbe un impatto straordinario anche sul benessere delle persone”.
Tale impostazione sottovaluta il carattere poco partecipato, talvolta autoritario, dell’approccio “sviluppista”.
Inoltre, e questa è la seconda e forse principale criticità di questa parte del volume, tende a sollevare i governi dei paesi del Sud del mondo da qualunque
responsabilità, in una sorta di paradossale eurocentrismo nel quale gli eventi sono determinati in maniera univoca dalle strategie dei governi occidentali, come nel
passaggio sulla democrazia: “Ma la verità è che dalla fine del colonialismo in poi
le potenze occidentali hanno deliberatamente impedito agli africani di creare delle democrazie”.
Autori come Achille Mbembe, e in generale gli studi postcoloniali, hanno da tempo mostrato la debolezza di approcci troppo unidirezionali, a favore di interpretazioni più complesse che mettono al centro la relazione di mutua influenza tra società e governi (ex) colonizzatori e società e governi (ex) colonizzati.
Tali criticità tuttavia non inficiano il valore principale di questa lunga parte storica che mostra come la narrazione dell’aiuto abbia occultato una storia di estrazione di risorse che è alla radice dell’impoverimento dei paesi del Sud del mondo.
L’autore cambia la prospettiva sulla povertà, da qualità propria delle società a prodotto di un processo di espropriazione, proponendo così un’importante chiave di
lettura all’interno del dibattito contemporaneo sullo sviluppo e sulle relazioni internazionali.
Particolarmente efficace risulta in questa direzione la riflessione sul nesso tra
aiuti internazionali, debito estero e aggiustamento strutturale.
Qui l’argomentazione è piuttosto semplice e sottolinea il legame esistente tra prestiti sottoscritti da governi autoritari, indebitamento fuori controllo e intervento delle istituzioni finanziarie internazionali che “salvano” i paesi in crisi in cambio di riforme economiche strutturali che indeboliscono l’economia locale a favore degli investitori esteri.
“Gli aiuti ufficiali concessi sotto forma di prestiti condizionati", scrive Hickel, "non sono concepiti per promuovere lo sviluppo nei paesi del Sud del mondo, bensì, in
molti casi, per impedire loro di perseguire le politiche necessarie allo sviluppo e
all’eliminazione della povertà, creando nel contempo nuove opportunità per gli
investitori dei paesi ricchi”.
La dinamica degli aiuti internazionali viene dunque riletta non più in termini etico-morali, ma come strumento degli stati ricchi per rispondere ai cronici problemi di sovraccumulazione del capitalismo contemporaneo, in un quadro teorico che rimanda allo “spatial fix” di David Harvey.
La riflessione sul potere della narrazione morale torna a più riprese nel volume
ed emerge in modo evidente nel passaggio relativo al debito.
L’autore esce infatti dalla ricostruzione storica e prova ad astrarre la questione, mostrando come l’indebitamento sia uno strumento chiave di coercizione, funzionale alla perpetuazione dell’attuale sistema economico.
Per farlo Hickel cita l’antropologo David Graeber, autore del volume Debt: The First 5000 Years (2011): «Non c’è modo migliore per giustificare relazioni sociali fondate sulla violenza, e per farle sembrare morali, che riformularle nel linguaggio del debito; soprattutto perché in questo modo sembra che sia stata la vittima a fare qualcosa di male».
Gli ultimi due capitoli della seconda sezione sono dedicati alle forme contemporanee di sfruttamento e di disuguaglianza.
Grande spazio è lasciato alla critica dei modelli economici (libero mercato) e delle istituzioni giuridiche (accordo TRIP, Investor to State Dispute Settlement) dominanti, mentre le questioni più propriamente territoriali appaiono solo negli ultimi paragrafi, quando l’autore affronta i temi dell’accaparramento delle terre e del cambiamento climatico.
Quest’ultimo tema, in particolare, viene trattato da una interessante prospettiva di giustizia distributiva che non è frequente nei saggi sul tema: l’autore infatti non si concentra tanto sul problema globale, ma sull’impatto differenziato che la crisi climatica ha sulle società più povere.
La questione appare in modo evidente quando si analizza la mortalità connessa ai cambiamenti climatici: “Nel 2010 i decessi sono stati 400.000, molti dovuti a eventi meteorologici estremi, ma per la maggior parte causati dalla fame e dalle malattie trasmissibili indotte dal mutamento del clima.
Il 98 per cento di tali decessi si è registrato nei paesi in via di sviluppo e, per ironia della sorte, nella stragrande maggioranza dei casi (l’83 per cento) in quegli stati che registrano i livelli di emissioni più bassi al mondo”.
L’approccio distributivo permette di collegare la questione climatica all’espropriazione di risorse attraverso il concetto di “debito climatico” che trova le sue radici nella Conferenza di Cochabamba del 2010, organizzata dai movimenti indigeni in risposta alle conferenze istituzionali delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico.
L’ultima sezione del volume è intitolata “Ricomporre la frattura” ed è centrata sulle possibili soluzioni per ridurre le disuguaglianze globali.
Nel capitolo introduttivo “Dalla carità alla giustizia”, Hickel cita il celebre testo di Oscar Wilde, L’anima dell’uomo sotto il socialismo, che in qualche misura riassume l’argomentazione anti-caritativa di fondo del volume e annuncia le cinque idee che porterebbero a una ricomposizione sociale globale: cancellazione del debito estero, democratizzazione delle principali istituzioni economico-finanziarie globali, riforma del commercio internazionale, istituzione di un salario minimo globale, intervento sull’espropriazione nei confronti dei paesi del Sud globale (evasione fiscale, accaparramento delle terre, cambiamento climatico).
Il lettore potrebbe essere tentato di liquidare tali proposte come utopistiche e
irrealizzabili, ma così facendo si perderebbe l’obiettivo del volume stesso che è di definire un orizzonte di azione verso la riduzione delle diseguaglianze, mettendo a sistema analisi e proposte che circolano da tempo all’interno della società civile e degli ambienti accademici critici.
Il vero punto debole di questa serie di proposte è che si muovono ancora una
volta in un quadro globale privo di specificità locali.
Si tratta di idee all’interno delle quali non sembra esserci ‘spazio’ per una prospettiva geografica: ad un’analisi molto concentrata sulle responsabilità degli Stati, corrisponde infatti una proposta che riduce i territori a mero supporto di iniziative istituzionali globali, riproponendo una volta di più la logica che si vuole contrastare.
Il volume appare qui vittima della sua stessa forza: la capacità di mettere a sistema in modo coerente e semplice diverse analisi si traduce in una sorta di riduzionismo economicista radicale che tratta ogni luogo come puro spazio.
La geografia critica dello sviluppo e della cooperazione internazionale ha da tempo proposto interpretazioni più ricche, mostrandosi maggiormente in grado di cogliere la complessità delle relazioni tra soggetti che agiscono a scale diverse.
Commenti
Posta un commento