La prospettiva del lavoro di cura denuncia le ingiustizie e le invisibilità generate da un sistema in cui esclusione, discriminazione e sfruttamento sono fenomeni strutturanti.
tratto da "La cura come logica di relazione e pratica del valore concreto. Una prospettiva di politica ontologica"; di Laura Centemeri.
Dobbiamo alla sociologa Annemarie Mol l’idea di «logica della cura» intesa come uno «stile» o un modo di azione; una visione attenta alla “complessità”.
La complessità di cui la cura come logica di relazione è espressione, riguarda l’azione stessa, nel senso della “molteplicità” dei modi di agire che uno stesso attore sociale potenzialmente può esprimere.
Ciò vuol dire che ci sono diverse realtà che sono presenti in latenza in una stessa situazione; perché anche se “messa in forma”, la realtà resta comunque sempre in latenza multipla o ambivalente: in questo senso la realtà è sempre «storicamente, culturalmente e materialmente situata».
La cura come vocazione femminile “naturale” e realizzazione ultima della donna-madre è un argomento che ha legittimato, a livello sistemico, lo sfruttamento del lavoro femminile di accudimento e che continua ancora oggi ad operare nell’idea che i compiti di cura siano mansioni di serie B, come dimostrato nei paesi del Nord dalla forte presenza femminile nei settori economici tradizionalmente intesi come di cura e la crescente rilevanza di manodopera immigrata.
Maria Puig de la Bellacasa, però, sottolinea l’urgenza di “reclaiming care”, di recuperare la cura come argomento critico e politico centrale per le lotte contemporanee, rilevante in questioni che hanno a che vedere non soltanto con la sfera della cura tradizionalmente intesa ma anche con la scienza, la tecnologia, l’ecologia, cioè il mondo “più che umano”.
Questo perché la logica della cura implica l’osservazione, l’ascolto, la conoscenza reciproca che viene dall’esperienza del
fare insieme: « nella logica della cura, definire “bene”, “peggio” e “meglio” non precede la pratica, ma fa parte di essa».
La logica della cura è volta a valorizzare la singolarità, cioè a prenderla in conto e a farne elemento rilevante per trovare nella pratica i gesti e le forme adatte a generare un benessere che si definisce come tale nell’esperienza relazionale condivisa.
Questo vuol dire che attraverso la cura si esprime una forma di autonomia, nel senso che non si seguono regole e definizioni imposte dall’esterno ma c’è un’attenzione alla normatività concreta che emerge dalla situazione, a partire dalle interdipendenze vitali e dalla loro configurazione specifica in situazione.
Appunto perché la logica della cura resiste alla traduzione in norme generalizzabili e non può che essere snaturata dalla riduzione a regole generali, la sua integrazione in contesti istituzionali può risultare problematica.
In altri termini, le decisioni prese sulla base di una logica della cura non sono giustificabili in astratto: si giustificano sulla base di un esito trasformativo della relazione, valutabile come positivo a partire dall’esperienza.
Come l’etimologia del termine latino sottolinea, cura è innanzitutto una forma di attenzione, l’attenzione della curiosità ma anche della vigilanza, entrambe necessarie ad accudire e coltivare.
La logica della cura ha una relazione privilegiata con tutto ciò che è vivente, perché nel vivente non esiste normalità, la variazione è la norma e l’osservazione
diretta è una fonte imprescindibile di conoscenza per l’azione.
La cura non è dunque prioritariamente una questione di “affetti per”, cioè di nutrire buoni sentimenti, ma piuttosto di “essere affetti da” cioè di rendersi sensibili, permeabili, vulnerabili e rispondenti all’altro (umano o non umano) e alle sue esigenze di benessere, che sono sempre singolari, cioè espresse in modi che gli sono propri e dipendenti dal contesto.
Come logica di relazione, la logica della cura non ha nulla a che vedere con i registri dello scambio o dell’utilità, ma con quelli del rigenerare, del creare, del convivere.
Molte delle pratiche agricole tradizionali, oggi riproposte come tecniche dagli approcci agroecologici e rigenerativi all’agricoltura si caratterizzano proprio per dare centralità a una logica della cura, cioè a una valutazione che tiene conto delle interdipendenze e della singolarità dei contesti, valorizzando questa singolarità in modi tali da favorire processi autonomi di sviluppo.
L’obiettivo è creare ecosistemi produttivi che permettano di rispondere ai bisogni umani (che però devono essere ripensati in un’ottica di interdipendenza ecologica) limitando gli apporti energetici dall’esterno e la produzione di rifiuti, attraverso l’adozione di soluzioni di progettazione specifiche ai contesti e che sappiano lavorare con i contesti e con le loro singolarità, invece che contro.
Dalla prospettiva della logica della cura, la modernità capitalista appare come il trionfo di un progetto politico-sociale di invisibilizzazione della cura a favore di logiche di relazione che rimandano a una costruzione del valore che ha pretese di validità universale, a partire da un’idea di oggettività intesa come “view from nowhere”.
Viene così affermato un primato morale dell’astratto sul concreto carico di conseguenze, nella misura in cui questa costruzione politica del valore si accompagna ad interventi di trasformazione della materialità, dei corpi e degli ambienti, guidati da un sapere scientifico che viene fatto valere contro altre forme di sapere.
E’ in questi processi che prendono forma vecchie e nuove forme di dominazione, incluse quelle legate alle costruzioni di genere che vanno di pari passo con la costruzione della sfera domestica come separata dalla sfera produttiva.
Parallelamente, l’economia di mercato si costruisce come sfera separata dalla politica, a partire da una visione dell’agire umano come naturalmente basato sulla scelta razionale individuale in vista della
massimizzazione dell’utilità, negando così rilevanza ad altre forme di ragionevolezza
dell’agire.
Questi processi combinati portano a far sì che le pratiche monetarie si facciano più
estese e capillari e con esse la trasformazione della realtà in flussi di merci, servizi, capitali.
Da questa prospettiva il profitto capitalistico non si genera solo a partire dallo sfruttamento del lavoro ma da una più generale configurazione di convenzioni che valorizzano sulla base di astrazioni e che si articolano con forme di monetizzazione sempre più pervasive, che coinvolgono tanto il mondo della produzione quanto quello della riproduzione, con la progressiva scomparsa delle economie di sussistenza e la creazione della sfera cosiddetta del consumo.
Come sottolineato da David Graeber, il concetto moderno di “consumo” ha potuto
affermarsi una volta che «le persone hanno cominciato sempre di più a vedersi come esseri isolati che definiscono le loro relazioni con il mondo non in termini di relazioni sociali ma in termini di diritti di proprietà».
Nel processo che emargina le forme concrete di valorizzazione, a perdere di visibilità e di rilevanza è la logica della cura come principio ordinatore e organizzatore, cioè principio di messa in valore, tanto nelle relazioni sociali che in quelle ecologiche.
A essere oscurata è anche la logica della cura come logica tecnica, che richiede cioè allo strumento, sia esso materiale o concettuale, di adattarsi al contesto piuttosto che di piegare quest’ultimo alle proprie esigenze di applicazione.
La logica della cura rivela come la valutazione oggettiva dei risultati di azioni pubbliche e private, espressi in termini di risultati quantificabili e monetizzabili (gli
obiettivi oggettivi) si basa sulla naturalizzazione di presupposti antropologico-normativi che rendono la valutazione del tutto indifferente alla natura singolare di chi o cosa si valuta, e alla pluralità delle definizioni di ciò che fa valore, con ripercussioni evidenti in termini di politica ontologica.
Su queste basi, la ricerca del plusvalore
combina diverse strategie, incluse quelle che passano dalla violenza materiale e simbolica.
La prospettiva della logica della cura, però, porta a riconoscere anche l’importanza del capitalismo come «potenza astratta di ridefinizione del mondo», la cui forza risiede in parte nella capacità di «incantare» cioè di intercettare desideri e dare risposte che sembrano soddisfarli.
Da questa prospettiva, rivendicare l’importanza della logica della cura vuol dire innanzitutto contrastare la naturalità dell’agire razionale orientato allo scopo e dell’utilità come unico modo di relazione al mondo.
La logica della cura fa esistere un altro tipo di soggetto, la cui autonomia non è intesa come autosufficienza e dominio sul mondo ma come autonomia relazionale che si sviluppa nel rapporto di (inter)dipendenza con altri esseri viventi (umani e non) e con un contesto materiale.
Un’autonomia, cioè, che si esprime nell’assunzione di responsabilità concrete, e in una capacità di rispondere a ciò che mette a rischio un’interdipendenza vitale, in forme che la riparano.
L’approccio della logica della cura, cioè, insiste sulla necessità di una molteplicità di logiche di relazione contro la loro riduzione.
Non definisce, però, una soluzione per come organizzare questa molteplicità in vista del conseguimento di obiettivi condivisi.
Offre degli strumenti utili per organizzare e rendere intellegibile questa molteplicità, mostrando la forza e la debolezza delle diverse logiche, dal punto di vista dei modi di coordinamento che agevolano o ostacolano.
In questo senso, l’approccio alla cura come logica è un approccio critico e insieme «ricostruttivo», nel senso che cerca di offrire degli strumenti di comprensione della complessità, utili per immaginare una nuova cultura relazionale.
Per concludere, penso che sia necessario ragionare nei termini di un’articolazione tra un approccio alla cura come logica e un approccio alla cura come lavoro.
La cura come logica è potenzialmente all’opera in qualsiasi attività di lavoro ed è all’origine di una denuncia delle condizioni sempre più alienanti del lavoro, nel senso di un margine sempre più ridotto lasciato all’autonomia relazionale come principio organizzatore.
Al tempo stesso, il lavoro di cura è in grado di «mettere ordine in un grande racconto disperso nello spazio e nel tempo» facendo emergere un soggetto, le forze di riproduzione.
Un modo per espandere questa critica consiste, allora, nell’allargare la frontiera di ciò che si definisce come lavoro di cura. Esemplare, da questo punto di vista, è l’argomento critico elaborato da Stefania Barca, che allarga la nozione di lavoro di cura, e dunque le soggettività che compongono le “forze di riproduzione”, includendo le pratiche agricole di tipo agro-ecologico, orientate non solo alla sussistenza umana ma anche al mantenimento della biodiversità.
Da qui la proposta politica di istituzione di un “reddito di cura” per remunerare, al di fuori dei meccanismi del mercato, il valore così prodotto.
Però, come ci ricorda Isabelle Stengers, «se il capitalismo fosse messo in pericolo dalla denuncia, sarebbe morto molto tempo fa».
Da questo punto di vista credo sia importante non dimenticare il fatto che la nozione di lavoro non è neutra rispetto all’antropologia a cui si rifà e che l’approccio alla cura come logica invita a riconoscere la molteplicità ontologica e antropologica che è presente nelle nostre società ma sacrificata da linguaggi e categorie che ne impediscono il riconoscimento.
Richiamando la lezione di Ivan Illich, Nicola Capone sottolinea a questo proposito l’interesse della nozione di Oikodomìa, l’arte di ben costruire la casa, che rimanda allo spazio dell’abitare come spazio creato da «un’azione di convivialità» che sarebbe più che riduttivo definire come lavoro.
Infine, penso sia importante non dimenticare che l’ascolto e l’attenzione per come il senso di un’esperienza si costruisce in situazione è necessaria a una pratica politica che voglia cambiare le cose con cura.
Da questo punto di vista, le categorie di “lavoro di cura” e di “forze di riproduzione” genereranno cambiamento nella misura in cui sapranno articolarsi all’esperienza delle persone, senza la pretesa di esaurirne il senso.
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