Il concetto di Antropocene e il rapporto tra mutamenti sociali e ambientali.

tratto da "Antropocene. Per un’antropologia dei mutamenti socioambientali"; di Franco Lai.


La specie umana, o meglio, la società industriale, non è più considerata un «semplice agente biologico», bensì una «forza geologica» capace di trasformare il pianeta. 

Dato per assodato che l’indicatore di 350 parti per milione di anidride carbonica immessa nell’atmosfera sia una soglia fondamentale per misurare l’impatto delle attività umane nella biosfera, un certo numero di studiosi cerca di individuare il momento storico in cui questo limite sarebbe stato oltrepassato.
Tra gli altri, Bauer ed Ellis non cercano di verificare gli indicatori di impatto (individuati da Crutzen, Stoermer e altri); sembrano, invece, interessati a definire quando sia avvenuta la transizione tra l’Antropocene e la precedente era dell’Olocene. 

Per certi versi questa direzione impressa alla ricerca avviene senza il sostegno di prove empiriche raccolte attraverso le procedure condivise dalla comunità scientifica. 
L’ispirazione che sostiene questo dibattito, quindi, sembra voler fare a meno di una coerente dimensione tecnica e scientifica, secondo quanto potrebbero sostenere, invece, gli scienziati del settore come Zalasiewicz e altri.
Parlare dell’impatto delle attività umane per epoche storiche antecedenti alle scoperte geografiche, al colonialismo e alla rivoluzione industriale (con il loro portato di uso di combustibili fossili, incremento della popolazione, ecc.), appare un discorso privo di basi effettuali. 

Infatti, l’impatto delle società umane sul pianeta diventa non più sostenibile e incomincia a produrre trasformazioni a partire dalla formazione degli imperi coloniali e dallo sviluppo delle economie industriali. 
Successivamente, con l’industrializzazione (a cominciare dalla rivoluzione inglese del Settecento) e l’uso di fonti energetiche fossili come il carbone, l’espansione dell’economia capitalistica e la crescita accelerata della popolazione, si può assistere a trasformazioni importanti degli ecosistemi terrestri. 

Gli studiosi che ritengono di anticipare gli esordi dell’Antropocene al periodo neolitico, se non addirittura al paleolitico, compirebbero, dunque, una forzatura. 
Alcuni sostengono che gli inizi dell’Antropocene siano individuabili settemila anni fa; altri tra dodicimila e quindicimila anni fa; qualcuno ritiene persino che tutto abbia inizio con l’acquisizione del fuoco 1,8 milioni di anni fa. 

Ritengo che avrebbe più senso datare l’inizio dell’Antropocene al 1610 come fanno Lewis e Maslin, oppure alla nascita dell’era atomica nel 1945, come sostengono McNeill e Engelke. 

Insomma, è solo dall’epoca del decollo della rivoluzione industriale che si assiste a un progressivo impatto delle emissioni di gas serra. 
Queste avrebbero raggiunto la quota di 280 parti per milione agli inizi dell’industrializzazione inglese per raggiungere nel 2017, circa 250 anni dopo, la soglia di 406 parti per milione.

Per quanto riguarda la discussione sul sistema politico-economico-tecnologico che ha prodotto la nuova era geologica, ritengo che tra le più interessanti posizioni nel campo delle scienze sociali ci sia quella di Jason Moore, che propone la definizione di «capitalocene».
Seguendo il suo discorso, le origini della nuova era geologica dovrebbero essere individuate nel secolare processo storico di sviluppo dell’economia capitalistica su
scala globale a partire dal Cinquecento; da qui il neologismo di «Capitalocene»: "La questione non è quella dei determinanti antropogenici (...) ma è quella dei rapporti di capitale e del potere capitalistico. 
Il problema non è l’Antropocene, ma il Capitalocene".

Nel discorso di Moore è evidente il rapporto con il pensiero di Immanuel Wallerstein e di Fernand Braudel a proposito della formazione di una dimensione planetaria della «ecologia-mondo» in parallelo alla formazione, sviluppo e consolidamento del «sistema-mondo» e dell’economia-mondo capitalistica.
In questo modo lo studio dell’Antropocene si lega all’espansione coloniale europea e al drenaggio delle risorse naturali nelle regioni coloniali, insieme al controllo delle fonti di energia fossile costituite dal carbone e dal petrolio. 

Ma i riscontri, secondo gli studiosi del clima, non possono che essere quelli sperimentali, capaci di offrire le prove materiali. 
A questo riguardo, Lewis e Maslin ritengono che sia centrale l’individuazione di «marcatori sincroni globali», cioè un insieme di elementi riscontrabili in una vasta area durante lo stesso periodo storico. 
Essi devono essere correlati in modo significativo e «nel modo più diretto all’attività umana che modifica il sistema Terra in quel periodo», in modo da poterli utilizzare come un «chiodo d’oro che segna l’inizio dell’Antropocene». 
Gli elementi che caratterizzano in modo inequivocabile questi marcatori possono essere riscontrati nei sedimenti di tre diverse e importanti aree polari, temperate e tropicali. 
Nella ricerca di Lewis e Muslin emerge che questi marcatori risalgono al 1610, fase nella quale diventa chiaro l’impatto della colonizzazione europea nel Nuovo Mondo.

Secondo McNeill ed Engelke, invece, la «Grande accelerazione» delle trasformazioni degli ecosistemi su scala planetaria avrebbe avuto inizio nel 1945.

La progressiva crescita cui si è assistito dal 1945 è stata tanto rapida da prendere il nome di «Grande accelerazione». 
L’accumulo di anidride carbonica
nell’atmosfera, dovuto ad attività umane, si è verificato per tre quarti della sua entità nel corso delle ultime tre generazioni. 
Il numero di veicoli a motore presenti sulla Terra è cresciuto da 40 a 80 milioni.
Gli abitanti del pianeta sono triplicati e il numero di quanti vivono in città è passato da 700 milioni a 3,7 miliardi. 
Nel 1950 la produzione mondiale di plastica ammontava all’incirca a un milione di tonnellate, ma nel 2015 si è arrivati a 300 milioni.
Processi accelerati e fuori controllo potrebbero essere indotti, secondo Luciano Gallino, anche dall’«iperconsumo» di risorse compiuto dall’economia capitalistica neo-liberista con l’estrazione di valore dalle risorse disponibili nella biosfera. 
Dato che sembra caratterizzarsi come «civiltà della crescita economica senza limiti», si può pensare che questo processo possa provocare «improvvisi mutamenti non lineari, con possibili esiti catastrofici».

Nelle serie storiche costruite dagli scienziati è possibile vedere come negli ultimi due secoli circa è avvenuta una decisa impennata delle emissioni di anidride carbonica. 
Questa forte impennata imprime al grafico la forma di un «bastone da hockey». 
I dati raccolti tra il 1958 e il 2017 presso l’osservatorio di Mauna Loa (isole Hawaii) confermano questo enorme incremento di anidride carbonica nell’atmosfera. 
Dagli anni Ottanta in poi le emissioni superano la soglia critica delle 350-400 parti per milione. 
Il contributo che alcuni paesi dell’Asia hanno impresso all’andamento delle emissioni è dovuto alla delocalizzazione proveniente da Europa e Stati Uniti; un fatto che ha reso la Cina una delle più importanti regioni manifatturiere del pianeta. 
Il ruolo fondamentale delle emissioni di origine industriale appare, dunque, un fatto
acquisito. 
Un processo che ha origine quindi all’interno di un sistema, come quello capitalistico, che ha precise caratteristiche storiche, politiche, economiche e tecnologiche. 
Un fatto ormai dato per acquisito è proprio quello rappresentato dalle basi energetiche di questo sistema produttivo e tecnologico in cui la responsabilità del carbone e del petrolio riguardo al mutamento climatico trova un consenso assai vasto.

In campo antropologico Eriksen ha sottolineato che i fattori principali che
caratterizzano l’Antropocene sono quelli alla base del «doppio legame» tra crescita e sostenibilità (incremento di popolazione, aumentato fabbisogno di energia, ecc.). 
Il raggiungimento di un punto in cui il rapporto tra crescita e sostenibilità diventa critico è evidenziato anche in tutti quei casi in cui l’estrazione e la produzione di carbone e di petrolio creano condizioni sanitarie pericolose per la popolazione ed effetti dell’inquinamento evidenti nel territorio, tali da pregiudicare l’agricoltura, il turismo e la tutela ambientale. 
È il caso, ad esempio, della centrale a carbone di Brindisi, dell’estrazione di petrolio in Basilicata, dell’industria petrolifera in Sicilia.
Sassen ha evidenziato, con serie di dati e di cartografie, come le attività industriali, minerarie, ecc. possano produrre vaste zone di crisi sanitaria e ambientale dovute a inquinamento da piombo, cromo, elementi radioattivi provenienti da incidenti nucleari, ecc. 
Anche i nuovi metodi di fratturazione idraulica e l’estrazione di carbone ottenuto con lo sbancamento di rilievi collinari o montuosi sono alla base di estesi effetti ambientali sul territorio. 
Questa attività ha reso molto critica la vita in vaste estensioni di territorio interno e costiero, inquinando i suoli e le acque. 
A questo scenario si aggiunge la produzione di rifiuti che rendono necessario lo smaltimento di materiali provenienti da manufatti dell’elettronica di consumo, dalle auto, ecc.

Il titolo del mensile «le Scienze» (aprile 2019) ci dice che siamo in presenza dell’«ultima chiamata». 
Occorrerebbe “fare presto”, fermarsi prima che si arrivi a un punto di non ritorno (situato tra il 2050 e il 2100). 
Ma molti dei processi di mutamento avvengono nella lunga durata, ad una scala temporale che oltrepassa quella della vita individuale. 
Alcuni fenomeni sono visibili ai nostri occhi ma altri sono percepibili solo con gli strumenti scientifici.
Ad esempio, lo scioglimento dei ghiacci è un processo visibile da anni per chi vive nelle zone di montagna o nelle regioni polari, ma il suo impatto sul livello del mare è percepibile con precisione solo con la strumentazione scientifica e con un monitoraggio costante nel tempo. 

Per concludere, l’idea che il concetto di Antropocene rappresenti una sfida per le scienze sociali e, in particolare, per la ricerca antropologica è diventata assai forte. 
Un intero apparato sociale e politico, economico e tecnologico, quello del capitalismo e dell’industrialismo contemporaneo, da oltre due secoli produce un impatto sempre più forte sugli ecosistemi; spesso esponendo le popolazioni e gli altri esseri viventi a pericoli per la salute e per l’ambiente. 
Un impatto, ci dicono gli scienziati, talmente forte da avere negli ultimi decenni manomesso gli equilibri climatici. 
Gli scienziati sociali hanno una conoscenza capillare dei processi storici e sociali, ma per capire i loro effetti è necessario rivolgersi alla letteratura scientifica nel campo delle scienze biomediche, della Terra e del clima. 
Anche gli scienziati, d'altra parte, riflettono sempre di più sulle basi storiche e sociali dei processi ambientali, con un monitoraggio continuo dei dati sul mutamento climatico e sugli effetti delle attività umane nella biosfera. 
Si ritiene necessario, insomma, che la discussione sull’Antropocene emerga da una stretta collaborazione tra i due settori delle scienze; da una parte quelle interpretative, dall’altra quelle sperimentali.

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