Vi è motivo di credere che, in una generazione o quasi, il capitalismo non esisterà più: per la semplice ragione che è impossibile mantenere una crescita perpetua e infinita in un pianeta finito.
tratto da "Tactical Briefing"; di David Graeber.
https://www.menelique.com/meneliquefiles/2020/09/menelique_volume0_DIGITAL_GRAEBER.pdf
È normale per gli esseri umani ritrovarsi incapaci anche solo di immaginare un mondo migliore?
Come è potuto accadere?
Gli ultimi trent’anni hanno visto la costruzione di un vasto apparato burocratico per la creazione e la conservazione della disperazione; una specie di macchina gigantesca progettata innanzitutto per distruggere ogni idea di possibile alternativa futura.
Alle sue fondamenta, la vera e propria ossessione dei potenti di impedire ai movimenti sociali di germogliare, fiorire e proporre alternative; affinché quelli che si battono contro il potere non possano, in nessuna circostanza, credere di poterlo sconfiggere.
La manutenzione di tale apparato richiede un esteso numero di corpi di polizia, soldati e celle, macchine di propaganda di ogni immaginabile forma e varietà; diversi sistemi di sicurezza privata, eserciti, molti dei quali non attaccano l’avversario frontalmente ma producono un intenso e penetrante clima di paura, di conformità sciovinista, unitamente ad una semplice ma costante angoscia capace di rendere ogni pensiero di cambiamento una pigra fantasia.
La manutenzione di tale macchina sembra addirittura più importante, per gli esponenti del “libero mercato”, della stessa manutenzione di un’economia di mercato sostenibile; sul piano economico, questo apparato è un peso morto: tutte le armi, le camere di sorveglianza, le macchine di propaganda sono strumenti estremamente costosi e non producono nulla, anzi trascinano il sistema capitalistico e probabilmente anche la Terra stessa, ancora più a fondo.
Questo apparato esiste per stracciare e polverizzare l’immaginazione umana, per distruggere ogni possibilità di pensare ad alternative future.
Il risultato?
La capacità di pensare unicamente ai soldi e ad altri soldi; e impennate di debiti totalmente fuori controllo.
Cos’è in fondo un debito, se non una valuta immaginaria il cui valore può essere monetizzato e realizzato solo in futuro?
Profitti futuri, ovvero il ricavo dello sfruttamento di lavoratori non ancora nati: il capitalismo finanziario è la compravendita di quegli immaginari profitti futuri.
Non appena qualcuno presume che il capitalismo durerà per sempre, l’unica forma di democrazia economica che ci rimane da immaginare è quella in cui ognuno è libero di investire sul mercato, di accaparrarsi la propria parte nel gioco della compravendita di quei profitti, sebbene quegli stessi profitti vengano prodotti a nostre spese: "libertà" significa ormai avere il diritto di prendere parte a un processo di schiavitù autoinflitta.
Negli Stati Uniti degli ultimi cinquant’anni, ogni volta in cui sembra ci sia una possibilità di fare passi avanti verso una pace sociale, è accaduta sempre la stessa cosa: l’emersione di un movimento sociale radicale e dedicato ai principi della azione diretta e della democrazia partecipativa, che mira a rivoluzionare il senso stesso della vita politica.
A fine anni Cinquanta, le manifestazioni per i diritti civili, a fine Settanta, il movimento anti-nucleare; questa volta è successo su scala globale, con i movimenti per la giustizia sociale che hanno fronteggiato il capitalismo a viso aperto.
Questi movimenti riescono a essere straordinariamente efficaci; pochi capiscono che una delle ragioni principali per cui il nostro movimento nasceva e moriva in modo così rapido era che aveva raggiunto i suoi obiettivi davvero velocemente.
Nessuno di noi sperava, mentre eravamo occupati a organizzare le proteste a Seattle nel 1999 o al meeting del Fondo Monetario Internazionale a Washington DC nel 2000, che nell’arco di tre o quattro anni, il WTO (World Trade Organization) sarebbe collassato, che le ideologie del libero mercato sarebbero state completamente discreditate, che ogni nuovo patto di mercato ci avessero imposto - dal MIA al patto per le Libere Aree di Mercato d’America - sarebbe stato sconfitto, la Banca Mondiale disinnescata, il potere del FMI su più di metà della popolazione mondiale finalmente distrutto.
E questo è esattamente quanto successo.
Un tempo terrore del ‘Sud del Mondo’, il FMI è ridotto oggi a un guscio in frantumi, pubblicamente insultato e screditato, umiliato nel dover vendere le sue riserve d’oro alla disperata ricerca di nuove missioni globali.
Buona parte del debito del Terzo Mondo era intanto svanito per magia: tutto ciò è stato il diretto risultato di un movimento che ha saputo mobilitare una resistenza globale così efficace che, prima le istituzioni in carica furono screditate e in seguito i governi di Asia e America Latina furono costretti dai loro stessi popoli a scoprire le carte del sistema finanziario internazionale.
Il motivo per cui il movimento stesso andò in confusione fu dovuto al fatto che nessuno di noi aveva mai considerato che avremmo potuto vincere davvero; ma c’era ovviamente un altro motivo: nulla spaventa i padroni del mondo, e in particolare gli Stati Uniti, quanto il pericolo concreto di una democrazia popolare.
Ogni volta che un movimento genuinamente democratico comincia a emergere - nello specifico, uno di quelli basati sui principi della disobbedienza civile e l’azione diretta - la reazione è sempre la stessa: prima il governo si prodiga in concessioni, dopodiché comincia a pianificare tensioni all’estero.
Quel movimento è quindi forzato a trasformarsi in un movimento anti-guerra: il quale, spesso e volentieri, è molto meno organizzato su base democratica e infatti il movimento per i diritti civili fu seguito dal Vietnam; quello contro il nucleare da guerre di proxy a El Salvador e in Nicaragua; il movimento per la giustizia globale dalla “Guerra al Terrore”.
A distanza di anni, riusciamo a intravedere il motivo di quella “guerra”: lo spasmodico e ovviamente inevitabile sforzo di un potere in declino alle prese con la bizzarra trasformazione dei suoi apparati burocratici, delle sue macchine da guerra e del suo capitalismo speculativo e finanziario in un permanente malessere globale; se questa putrida architettura è collassata bruscamente sul finire del 2008, è dovuto almeno in parte allo sforzo compiuto da un movimento, che inebriato dai suoi stessi successi e purgato dalla repressione post 9/11, sembrava essere sparito dalla scena.
Chiaramente, così non è stato.
Ci troviamo di fronte a un’altra resurrezione di massa dell’immaginario collettivo; il problema è che le nostre sensazioni sono state annodate da decenni di implacabile propaganda, e non riusciamo a vederla.
Pensiamo ad esempio al termine “comunismo”; raramente, un termine è stato così pesantemente infangato: il pensiero comune, che accettiamo più o meno istintivamente, è che comunismo significa un’economia di stato, e che ciò sia utopico poiché la storia ci ha spiegato come questo sistema semplicemente “non funziona”.
Il capitalismo, invece, per quanto sgradevole, sembra l’unica opzione possibile, ma in realtà il comunismo ha un significato diverso, ovvero ogni situazione in cui degli individui agiscono in base al principio “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”, che in effetti è il modo in cui agiamo quando lavoriamo insieme.
È lo stesso motivo per cui intere città o Paesi, in seguito a disastri ambientali, crisi economiche o pandemie, si affidano a rudimentali forme di comunismo (potremmo dire, in queste circostanze, che mercati e catene di comando gerarchico sono un lusso che questi Paesi non possono permettersi): più creatività è richiesta, più queste persone devono improvvisare un determinato ruolo, e più egualitaria è la forma di comunismo che ne risulta; è solo quando un lavoro diventa standardizzato e noioso, come nelle catene di montaggio, che risulta più facile imporre forme di controllo autoritarie, addirittura fasciste.
Questo dovrebbe farci capire facilmente quanto i capitalisti non vedano l’ora di ingrassare l’apparato della disperazione con queste straordinarie risorse; il capitalismo ha una ben nota predisposizione a mandare tutto in frantumi e, ogni volta che lo fa, coloro che traggono profitto da questa desolazione devono convincere tutti gli altri che non c’è altra scelta se non quella di accettare doverosamente di incollare di nuovo i pezzi e far tornare tutto come prima.
Questo nonostante il fatto che molti di coloro che finiscono per fare il lavoro di ricostruzione non amano questo sistema, e hanno anzi il vago sospetto che forse un sistema più equo e meno stupido sia possibile, magari più simile alle esperienze di comunismo che vivono nel quotidiano; così, l’ultimo decennio ha visto lo sviluppo di migliaia di associazioni di volontariato reciproco, molte delle quali non sono neanche apparse nei radar dei media internazionali.
Si tratta di piccole cooperative e associazioni, che si estendono fino a enormi forme sperimentali di anticapitalismo, vasti arcipelaghi di fabbriche occupate in Paraguay o Argentina, piantagioni di tè e allevamenti ittici auto-organizzati in India, istituti autonomi in Korea, intere comunità insorte in Chiapas e in Bolivia, associazioni di contadini senza terre, squatters urbani, alleanze di quartiere che sbucano da tutte le parti non appena il potere statale sembra guardare temporaneamente altrove; magari non sono mossi da alcuna ideologia, e molti non sono neanche consapevoli dell’esistenza degli altri, ma tutti questi esperimenti sono senz’altro spinti dal desiderio comune di spezzare la logica del capitale... e molti cominciano a organizzarsi tra loro.
Le “economie di solidarietà” esistono ormai in ogni continente, almeno in ottanta paesi differenti; siamo al punto in cui riusciamo a percepire i contorni di come queste economie possano unirsi su scala globale, creando nuove forme di comuni planetarie per dare forma a una genuina e ribelle civilizzazione.
Queste alternative visibili spazzano via il senso dell’inevitabilità, allontanano l’idea che il sistema deve, necessariamente, essere rozzamente riassemblato sempre nella stessa forma: ecco il perché dell’imperativo di una governance globale che punta a sradicare queste alternative, o quando non è possibile, a silenziarle, per assicurarsi che nessuno ne venga a conoscenza.
Avere la consapevolezza di tutto ciò ci permette di osservare sotto una nuova luce quello che già stiamo facendo: siamo già tutti comunisti mentre collaboriamo a un progetto comune, siamo tutti anarchici quando proviamo a risolvere un problema senza ricorrere a polizia o avvocati, e siamo rivoluzionari quando ci impegniamo in qualcosa di genuinamente nuovo.
Per almeno cinquemila anni i movimenti popolari hanno tentato di ribellarsi ai debiti, e così è stato ben prima che il capitalismo venisse inventato; tutto questo ha un motivo: il debito è il più efficiente mezzo mai creato per rendere moralmente giuste e accettabili delle relazioni basate sulla violenza e su estreme diseguaglianze.
Non appena il trucco smette di funzionare, tutto il sistema esplode; come adesso.
Chiaramente il debito stesso si è rivelato il punto di maggiore debolezza del sistema, fino al punto in cui è andato fuori controllo; un debito permette infinite opportunità di organizzazione, perché un debito in fondo è solo questo: una promessa, e al giorno d’oggi siamo circondati da promesse non mantenute.
Tutto questo sta crollando, rimane solo ciò che siamo capaci di prometterci l’un l’altro, apertamente e senza la mediazione di burocrazie politiche ed economiche; la rivoluzione inizia chiedendosi: che tipo di promesse si fanno libere donne e liberi uomini e come, facendo queste promesse, iniziamo a costruire un altro mondo?
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