I nativi hanno molte cose da insegnarci: il rispetto, l’interdipendenza con l’ambiente, il senso di libertà.
tratto da "Storie dell’Eden. Prospettive di ecoteologia"; di Federico Battistutta.
Nonostante il ristretto spazio abitualmente riservato alla preistoria nei manuali scolastici, tale periodo occupa il 99,9% della storia umana.
La prima popolazione di Homo sapiens sarebbe vissuta in Africa in un’epoca anteriore a centocinquantamila anni fa, ma la datazione dei primi esemplari sapiens viene spostata dalle scienze paleontologiche sempre più indietro nel tempo, in seguito ai ritrovamenti che via via vengono effettuati.
I raccoglitori e i cacciatori del paleolitico intrattenevano una relazione equilibrata con l’ecosistema che li circondava e solo in seguito, venendo meno l’articolato coordinamento economico e sociale di quell’età, si diffuse in certe parti del mondo (per poi farlo esponenzialmente) la ricerca affannosa della conservazione e dell’accumulo di beni: quella che viene chiamata “rivoluzione neolitica”.
L’uomo addomesticando gli animali e le piante fini' per addomesticare sé stesso; così quel passato arcaico rifluisce ancora in alcune narrazioni, giungendo sino a noi e prendendo corpo nel mito del paradiso terrestre o in quello dell’età dell’oro.
Anatomia di un errore
Per Rousseau, contrariamente a Hobbes (che motiva la fondazione del potere statuale per garantire la sicurezza agli esseri umani), il bellum omnium contra omnes non appartiene allo “stato di natura”, ma deriva proprio dalla nascita della civiltà.
Il fattore scatenante del decadimento dall'armonia naturale è, per Rousseau, la proprietà privata che produce diseguaglianza, divisione del lavoro, egoismo e asservimento: “I popoli, una volta abituati ad avere dei padroni, non sono più in grado di farne a meno”.
Il cosiddetto progresso è in realtà un regresso, che produce solitudine e incomunicabilità: “Tutti corsero incontro alle loro catene credendo di assicurarsi la libertà”.
Il motivo del peccato originale viene ripreso da Rousseau e secolarizzato, divenendo così un “peccato sociale” collocabile all'inizio della storia e dentro il suo drammatico svolgimento.
Il solo progresso, per Rousseau, è il ritorno alla natura: “La natura ha fatto l'uomo felice e buono, ma la società lo corrompe e lo rende miserabile”.
Con le parole di Leonardo Boff, è tempo dunque di fare un bilancio e chiederci: "Quando è iniziato il nostro errore?"
La maggioranza degli analisti dice che tutto è cominciato circa diecimila anni fa con la "rivoluzione" del neolitico, quando gli esseri umani diventarono sedentari, progettarono villaggi e città, inventarono l’agricoltura, cominciarono con le irrigazioni e l’addomesticamento degli animali.
Preindustriali e nativi
Non solo Hobbes, sono in molti, anche oggi, a non concordare con le tesi
rousseauiane circa l’esistenza di una ancestrale età dell’oro in cui gli esseri umani potevano vivere in equilibrio con la natura.
Fiero oppositore di questa visione è Jared Diamond, autore di numerose opere divulgative in cui vengono raccolte conoscenze provenienti da diversi rami del sapere, dall’antropologia alla linguistica, dalla storia all’ecologia.
Egli sostiene che da sempre le società umane hanno minato le risorse naturali, sterminando specie e danneggiando l’ambiente.
L’unica differenza fra noi e i nostri avi
risiederebbe nella dimensione, incomparabilmente maggiore, della popolazione e nelle conoscenze tecniche acquisite che possono recare danni superiori a quelli del passato.
Tutto qui.
Diamond intende portare a sostegno alcuni esempi: l’estinzione di alcuni uccelli a opera dei maori in Nuova Zelanda, la scomparsa in Madagascar di rettili, uccelli e mammiferi imputabili alle popolazioni malgasce, la deforestazione dell’isola di Pasqua e un paio di altri casi.
Ma tutti i popoli indicati da Diamond non rientrano nella classe delle civiltà paleolitiche, sia per quanto attiene la datazione storica che sotto il profilo tecnologico e dell’organizzazione sociale.
Per esempio, i maori arrivarono in Nuova Zelanda attorno all’anno 1.000 (d.C.); i polinesiani sbarcarono sull’isola di Pasqua verso il 400 (d.C.) e così via.
In un altro libro, oggetto di critiche da parte di "Survival International" (che difende i diritti dei popoli indigeni di tutto il mondo), l'autore afferma che le società tribali sono più violente di quelle industrializzate e che la maggior parte di questi popoli si trova intrappolata in uno stato di guerra cronico.
Per questo, non solo avrebbero bisogno dell’intervento dello stato per mettere fine ai loro comportamenti violenti, ma addirittura lo apprezzerebbero.
Discorso inquietante: è il vecchio argomento politico di Hobbes e la vecchia retorica della “pacificazione dei selvaggi” posta a fondamento del colonialismo europeo.
Le affermazioni di Diamond, secondo cui la violenza diminuisce con l’avvento dello stato, portatore di pace, hanno anche suscitato l’indignazione degli abitanti papuasi, più volte citati dall’autore nel suo libro.
Lì, dal 1963, le autorità indonesiane (lo stato che in quel caso dovrebbe garantire la pace, secondo il pensiero di Diamond) hanno già ucciso circa centomila papuasi; eppure il libro non ne fa cenno.
Non solo: Diamond sostiene che i popoli nativi (che lui chiama “tradizionali”), sebbene in parte modificati dal contatto con le altre civiltà, vivono ancora come l’umanità visse “fino alla comparsa dell’agricoltura nella Mezzaluna fertile, circa 11.000 anni fa” e che, quindi, queste popolazioni contemporanee forniscono uno spaccato delle società del nostro passato remoto.
Ma una simile idea da tempo è stata messa in discussione da numerosi antropologi, secondo cui non si dovrebbero osservare i moderni raccoglitori-cacciatori, per quanto “primitivi”, come “fossili umani”, poiché anche queste culture e i loro comportamenti si sono evoluti nel tempo, secondo modalità proprie, fino al presente; così come è avvenuto per le altre culture.
Se è vero che i “primitivi” di oggi non sono i “primitivi” della preistoria, è pur vero che lo studio dei popoli nativi ancora presenti ci fornisce informazioni sull’organizzazione delle società di raccoglitori-cacciatori che risultano spiazzanti secondo i parametri che normalmente adoperiamo per definire
gli elementi che costituiscono una compagine sociale: i sistemi di parentela,
i processi formativi, il lavoro, la gerarchia e l’organizzazione interna.
Abitualmente si sente dire che l’economia delle società primitive sarebbe un’economia di sussistenza tale da garantire a malapena lo stretto indispensabile ai suoi membri.
Ma questa lettura presenta un vizio di fondo, vale a dire legge ogni esperienza sociale secondo i parametri adottati dalla società in cui vive colui che interpreta quella “primitiva” (la nostra, quindi), nominata sul campo come modello ideale e misura di tutte le cose.
Per lungo tempo le stesse scienze sociali sono state vittime di un equivoco di questo tipo che le ha condotte a vedere unicamente nel progresso (in primis nel progresso della società occidentale) la tendenza verso cui tutte le culture dovevano essere orientate.
Sotto questo aspetto l’antropologia culturale sta svolgendo un ruolo primario in direzione di uno sguardo differente, verso un capovolgimento di prospettiva.
Un antropologo come Marshall Sahlins, per esempio, che ha approfondito il settore degli studi riguardanti i “primitivi contemporanei”, insiste nel parlare dell’esistenza di una “ricchezza originaria”, di “un’economia dell’abbondanza” propria delle popolazioni sviluppatesi sul modello dell’età della pietra, dove l’uomo può vivere in un habitat che gli offre tutto ciò di cui necessita, senza dover accumulare beni.
Il ragionamento di Sahlins è il seguente: gli aborigeni australiani o i boscimani, una volta reputato di aver raccolto sufficienti risorse alimentari, interrompono la caccia o la raccolta; per quale motivo dovrebbero faticare nel procacciarsi ciò che eccede il consumo del momento?
Perché le popolazioni nomadi dovrebbero sforzarsi a trasportare da un luogo all’altro ingombranti e pesanti provviste quando “le scorte sono nella natura stessa”?
La loro economia non è interessata alla produzione di un’eccedenza, ma è commisurata alla soddisfazione dei bisogni dei membri della società e pertanto può ben essere definita nei termini di un’economia dell’abbondanza.
Anzi, a dirla tutta, Sahlins osserva che in questi gruppi sociali l’economia, come attività separata, parcellizzata, propriamente non esiste.
Queste società non sono incentrate sull’economia e sul lavoro, ma assegnano a entrambi un limite ben stabilito da non oltrepassare, poiché in caso contrario l’economia e il lavoro si rivolterebbero contro la società.
Per questo un altro antropologo, Pierre Clastres, aveva affermato che “le società primitive sono delle ‘macchine’ anti-produzione”.
Non solo.
Diversi antropologi hanno compiuto studi sull’apprendimento del comportamento cooperativo presso queste popolazioni, volto alla dissuasione delle modalità aggressive, le quali altro non sono che tratti caratteriali culturalmente programmati, non sempre necessari, né sempre presenti nel comportamento umano.
Presso alcune di queste società sono scoraggiati l'orgoglio, l’invidia, la competizione, la vanità, finanche la bravura e il successo personale.
Viceversa vengono impartiti un insieme di valori che comprendono la fiducia, la tolleranza, l’interdipendenza e la cooperazione.
La terra su cui vivono è considerata non un luogo da predare o dominare, ma come utero accogliente, da amare, o come un dono, non negoziabile, da parte degli dèi.
È opportuno ribadire che qui non stiamo vagheggiando l’ideologia e il mito del “buon selvaggio”, tanto biasimato oggi, come in passato.
Non sono fantasie romantiche, facciamo riferimento a ricerche e studi antropologici sul campo, ripetutamente compiuti e largamente documentati.
Certamente queste società risultano del tutto prive del comfort e delle infinite sicurezze che la modernità offre, di cui molti di noi non sarebbero disposti a rinunciare; ma ci interessa sottolineare il prezzo pagato per acquisire tali vantaggi.
È bene allora considerare – piaccia o meno – anche sotto questa prospettiva la distanza che separa il nostro mondo da quello “primitivo”.
Etica di partnership
Carolyn Merchant analizza la nascita della scienza moderna, attraverso l’operato di Galileo, Newton, Bacone e Cartesio, mostrando come si sia realizzato il passaggio da una concezione della natura come organismo ad una della natura come macchina.
Potremmo dire che con la scienza moderna si sia compiuto il disegno del dominio e del soggiogamento della natura da parte dell’uomo.
Quello che interessa osservare, nel discorso di Merchant, è l’importanza assegnata dall'autrice alla cooperazione (partnership) tra mondo umano e non-umano, “riconoscendo che la Terra e l’umanità comunicano l’una con l’altra”, trovando proprio in una simile prospettiva “la visione nativo-americana di un sacro fascio di legami e di vincoli”.
Per questo, tutti devono trovare adeguata rappresentanza al tavolo delle negoziazioni con le autorità presenti sul territorio, qualora siano in gioco questioni ambientali pregnanti: alberi, fiumi, specie animali minacciate, gruppi tribali, cittadini attivi.
La comunità umana, secondo Merchant, può fondare una collaborazione sostenibile con le comunità non-umane seguendo alcuni semplici principi, quali il riconoscimento di un’uguaglianza di fondo tra le due comunità, una considerazione etica che non riguardi solo la specie umana e il rispetto sia della diversità culturale che della biodiversità.
L’esito finale è l’istituzione di modalità non gerarchiche e processi relazionali fondati sull’assenza di dominio tra esseri umani e natura non-umana: “Tutti gli umani hanno bisogno di cibo, vestiti, riparo ed energia, ma la natura ha un eguale diritto a sopravvivere”.
Anche qui ci troviamo agli antipodi della convinzione che l’umanità debba soggiogare e dominare la restante realtà vivente.
Non solo.
Adottare un’etica di cooperazione ambientale implica anche l’acquisizione di nuovi linguaggi e di nuove narrazioni con cui dire il ruolo dell’essere umano in natura e nella storia.
Una storia non lineare, complessa, quella a cui pensa Merchant, in parentela con il gioco di forze non umane; nella prospettiva "ecotopica" di una società giusta e post-patriarcale del terzo millennio.
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