tratto da "Matter matters. Un’introduzione all’ecofemminismo di Maria Mies"; di Ludovica De Joannon.
Il rapporto che le donne intrattengono con il proprio corpo non è guidato da un istinto meccanico e cieco ma da un reticolo di saperi e conoscenze trasmesse nel tempo, articolate nell’esperienza singolare e collettiva, un atteggiamento consapevole e mediato dalla riflessione.
Vale a dire: autodeterminato.
Gli uomini hanno invece storicamente mediato la loro relazione con la natura (o, per meglio dire, dominato questa relazione) attraverso la creazione e l’uso di strumenti utilizzati nel processo produttivo.
Secondo Maria Mies, questo regime di mediazione è stato uno dei modi con cui l’Uomo ha immaginato, proiettato e costituito se stesso come umano - dunque essere produttivo - indipendente e autonomo rispetto alle risorse e ai limiti ecologici.
Ma sono le attività delle donne, tra produzione e riproduzione, a rappresentare la precondizione di qualsiasi altra forma di produzione che si sia data nella storia.
Senza il loro invisibile operato, la creazione di strumenti, lo sviluppo della tecnologia, l’intensificarsi delle capacità produttive sarebbero stati impossibili.
È sul loro sfruttamento che si fonda il “progresso” dell’Uomo, sin dalle origini: la forza produttiva delle donne è la sottotrama di qualsiasi sviluppo e vanto storico dell’Uomo.
Il mito che Mies vuole decostruire è quello che identifica nell’uomo-cacciatore l’inventore dei primi strumenti produttivi; colui che provvedeva al sostentamento dei membri del clan; paladino della sopravvivenza e protettore dei vulnerabili; vero fondatore della società umana e delle rivoluzioni produttive.
Il mito dell’uomo cacciatore ha operato come un dispositivo di legittimazione del dominio dell’uomo sulle donne ed ecco perché tornare alle fonti e metterle in discussione è un procedimento fondamentale per portare a emersione il “continente nascosto” di cui parla Mies.
Riflettere sulla distinzione tra attività maschili (la caccia) e attività femminili (la raccolta) conduce a un’altra indagine che, da qui, considera le modalità con cui uomini e donne hanno storicamente interagito con la natura e le fonti di sussistenza.
Se da una parte la raccolta fa uso di una tecnologia destinata alla produzione e non alla distruzione della vita, dall’altra la caccia rimane un’attività basata su un principio di appropriazione violenta e di dominazione.
La scoperta di poter controllare le forze riproduttive degli animali non umani, di gestirne, controllarne, determinarne la vita a seconda della necessità o della volontà, rappresentò il passaggio da un modello produttivo appropriativo (come era nelle attività di raccolta e caccia, seppur con gradi di violenza differenti) a uno massimamente coercitivo (con la manipolazione dei mammiferi e delle loro attività produttive/riproduttive).
Alle pratiche di manipolazione dei mammiferi e delle loro attività produttive/riproduttive della pastorizia, inoltre, si affiancavano razzie e rapimenti di donne che avvenivano durante le spedizioni di caccia nei territori limitrofi.
Il modello produttivo di predazione degli uomini, basato sul monopolio delle armi, poté diventare “produttivo” soltanto nella misura in cui esistevano altre – principalmente femminili - economie da poter depredare.
Può essere definita una produzione non produttiva (non-productive production).
Quindi, l’accumulazione di proprietà e di ricchezza nelle mani di alcuni si realizzò a partire da questo doppio furto: furto delle armi e furto del lavoro delle donne e delle schiave.
Il potere era sancito dal monopolio delle armi e questo modello non produttivo e predatorio divenne presto paradigma di relazioni di forza e oppressione; di quella storia di schiavitù, sfruttamento e dominazione che connota il patriarcato sin dalle origini.
Analizzando il mito dell’uomo cacciatore durante il feudalesimo e il capitalismo, l’aspetto che Mies mette a tema è come il modello di appropriazione predatoria di tipo patriarcale sia presente, seppur in forme diverse, in tutte le congiunture storiche e in tutte le forme assunte dal modello economico (di volta in volta) dominante.
Questo avvenne, per esempio, rispetto al possesso delle donne.
Dapprima garantito dalle razzie e dalla schiavitù forzata che ne conseguiva, questa proprietà si disciplinò poi nel dispositivo dell’ipergamia (hypergamous marriage systems) che rese disponibili più e più donne-beni, creando le condizioni favorevoli all’accumulazione di ricchezza.
L’asimmetrica divisione del lavoro basata sul sesso, una volta stabilita attraverso modalità violente, è stata poi confermata dalle istituzioni come la famiglia patriarcale e lo Stato nonché da potenti sistemi ideologici, primi fra tutti le religioni patriarcali, la legge, la medicina, che definirono le donne come parte della natura, controllata e dominata dall’uomo.
È proprio in questi anni dell’accumulazione originaria che i processi di naturalizzazione e istituzionalizzazione della violenza si stabilizzarono con forza penetrante.
I soggetti legati al lavoro rurale erano assimilati alla terra stessa: donne, contadini e contadine, su cui il padrone esercitava il proprio dominio.
I loro corpi, destinati al lavoro produttivo e riproduttivo, non erano distinti dai campi e dalla terra e, come loro, divenivano proprietà diretta del signore di turno che, nonostante il maggiore disciplinamento dei rapporti di produzione, sopprimeva le rivolte e le ribellioni con la forza militare.
I rapporti di produzione, dice Mies, si mantenevano attraverso «il monopolio dei mezzi di coercizione di cui godeva la classe dominante».
Di fronte a un simile scenario di trasformazione delle forme di relazione, produzione e potere, il nuovo proletariato europeo, consapevole della propria condizione e animato dal senso di ingiustizia, lottò contro la coercizione dei proprietari terrieri, mutando profondamente i rapporti politici, sociali ed economici tra le parti.
Ovunque, i beni comuni sono stati così importanti per l’economia e le lotte politiche della popolazione rurale medievale che il loro ricordo eccita ancora la nostra immaginazione, proiettando la visione di un mondo in cui la ricchezza è condivisa fra tutti e la solidarietà, e non il desiderio di prevalere sugli altri, costituisce l’essenza dei rapporti sociali.
Ecco perché le proposte di tipi di vita associata e comunitaria alternativi costituivano, di fatto, un problema non indifferente per il potere dominante, essendo fonti di disordine e scompiglio sociale.
La croce e la spada si trovarono d’accordo nel volere la loro subordinazione.
Nel tardo medioevo, i segnali di crisi dell’economia feudale furono sempre più nitidi e, nel corso di duecento anni, dalla metà del XV alla metà del XVII secolo, avvenne la transizione al capitalismo.
Nel reticolo delle complesse trasformazioni che modellarono questo lungo periodo, Mies insiste sull’alterazione profonda che maturò nel rapporto tra umano e non umano, umano e tutto ciò che venne posto al di là o al di qua delle sue facoltà: la natura.
Seguendo Caroline Merchant, infatti, Mies afferma: "Mentre le classi dominanti tra i pastori e i signori feudali erano ancora consapevoli della propria dipendenza dalla natura, comprese le donne (che cercarono, quindi, di influenzare con la magia e la religione) la classe capitalista vedeva se stessa, sin dall’inizio, come padrona e signora della natura".
Solo in questo momento si affermò una concezione della natura che generalizzava la relazione di dominazione che l’uomo-cacciatore vi aveva instaurato.
Gli agenti del nascente capitalismo agrario e mercantile potevano contare sia sul monopolio degli strumenti di coercizione (il salario, per esempio) che sul controllo coatto di tutti quei corpi e quei soggetti politicamente invisibili, destinati alla sottomissione e allo sfruttamento (la parte sociale che Mies chiama human cattle, il bestiame umano).
Donne, lavoratori e terre divennero oggetto di un processo di naturalizzazione che, muovendosi su gerarchie, riconoscendo un unico ordine simbolico, disciplinando e silenziando, ne decretava l’asservimento perpetuo.
Nasce allora la Donna dell’occidente borghese che, dal XIX secolo, abita sommessamente la casa.
La abita, senza possederla.
Volutamente declinata al singolare e sotto l’imperativa maiuscola, che esiste nelle immagini, nel desiderio degli uomini e del capitale: la Donna.
Ma sul rogo: una donna.
L’addomesticamento delle donne fu un processo graduale e radicale, celato dagli eufemismi di un discorso creatore di soglie, distributore di ruoli, assegnatore di destini.
Da un lato, la naturalizzazione del lavoro di riproduzione/cura e la dichiarazione dell’«incapacità sociale della donna sposata»; dall’altro, il necessario riconoscimento della fabbrica come vero luogo della socialità e della produzione salariata.
Il passaggio al capitalismo, soprattutto nei contesti rurali, creò una scissione profonda tra il lavoro di sussistenza e il lavoro salariato, tra valore d’uso e valore di scambio.
Mies sottolinea come il passaggio dalla relazione tra il signore e il servo a quella tra il capitale e il lavoro salariato nasconda, in realtà, un meccanismo di violenza strutturale.
L’accumulazione originaria fu possibile soltanto in seguito a un’intricata quanto inesauribile appropriazione indebita e predatoria di corpi, risorse e saperi, legittimata dal processo di naturalizzazione da un lato e civilizzazione dall’altro.
Questa divisione del mondo tra "ciò che è umano e civile e ciò che è naturale e selvaggio" si ritrova in più dimensioni e più soggettività, in forme diverse.
Se, infatti, le selvagge schiave delle colonie rappresentavano una fonte preziosissima di forza lavoro, le donne della nascente borghesia ne rappresentavano la parte addomesticata.
La loro sessualità, le loro forze generative così come la loro autonomia produttiva furono soppresse e strettamente controllate dagli uomini della loro classe, da cui divennero dipendenti per il proprio sostentamento.
La domesticazione delle donne borghesi, la loro trasformazione in casalinghe dipendenti dal reddito del marito, divenne il modello della divisione del lavoro durante il capitalismo.
Si tratta di due processi correlati, complementari e complici nel risolvere il problema della riproduzione, l’esigenza di avere disponibile una forza lavoro generata e rigenerata.
La schiavitù da un lato e la caccia alle streghe dall’altro, infatti, misero sotto il controllo patriarcale la sessualità e l’autonomia dei corpi delle donne espropriate da un insieme di pratiche, conoscenze, luoghi e attività.
La loro sessualità non fu semplicemente cancellata, come se le donne fossero sessualmente passive o completamente asessuate.
Al contrario, è proprio sull’energia sessuale del corpo che si esercitava il potere proprietario dell’uomo che, come un guardiano, ne controlla la purezza, ne garantisce la castità, lo pone in condizione di minorità.
Mies identifica un nesso stringente tra autonomia sessuale e autonomia economica.
Infatti, l’esercizio del controllo di un uomo sul corpo di una donna, di un marito sul corpo di una moglie, di un padre sul corpo di una figlia etc., creava le condizioni ideali affinché soltanto gli uomini potessero accedere a una dimensione adulta della vita, cittadina, libera e indipendente.
Contemporaneamente, famiglia, Chiesa e Stato garantirono l’istituzionalizzazione dei rapporti gerarchici tra uomini e donne, trovando nella romanticizzazione delle relazioni di forza un congegno che li rendesse socialmente accettabili, normali e, dunque, normati.
In conclusione, torniamo alla figura dell’uomo-cacciatore per confrontarla con quella del capitalista.
Infatti, riflettere sulle origini sociali della divisione sessuale del lavoro, per Mies, significa rintracciare quei meccanismi che non solo hanno agito efficientemente in determinati momenti della storia, ma si ripropongono in maniera costante in tutte le fasi di un sistema economico basato sulla violenza, una violenza ormai strutturale e legalizzata.
Così come nelle prime società rurali il lavoro di sussistenza, svolto prevalentemente dalle donne e dai giovani figli, garantiva la sopravvivenza e rendeva possibili le spedizioni di caccia, allo stesso modo è sul lavoro di sussistenza svolto dalle donne e dalle casalinghe - naturalizzato, addomesticato, invisibilizzato - che si basa tutto l’impianto della fabbrica, in uno spazio e un tempo dislocati.
Il cacciatore e il capitalista fanno dell’appropriazione e del furto le proprie gestualità puntuali.
Chi si appropria, possiede.
Chi possiede, controlla ed esercita dominio.
Chi domina, sfrutta.
Dunque, come il capitalista moderno, «l’uomo-cacciatore è fondamentalmente un parassita, non un produttore».
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