tratto da "Dai Caraibi al Mediterraneo.
Con i terroni e i Sud di Miguel Barnet, alla ricerca di un futuro anteriore"; Antonio Allegra intervista Luciano Vasapollo.
È la dimensione collettiva e di classe a pervadere la riflessione di Miguel Barnet sul popolo cubano.
È il suo amore per Cuba e il popolo cubano a fare la differenza.
Può sembrare una frase fatta ma non lo è.
Tale sentimento affonda le sue radici profonde nel tempo e risale fino all’epoca della conquista spagnola, in cui l’idea e la funzione economico-produttiva e politico-sociale dell’America Latina sono state permeate da quell’idea secolare per la quale questo vasto continente non fosse nient’altro che il «cortile di casa» dei colonialisti statunitensi ed europei.
Ma allo stesso tempo proprio in America Latina si sono dipanate le possibili vie d’uscite dalla presunta ineluttabilità delle forme di sviluppo capitalista.
Il percorso di emancipazione dei popoli cui Barnet vuole ridare voce con i suoi studi, è stato lungo e complesso ma ha raggiunto traguardi assai avanzati e radicali, superando le secche delle democrazie parlamentari per delineare infine il progetto di una transizione verso il socialismo, verso il recupero delle autonomie perdute e della dignità dei popoli originari.
Parlare di “popolo” oggi potrebbe far sorgere qualche sospetto…ma solo se non si ha ben in mente cosa significa questa parola in America Latina, o, meglio, nell’America afroindiana, come direbbe Barnet.
Il concetto di popolo è visto molto spesso, a sinistra, come un concetto truffa partorito dalla borghesia per assoggettare le masse contadine e proletarie nel processo di costruzione nazionale.
Ma a differenza delle borghesie, e soprattutto dopo la rivoluzione cubana, per Barnet popolo significa altro: la tradizione indigena e la sua forte carica anticlassista e antimperialista.
Questo è un problema che gli europei possono capire solo con un grande sforzo di immaginazione, perché non hanno mai vissuto quel processo di meticciato e transculturazione che ha vissuto l’America Latina negli ultimi cinquecento anni.
O meglio non ne hanno più memoria, se non per via indotta, cioè scolastica.
Perché un europeo possa averne una vaga idea, dovrebbe risalire alle migrazioni delle popolazioni germaniche verso la fine dell’Impero romano d’occidente.
Per noi meridionali, invece, è più evidente, soprattutto se pensiamo alla presenza della cultura araba in Sicilia, dall’architettura alla toponomastica, dalle usanze familiari a certe forme di organizzazione sociale.
Forse si potrà cominciare a capirne qualcosa nei prossimi decenni, a dir poco, quando l’immigrazione in Europa avrà raggiunto altri livelli.
Ma già ora se ne vedono alcuni effetti…
Ovviamente non si tratta solo di una questione culturale, ma riguarda le formazioni economico-sociali.
Quando, per esempio, l'assetto neoliberista vi si impianta, l'America Latina è ancora una terra coloniale, cioè una terra a cui anche la stessa Europa guarda per le opportunità di mercato che offre, non certo per i chiari messaggi politico sociali che invia.
La dipendenza continua a rappresentare il contesto in cui si approfondisce il crescente controllo transnazionale dei processi di accumulazione nazionale, non solo attraverso la compressione dei diritti del lavoro e dei diritti sociali, ma soprattutto negando l’accesso alla proprietà sociale dei beni comuni.
Gli indigeni in questo caso non sono una sopravvivenza del passato, ma una realtà presente e viva, dannatamente attuale, sia come fonte di sfruttamento che di resistenza.
Ma la rivoluzione cubana ha messo in moto un sistema di pensiero originale e rivoluzionario.
È per queste ragioni che Barnet non slega mai l’analisi antropologica dalla sua radicale connessione con i processi produttivi e di sfruttamento.
Barnet è stato allievo di Fernando Ortiz, un antropologo cubano di fama internazionale che è stato l’inventore di quel concetto di transculturazione che tanta fortuna ha avuto nel campo dell’antropologia.
I suoi studi hanno aperto un mondo non solo su Cuba, ma sull’intera tradizione africana nell’intero continente americano.
Barnet, come dicevo, ha ripreso questi studi e vi ha impresso una forte inclinazione anticolonialista e antimperialista; è proprio questa inclinazione ciò che lo caratterizza di più, come anche lo stesso autore tende a sottolineare quando dice che furono la rivoluzione cubana e l’impostazione martiana di Castro ad aprirgli gli occhi.
In merito al rapporto tra intellettuali e processi rivoluzionari, credo che siano quest’ultimi a determinare l’orientamento degli intellettuali, i quali altrimenti vengono risucchiati nelle spire del “ruolo” ad essi assegnato dal sistema produttivo e culturale vigente, da cui, anche per la loro origine di classe, essi non sanno sottrarsi da soli.
La “funzione” intellettuale (riprendendo una distinzione di Franco Fortini) si differenzia dal “ruolo”, perché la prima è l’uso dell’intelligenza collettiva, cui l'intellettuale partecipa, che si oppone al ruolo di classe che storicamente gli viene assegnato dai gruppi sociali egemoni.
Se usciamo dal contesto europeo e guardiamo al mondo intero, sulla scorta delle analisi di Barnet, siamo costretti a modificare la forma delle nostre impostazioni.
Le popolazioni che hanno un forte legame con la “Madre Terra” si trovano in tutto il pianeta: basti pensare ai nativi nordamericani, alle popolazioni dell’Oceania, agli aborigeni dell’Australia, ai popoli originari del Centro e del Sud America, ai celti del Nord Europa, alla grande tradizione culturale e sociale contadina del Meridione mediterraneo.
Tutte queste popolazioni hanno in comune fra loro l’idea che solo dalla Madre Terra si possono trarre insegnamenti e lezioni di vita.
Resti di un passato remoto o prospettive per un modo diverso di intendere il rapporto tra uomini e natura?
Ci tengo a sottolineare che non si tratta di una prospettiva new age, ma di un’impostazione che oppone all’accumulazione tendenzialmente illimitata del capitale, la limitata disponibilità delle risorse naturali a cui il capitale cerca costantemente di ovviare.
Per dirla nei termini della filosofia greca, si tratta di passare dalla crematistica all’economia, la prima basata sull’accumulazione infinita di ricchezze, la seconda basata sull’uomo, misura di tutto.
Il produttivismo ha impresso una forma al nostro pensiero; i movimenti indigeni, le culture dei “terroni”, ci chiedono di trasformare questa forma, di vedere cose che prima non vedevamo, o che abbiamo smesso di vedere per più di due secoli.
Per intenderci, una delle caratteristiche principali di queste culture è l’idea che "si vive in un mondo non circoscritto alla sola umanità ma anche fiumi, alberi, piante e animali fanno parte del territorio sociale complessivo e devono dunque essere rispettati": un mondo da cui si traggono le ragioni e gli indirizzi di vita.
Le tradizioni comunitarie, le decisioni prese dall’assemblea del popolo, della comunità e dell’insieme delle comunità caratterizzano il paese e quindi anche nella composizione dell’assemblea costituente si deve tener conto di tutte queste situazioni.
Questa maniera di pensare ha modificato il modo in cui intendere la politica: la cittadinanza democratica multiculturale non è altro che il riconoscimento dell’uguaglianza e dell’autodeterminazione tra i popoli e le culture in un governo composto anch’esso in maniera multiculturale.
La cosmovisione e i saperi ancestrali del mondo indigeno e delle popolazioni andine, sintetizzata nel Suma Qamaña in aymara (in spagnolo Vivir Bien) o Sumak Kawsay in quechua (in spagnolo Buen Vivir), si fonda su una relazione armonica e rispettosa tra gli esseri umani e tra questi e gli altri esseri con cui condividono la natura.
Tornando a Miguel Barnet, la sua impostazione è determinata dal suo contatto con le popolazioni indo-africane e dalla loro prospettiva rivoluzionaria aperta da Cuba.
La rivalutazione degli elementi culturali che l’etno-antropologia di Barnet riassume ha senso solo in questa prospettiva.
A noi europei questa impostazione impone un forte “riorientamento gestaltico”, per riprendere un termine della psicologia.
Ciò che si definisce Sud non è, come è ovvio, un concetto geografico, ma un concetto politico-economico.
Esso definisce la posizione di un paese o di una macroregione (che può essere l’America Latina o l’insieme dei paesi europei mediterranei) all’interno del sistema produttivo mondiale.
Questa posizione di dominio economico e politico si esplica attraverso trattati commerciali e politici (siano essi il NAFTA o i trattati europei) che rendono i paesi del “sud” deboli e ricattabili, perché mirano a depotenziare il loro sistema produttivo e a farlo dipendere da quello dei paesi centrali, o del “nord”.
Ancora oggi le relazioni tra Nord e Sud continuano a configurarsi come rapporti di sottosviluppo: si va dalla funzione attribuita ai Sud del mondo quali serbatoi di manodopera per calmierare il costo del lavoro, alla regolazione delle contraddizioni sociali e produttive, alla considerazione di area di vendita, al sostegno redistributivo ad aziende che vedono contrarre i profitti in campi tradizionali.
Questo è certamente il risultato di un rapporto di dominio con vere e proprie caratteristiche di colonizzazione delle aree dei Sud di semiperiferia, nelle quali predominano l’alta disoccupazione, la precarizzazione, il lavoro nero, la povertà, le disuguaglianze socio-economiche trovando così maggiori possibilità di sviluppo proprio quelle attività che meglio si prestano a lavorazioni sottopagate e della delocalizzazione produttiva.
Si tratta di un rapporto di espropriazione/appropriazione e di supersfruttamento del lavoro.
L’avvicinamento e il rafforzamento delle relazioni tra lotte sociali e politiche al centro (come ad esempio in Italia, in Europa e nell'area euro-afro-mediterranea) e quelle in America indo-africana, così come quelle in Iraq, in Palestina e in molti paesi dell’Asia e dell’Africa, sono, pertanto, fondamentali per l’avanzamento dell’antimperialismo.
Il tutto in un unico processo che sappia coniugare la forza del sindacalismo conflittuale in Italia e in Europa, ai movimenti di classe e a tutti i movimenti internazionali di resistenza antimperialista e anticapitalista.
In questo senso, a chi saprà prestare orecchio, queste pagine di Barnet parlano con una lingua politica che mette insieme Europa e America indo-africana, frutto di quella sintesi che ha unito, “traducendoli” (nel senso che Gramsci diede alla parola “traduzione”), la teoria del marxismo con una tradizione culturale indigena dei “terroni” che mantiene una forte istanza liberatrice e, dunque, rivoluzionaria.
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