La crisi climatica diventa, al tempo stesso, una questione di sicurezza militare e terreno di sperimentazione di nuovi sistemi d’arma e tattiche di guerra.
tratto da "Rompere i fronti, superare i blocchi. Le nostre lotte per una politica di pace"; di ConvergenX.
https://issuu.com/fogliocontrolaguerra/docs/foglio_online
Può l’opposizione alla guerra in Ucraina diventare un punto di convergenza delle lotte che in questi anni abbiamo portato avanti, dentro e contro i processi di ridefinizione della produzione e della riproduzione sociale?
Questa domanda riecheggia di fronte ai limiti contro i quali si stanno scontrando tanto le lotte ecologiste, prese dentro processi che fanno del clima una questione di sicurezza nazionale, quanto quelle anti-militariste, vista la facilità con cui vengono ingabbiate dentro le alternative impossibili della logica di guerra.
Lungo questi sentieri stretti, lotte e processi di opposizione dal basso faticano a costruire un fronte compatto contro i molteplici effetti sociali e politici di un insieme di politiche ecologiche, militari e industriali che si stanno dando dentro e oltre la scala nazionale.
Sappiamo che per allargare questi sentieri
abbiamo bisogno di dotarci di parole, pratiche e prospettive radicalmente nuove; sappiamo che quello ecologico, militare e industriale è oggi un complesso campo di accumulazione del capitale che trova nella guerra l’ambiente in cui prosperare; sappiamo che la costruzione di un discorso condiviso sull’opposizione a questo nuovo regime di accumulazione è oggi una posta in gioco fondamentale della nostra politica di parte.
L’industria militare è uno dei beneficiari diretti di questa guerra proprio per la capacità che sta mostrando di permeare le politiche di diversi governi ben oltre i confini russi e ucraini.
Basta guardare ai profitti che sta accumulando il produttore di armi tedesco Rheinmetall, così come stanno facendo anche altri complessi militari-industriali in giro per il mondo, per confermare
l’attualità del rapporto tra escalation militare e accumulazione di capitale.
La guerra sembra aver ristabilito la centralità dell’industria, mentre impone la propria ecologia di morte e devastazione in cui agli investimenti ‘verdi’ possono tranquillamente affiancarsi quelli nelle fonti fossili.
Basta pensare al RePower EU e alla sua tassonomia “bellica” che mentre pianifica
un futuro di fonti rinnovabili fa rientrare dalla finestra quei combustibili fossili che sembravano in procinto di essere congedati.
Bisogna quindi chiedersi, innanzitutto, quale sia il rapporto tra industria militare, crisi climatica e il modello di transizione ecologica dopo lo scoppio della guerra in Ucraina.
Senza alcun dubbio, questa guerra, come
ogni guerra, inquina e produce devastazione dei corpi e dei territori colpiti direttamente dalla violenza e nocività degli ordigni.
Allo stesso tempo, la vastità dell’impatto della guerra sull’ambiente va calcolato considerando l’incremento delle emissioni
dovuto all’aumento della produttività delle industrie delle armi e, cosa non secondaria, del loro trasporto via terra, via mare e via cielo con mezzi altamente inquinanti.
Tuttavia, sappiamo che il piano delle emissioni nocive (delle cosiddette “esternalità negative”) non è oggi sufficiente per circoscrivere il campo di battaglia in cui vogliamo collocarci, un campo sempre più definito all’incrocio tra politiche ecologiche, energetiche, industriali e militari.
In primo luogo, l’industria militare non è
isolata, ma parte di un complesso sistema che coinvolge ricerca, produzione di componenti elettroniche, approvvigionamento di risorse e logistica, servizi e lavoro.
Basti pensare agli investimenti di Leonardo, che riconvertiranno gli stabilimenti Fiat per produrre materiale bellico e a come l’industria bellica accentui processi di estrazione di risorse che, oltre ad esser valorizzati anche in altri settori (come mostra il caso dei semiconduttori, un settore strategico della stessa transizione ecologica), a loro volta hanno un impatto enorme sulla riproduzione della vita di milioni di persone.
Oppure a quei reparti militari speciali - come il GIS dell’arma dei Carabinieri che verrebbe ospitato nella nuova base militare di Coltano –che, tra gli altri compiti, hanno anche quello di difendere vecchi e nuovi siti estrattivi di fonti fossili per conto di grandi multinazionali come ENI.
Oppure si può fare riferimento ai progetti di ricostruzione dell’Ucraina: il fondo finanziario BlackRock coordinerà gli investimenti, il conferimento e il cronogramma di lavoro del «più grande cantiere del mondo» per una ricostruzione
che avverrà secondo gli standard fissati dall’Unione europea legando immediatamente l’Ucraina a nuove catene del valore fra Stati Uniti ed Europa.
In secondo luogo, casi come quello dei nuovi rigassificatori di Piombino e Ravenna mostrano che la guerra in Ucraina ha cristallizzato un modello diversificato di transizione energetica in cui
l’aumento di investimenti per fonti energetiche “verdi” deve accompagnarsi all’aumento non soltanto dell’estrazione del carbone ma anche di quelle basate sul gas fossile e sul nucleare, che la tassonomia europea delle fonti nocive ha definito “sostenibili” prima dello scoppio del conflitto.
Ed è sempre in questo scenario di guerra e ristrutturazione delle catene del valore che la transizione verde non può più essere compresa come una mera operazione di greenwashing perché costituisce un ingranaggio di competizione tra Stati per il controllo delle risorse energetiche, nonché il terreno di affermazione di politiche nazionalistiche e di processi di impoverimento dei salari rinforzati dal caro bollette e dall’inflazione.
Un processo che non fa che mettere a valore e inasprire le gerarchie razziste e patriarcali, nonché le dinamiche di precarizzazione e di sfruttamento.
La transizione ecologica inaugurata ormai quattro anni fa dall’Unione europea a guida von der Leyen, e poi rinforzata e rilanciata faticosamente a forza di piani e accordi tra Stati dentro e fuori i confini dell’unione stessa, non ha mai promesso un futuro di giustizia climatica.
Tra discontinuità ideologica e intensificazione materiale, la guerra impone la sua ecologia fatta di fossile, estrazioni, investimenti green e militarizzazione della crisi climatica, che oggi è sempre più trattata come un affare di sicurezza strategica mentre le nostre pretese di giustizia vengono messe sotto silenzio.
Possiamo dunque dire che la guerra ha messo da parte ogni ipotesi che la transizione ecologica potesse accompagnarsi a politiche sociali, redistributive e di salute pubblica.
Tutto ciò fa il paio con il nuovo concetto
strategico della Nato, approvato nel giugno scorso, che mette in relazione le tecnologie militari e l’efficienza operativa con i cambiamenti climatici e ambientali.
Il budget del Pentagono, che ha sfondato il muro degli 800 miliardi di dollari, è lo spazio di azione di una governance che coinvolge il Dipartimento della Difesa, il settore FIRE (finanziario, assicurativo, immobiliare), l’industria militare e le politiche energetiche.
Il tutto condito con una retorica da Green New Deal.
La distopia di una produzione capitalistica (non solo del dominio) dell’ambiente e della natura è valutata come una possibilità di valorizzazione del capitale.
Tutto ciò non riguarda solo gli Stati
Uniti.
È un approccio che si riscontra, pur in forme e modi più sfumati, anche nel Global Security Initiative cinese.
È con questa ecologia che ci troviamo oggi costretti a fare i conti, e il nostro ecologismo deve avere l’ambizione di farvi fronte.
Come dimostra l’esperienza di resistenza alle politiche estrattive del governo tedesco a Lützerath, silenziata in nome della supposta necessità di riaprire le miniere di carbone locali, la guerra e la relativa ‘insicurezza’ che produce costituiscono oggi la scusa ideale per intensificare il comando dello Stato e del capitale, dunque anche per forzare decisioni dall’alto che finiscono per indebolire i processi di lotta radicati nei territori.
Così, il radicalismo di decine di migliaia di attiviste e attivisti non è stato in grado di opporsi con efficacia alla chiusura di una miniera di carbone inserita all’interno di un sistema che travalica i confini del territorio limitrofo e che mette in gioco rapporti di forza molteplici, e gli esempi di fronte ai nostri occhi non sono pochi.
È necessario riconoscere e praticare connessioni transnazionali contro i muri alzati dalla guerra, eppure ciò non significa cancellare il ruolo dei territori su cui i processi di mobilitazione cui prendiamo parte trovano il loro innesco e punto di precipitazione.
Contrapporre il locale e il transnazionale ricercando alternativamente nell’uno o
nell’altro la soluzione all’enigma di una politica efficace che non riusciamo più a praticare ha il respiro corto.
Piuttosto, riconosciamo che non c’è territorio che oggi possa dirsi avulso da processi di articolazione del comando capitalistico, patriarcale e razzista transnazionali, e che i percorsi che attiviamo nei luoghi in cui viviamo possono alimentarsi dell’allargamento dei nostri discorsi ad altri soggetti.
Insomma, il rapporto tra locale e transnazionale non riguarda una priorità da assegnare all’uno o all’altro, ma solleva una domanda intorno all’organizzazione, al rafforzamento e alla convergenza delle nostre lotte che non vogliamo smettere di porci.
È necessario, perciò, ripensare il nostro ecologismo e il nostro antimilitarismo consapevoli che il loro intreccio si annoda sul piano politico transnazionale.
Un piano che ci sembra inaggirabile dal momento che la guerra – accelerando e radicalizzando la crisi energetica – comporta progetti di approvvigionamento e di reindustrializzazione che, oltre a ridisegnare la geografia del lavoro, della precarietà e della povertà su linee sempre più segmentate, si muovono lungo catene del valore che più sono messe in pericolo da molteplici fattori di crisi, più stringono la loro presa sulle nostre condizioni di vita e salariali.
Ripensare il nostro antimilitarismo e il nostro ecologismo davanti alle conseguenze della guerra in Ucraina, costruire un’opposizione alla guerra significa affrontare il fatto che questa ridefinisce l’intero settore economico,
finanziario e industriale e scuote la riproduzione sociale.
Per far convergere stabilmente le nostre lotte – o costruirne di nuove – non possiamo sacrificare le specificità delle posizioni eterogenee che si esprimono al loro interno, ma vogliamo fare dell’opposizione alla guerra un terreno di lotta capace di rompere i fronti imposti dal conflitto.
Ci troviamo di fronte al compito di pensare la possibilità di un processo di lotta che riesca a cambiare di segno il rapporto attualmente messo a valore da capitale e governi tra territori e transnazionale, così da innescare processi di soggettivazione che possano far crescere le nostre lotte e la comunicazione politica tra di esse.
Ci troviamo, ancora, di fronte all’urgenza di costruire una convergenza contro l’insostenibile intreccio di politiche industriali, militari ed ecologiche che la guerra legittima.
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