La crescita del metabolismo sociale (flussi di energia e materiali) e l'abbondanza di conflitti ambientali sono due facce della stessa medaglia.
tratto da "La difesa dell'ambiente e le mobilitazioni della società civile. Una sociologia delle assenze?"; di Joan Martinez-Alier.
Il termine “giustizia ambientale” è stato introdotto all'inizio degli anni '80 negli Stati Uniti per descrivere le lotte di tante comunità afro-americane, latine e nativo-americane contro il "razzismo ambientale".
Queste lotte si basavano sul fatto che le comunità di "persone di colore" fossero soggette in modo sproporzionato a livelli più elevati di danno ambientale rispetto ad altri gruppi sociali.
La crescente preoccupazione per gli oneri ambientali ineguali e la crescente evidenza della loro sovrapposizione con altre forme di ingiustizia, sia razziale che economica, ha portato alla nascita di campagne di base per i diritti civili e per la giustizia ambientale da parte di "gruppi di minoranza".
L'Atlante per la giustizia ambientale (EJA) raccoglie invece i conflitti in cui sono coinvolte popolazioni maggioritarie, spesso appartenenti a comunità BIPOC, che comprendono la maggioranza della popolazione dei rispettivi paesi.
L'acronimo sta per "neri, indigeni e persone di colore".
L'enfasi sulla giustizia ambientale nasce non solo dall'osservazione empirica di tanti conflitti in tutto il mondo, ma anche da una critica dell'incapacità del ragionamento economico di tener conto dei danni all'ambiente.
L'attenzione macroeconomica al PIL è estranea ai conti del metabolismo sociale in termini di energia e materiali (anche al lavoro domestico non retribuito), mentre la microeconomia nasconde i danni ambientali sotto la parola esternalità.
Questo riporta al dibattito degli anni 1920 e 30 sulla incommensurabilità dei valori, quando, sfidati da Otto Neurath e Karl Polanyi, i liberali di mercato come Hayek e Ludwig von Mises affermarono che i meccanismi di mercato avrebbero stabilito in modo convincente le priorità sociali.
Neurath aveva invece fatto esplicito riferimento a ragioni ecologiche per la sua sfiducia nei confronti del mercato, enfatizzando piuttosto la contabilità fisica.
Più tardi, nel 1950, Kapp scrisse che "le esternalità non sono fallimenti di mercato ma successi di spostamento dei costi"; migliorano il conto profitti e perdite delle imprese private.
La giustizia ambientale come "decrescita nella pratica"
L'economia mainstream fornisce gli argomenti principali alla politica (spesso camuffata da tecnocrazia apolitica), in termini di politiche di aumento del PIL.
Ma l'economia tradizionale sta perdendo il suo fascino: la critica ecologica lo erode.
La crescita economica è mal misurata.
L'accumulazione di capitale implica, in larga misura, dissipazione di energia e materiali, aumento delle emissioni di anidride carbonica e perdita di biodiversità.
I danni ambientali non sono e non possono essere conteggiati solo in termini monetari e non sono stati ancora sufficientemente conteggiati in termini fisici.
Già alla fine degli anni '60 e '70, economisti (proto)ecologici come Kenneth Boulding, Georgescu-Roegen o Herman Daly avevano messo in discussione la visione convenzionale della crescita economica.
In Limits to Growth, del 1972, Dennis e Donella Meadows avevano concluso che le continue tendenze nell'uso delle risorse e nella produzione di rifiuti avrebbero portato al collasso socio-economico.
Nato sulle orme di questi autori, quello della Decrescita, della Post-crescita (o della Prosperità senza crescita) è oggi un movimento di attivisti e intellettuali, principalmente europei, con una visione alternativa alle relazioni socio-ecologiche capitaliste.
In quanto corrente di pensiero e movimento sociale, intende offrire una strategia di ridimensionamento volontario della produzione materiale, del consumo e dello spreco; per una prosperità socialmente equa e globalmente giusta che definisca il benessere umano in termini non-espropriativi della vita.
Ma questo movimento per la Decrescita è ancora relativamente piccolo.
Nonostante tragga ispirazione da pensatori globali e nonostante l'interesse per le realtà "pluriverse" come Sumak Kawsay, Ubuntu, Swaraj ecologico e altri in Asia, Africa e America Latina, esso ignora ancora la vera geografia della resistenza socio-ambientale.
I suoi esempi di un futuro senza crescita economica sono di solito tratti dal Nord. Questo movimento non si preoccupa molto delle miriadi di lotte per la giustizia ambientale in tutto il mondo, ne' delle loro sconfitte o successi né delle centinaia di vittime.
Il movimento è impegnato nei paesi ricchi, in esperienze neo-rurali locali e gruppi di baratto, banche del tempo, occupazioni urbane ed altre pratiche coraggiose, volte alla ricerca di una vita che non abbia la crescita economica come agente del proprio destino.
Tuttavia, nelle parole di Giorgos Kallis, il piccolo movimento per la Decrescita in Europa troverebbe “alleati naturali nei movimenti contro l'estrazione e per la giustizia ambientale nel Sud del mondo (movimenti che affrontano in pratica, più che in teoria, la crescita dell'insaziabile metabolismo che sostiene il modo di vita imperiale) così come tra gruppi indigeni che professano valori di condivisione, sufficienza e proprietà comune, nella propria lingua e con i propri significati”.
In altre parole, i movimenti che fermano o cercano di fermare le industrie estrattive e lo scarico dei rifiuti sono ovvi alleati del piccolo movimento post-crescita o decrescita in Europa.
Esiste dunque una visione alternativa e collettiva che emerge da miliardi di persone coinvolte in conflitti ambientali in tutto il mondo, questi movimenti sono promotori e praticanti di economie meno insostenibili.
A volte gli autori che vivono nel Nord mettono tali visioni e azioni alternative ai “margini”.
Ma queste regioni periferiche non sono marginali, sono centrali in termini di approvvigionamento di materiali ed energia per l'economia mondiale.
Sono le frontiere più calde dell'estrazione di materie prime per gas naturale, uranio, petrolio, minerali di ferro, carbone, rame, nichel, terre rare e legno, carne, soia.
Gli oceani "marginali", i principali assorbitori di carbonio, si stanno acidificando mentre si continua a sfruttare eccessivamente la pesca.
L'Artico e l'Amazzonia sono e saranno centrali per l'economia mondiale.
I saldi commerciali fisici delle regioni economiche metropolitane (importazioni fisiche maggiori delle esportazioni) raccontano parte di questa storia di centri dipendenti dalle periferie e di uso sproporzionato di funzioni ecosistemiche non pagate.
Se l'impalcatura ideologica della crescita cerca di organizzare l'economia attorno agli interessi del capitale (valore di scambio), attraverso l'accumulazione (dei profitti) e la mercificazione, la decrescita richiede invece che l'economia sia organizzata intorno al soddisfacimento dei bisogni umani (valore d'uso) attraverso la demercificazione.
La decrescita si oppone anche allo sfruttamento del lavoro e delle risorse, così come alle ideologie razziste che vengono schierate a tal fine.
In questo senso la decrescita riguarda anche la decolonizzazione.
La rabbia del Sud del mondo è potenzialmente molto più efficace delle esperienze locali di decrescita nei paesi NATO.
I movimenti mondiali per la giustizia ambientale fermano miniere, oleodotti, piantagioni e industrie inquinanti, comprese centrali nucleari e depositi di rifiuti.
Mantengono i combustibili fossili sottoterra.
Lottano contro l'estrazione di rame, nichel o litio e contro l'accaparramento di acqua e terra.
Entrambi i movimenti (decrescita e giustizia ambientale) devono unirsi.
I protagonisti dei movimenti per la giustizia ambientale in tutto il mondo, soprattutto nel Sud, sono poveri rurali e urbani, popolazioni indigene, contadini, pescatori, pastori, cittadini, a volte anche gruppi ambientalisti locali e internazionali, lavoratori industriali, scienziati e professionisti, funzionari del governo locale e membri di gruppi religiosi.
È improbabile che la maggior parte di loro abbia sentito parlare di decrescita, ma esercitano una "decrescita nella pratica".
Questi poveri vivono alle frontiere dell'estrazione delle merci e dello smaltimento dei rifiuti, dello scontro tra crescita economica e ambiente.
Si tratta di conflitti ecologici distributivi che coinvolgono linguaggi di valutazione incommensurabili.
I partecipanti a tali conflitti esprimono una pluralità di valori, (ecologici, sacrali, di sussistenza, economici) che non sono commensurabili.
Non possono essere espressi semplicemente come esternalità in termini monetari.
È in reazione a questo che, spesso, nasce un ambientalismo dei subalterni e degli oppressi.
Una certa resistenza è presente anche nel Nord del mondo, ad esempio nelle manifestazioni di Ende Gelände (o movimento Lützerath bleibt nel 2023) contro l'estrazione di lignite in Germania, o in Francia contro l'aeroporto di Nantes, o altrove contro altri inutili progetti.
I protagonisti e le cause materiali dei conflitti ambientali
Esiste un ambientalismo dei poveri e degli indigeni?
La nostra ipotesi è che esista un movimento mondiale (o meglio movimenti) per la giustizia ambientale, nato come reazione alla crescita e ai cambiamenti del metabolismo sociale (cioè dei flussi di energia e materiali nell'economia e la ricerca di questi input) alle frontiere di estrazione delle merci.
È un movimento che lotta anche contro l'incidenza sproporzionata e diseguale dell'inquinamento (che mobilita le comunità situate all'estremità ricevente del flusso di tossine).
È un contro-movimento nel senso inteso da Karl Polanyi.
I soggetti coinvolti in questi conflitti sono promotori ed operatori di economie più sostenibili, anche quando motivati da ragioni puramente locali.
Tali movimenti per la giustizia ambientale hanno partecipanti di vario genere (organizzazioni locali per la giustizia ambientale insieme a cittadini, contadini, gruppi indigeni…).
Si impegnano in diverse azioni di protesta secondo le loro modalità di conflitto. Mostrano la loro iconografia sotto forma di slogan, striscioni, canzoni, volantini, materiali audiovisivi e documentari, con molti punti in comune ma anche differenze culturali.
Perché ci sono così tanti conflitti ambientali?
Alcuni politologi sottolineano una governance difettosa, la mancanza di istituzioni partecipative del processo decisionale in cui le società estrattiviste, l'amministrazione statale e le comunità locali possano raggiungere accordi reciprocamente vantaggiosi.
Gli economisti tendono invece a sottolineare la mancanza di meccanismi di compensazione monetaria per le potenziali esternalità negative, ragione per la quale le popolazioni locali sarebbero restie ad accettare i progetti di investimento.
Una prospettiva più ecologica si basa invece sul grande divario metabolico (o rottura di circolarità) di qualsiasi economia industriale e sul commercio ecologicamente diseguale.
Il grado di circolarità dell'economia industriale è infatti molto basso.
Da qui la ricerca continua di nuovi materiali e fonti di energia alle frontiere estrattive.
Ciò dà luogo a conflitti, ad esempio sull'estrazione di sabbia e ghiaia (per l'industria del cemento) o sull'estrazione, il trasporto e la combustione di carbone, petrolio e gas, nonché sull'eccessiva produzione di anidride carbonica.
Dà origine anche a conflitti sull'approvvigionamento di biomassa (sotto forma di accaparramento di terre) e sull'estrazione di metalli, compresi quelli per la "transizione energetica".
L'economia non è circolare: è sempre più entropica.
L'energia della fotosintesi del lontano passato, i combustibili fossili, viene bruciata e dissipata.
Anche senza un'ulteriore crescita economica, l'economia industriale avrebbe comunque bisogno di nuove forniture di energia e materiali, estratti dalle "frontiere delle merci", producendo anche più rifiuti (comprese quantità eccessive di gas serra, e molti altri tipi di rifiuti tra cui ad esempio i rifiuti radioattivi provenienti dall'industria dell'energia nucleare).
Pertanto, sorgono continuamente nuovi conflitti ecologici distributivi (EDC).
Tali EDC sono anche conflitti tra narrazioni che mostrano valori plurali incommensurabili.
La crescita economica, i cambiamenti del metabolismo sociale e l'aumento dei conflitti alle frontiere dell'estrazione delle merci e dello smaltimento dei rifiuti, sono dunque due facce dello stesso problema
Le richieste di giustizia ambientale non provengono oggi da una minoranza ma dalla maggioranza dell'umanità, le loro lamentele però non sono visibili socialmente; così, per fare ricerca sulla giustizia ambientale sarà necessario praticare una “sociologia delle assenze”.
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