L'irriducibile socialità della libertà.

tratto da "La riflessione sulla libertà selvaggia di Pierre Clastres" di Roberto Marchionatti.


Il problema del politico

Da dove viene il potere dell’uomo sull’uomo?
Da dove viene il potere politico?

In relazione al problema del potere, avverte Pierre Clastres, l’etnologia ha fatto ruotare le culture primitive intorno alla cultura occidentale, senza prendere sul serio le forme politiche primitive: società senza Stato secondo la concezione tradizionale delle società primitive – «l’assenza di Stato ne segnerebbe l’incompletezza, lo stato embrionale della loro esistenza», come scrive Clastres nel breve ma essenziale La question du pouvoir dans les sociétés primitives. Analoga per molto tempo è stata la situazione riguardo alle forme economiche: un criterio fondamentale applicato tradizionalmente alle economie primitive è stato quello di economia di sussistenza, solo recentemente criticato a partire dall’opera capitale dell’antropologo americano Marshall Sahlins, del cui Stone Age Economics Clastres scrisse un’importante introduzione all’edizione francese.

La medesima prospettiva che fa considerare i primitivi come uomini viventi miseramente, scrive Clastres, determina altresì il senso e il valore del discorso corrente sulla politica e il potere. 

La cultura occidentale pensa il potere politico in termini di relazioni gerarchiche autoritarie di comando e obbedienza, ovvero una relazione di coercizione: ne deriva che le società primitive sono senza, mancanti di, potere politico.
Questo legame potere-coercizione è rifiutato da Clastres, che in un celebre saggio del 1969, Copernic et les Sauvages, poi primo capitolo di La Société contre l’État, scrive: "Non è possibile dividere le società in due gruppi: con o senza potere.
Non è pensabile il sociale senza il politico: in altre parole non vi sono società senza potere".

Ciò che differenzia le società non è la presenza o l’assenza del potere politico, ma la relazione tra sfera politica e società. 

Ma che cos’è il potere politico?
Come e perché si passa dal potere politico non coercitivo al potere politico coercitivo?

Il ruolo della sfera politica nelle società primitive e la filosofia politica dei selvaggi

Sulla base delle informazioni disponibili a partire dal sedicesimo secolo, appare che «e' la mancanza di stratificazione sociale e di autorità del potere, che si deve considerare come il tratto pertinente dell’organizzazione politica della maggioranza delle società amerindiane».
Ciò che si tratta di comprendere è «la strana persistenza di un potere pressoché impotente, di capi senza autorità». 
Queste società, secondo Clastres, costituiscono la loro sfera politica in funzione di un’intuizione: il potere è nella sua essenza coercizione
La trascendenza del potere racchiude per il gruppo un rischio mortale, ed è l’intuizione di questa minaccia che conferisce profondità alla loro filosofia politica. 
Con questa tesi di una filosofia politica selvaggia anti-statalista viene rifiutata quell’immagine sbiadita di un’incapacità a risolvere il problema del potere politico che offriva la teoria etnologica tradizionale.
La filosofia politica anti-statalista è parte del sapere dei selvaggi: esso si costituisce attraverso le forme del mito, modo di espressione del pensiero selvaggio, e si trasmette attraverso i discorsi e i canti di capi e sciamani e attraverso i riti. 
Situando la propria origine nel tempo mitico del pre-umano, la società si rappresenta a se stessa immodificabile, perché insieme di regole e linguaggi voluti dai grandi antenati, dagli eroi culturali. 
Il pensiero indiano disloca gli antenati in un tempo prima del tempo: tempo degli accadimenti del mito, dove si svolgono, accadono, i vari atti e momenti della creazione della cultura; questa società remota del tempo del mito è continuamente rammentata nei quotidiani racconti e canti di sciamani e capi, i signori della parola, e nelle pratiche rituali. 
I riti, in particolare i riti di iniziazione, sono un fondamentale veicolo del sapere.
Nel rituale iniziatico la società imprime il suo marchio sul corpo dei giovani – il corpo è «una memoria» – e detta la sua legge ai propri membri: «Tu non vali meno di un altro, tu non vali più di un altro». 

La legge primitiva è così «un divieto di disuguaglianza». 

Il sapere selvaggio esprime una filosofia politica anti-statalista: ragion d’essere dell’esistenza di un capo senza potere effettivo, come pure di altri fenomeni tipici delle società primitive, uno dei quali è argomento capitale dell’ultimo Clastres: la guerra selvaggia, di cui egli indaga il senso.

La guerra selvaggia e la critica del modello scambista

Il tema della guerra è affrontato da Clastres a partire dalla critica dell’interpretazione di Lévi-Strauss, in gran parte mutuata a sua volta da Marcel Mauss e dal suo classico Essai sur le don, del 1924, dove presenta il modello «scambista» della filosofia politica delle società selvagge. 
Nell’esame delle società arcaiche, secondo Mauss, ci troviamo di fronte a dei fenomeni sociali «totali», insieme di fatti in cui si mescola tutto ciò che costituisce la vita propriamente sociale delle società che hanno preceduto la nostra: in essi si esprimono ogni tipo di istituzioni, religiose, giuridiche, morali, politiche, familiari, economiche. 
Mauss pone a oggetto della sua analisi «il carattere volontario, per così dire libero e gratuito e tuttavia obbligato e interessato delle prestazioni», la cui forma generale è quella del dono
Lo scambio si manifesta in queste società come complesso di fenomeni che Mauss chiama sistema delle prestazioni totali, di cui ne sono esempi il kula melanesiano e il potlach nordamericano. 
Tutto va e viene, tutto si scambia, in queste società: lo scambio è la struttura interna, profonda, della società. 
La «prestazione totale» è un contratto 
politico
Mauss, come ha scritto Sahlins, riprendendo la tematica filosofica che fu di Hobbes, Locke, Spinoza e Rousseau, ha dato una nuova versione del dialogo tra «caos e contratto»: il dono è il modo primitivo di realizzare quella pace che nella società civile è garantita dallo Stato.
Nella visione maussiana la società selvaggia, organizzata attraverso il sistema del dono, non si dissolve in un’unità più ampia, non crea un’altra parte sopra di sé, lo Stato. 

Il dono non implica quindi né rinuncia all’eguaglianza né rinuncia alla libertà. 

Lo scambio realizzerebbe la pace eliminando il disordine originario: dallo stato di guerra hobbesiano alla pace attraverso lo scambio, che è mediazione tra eguali.
Sotto la costante minaccia di degenerare nella guerra, le comunità primitive si riappacificherebbero continuamente nelle feste e nello scambio. 
La società primitiva sarebbe dunque società contro la guerra, per la pace, attraverso lo scambio generalizzato. 
Il tema maussiano venne ripreso da Lévi Strauss, secondo il quale gli scambi commerciali sono guerre pacificamente risolte, e le guerre il risultato di transazioni sfortunate. 
La guerra sarebbe così il fallimento dell’essere sociale primitivo. 

Questo modello scambista è così il rovescio di quello di Hobbes: laddove per Hobbes la società primitiva è la società della guerra di tutti contro tutti, nel modello scambista essa è la società dello scambio di tutti con tutti
Secondo Clastres, come Hobbes non colse la dimensione dello scambio, così Lévi Strauss (e Mauss) non colse la dimensione bellica. 
Perché, scrive in Archéologie de la violence: la guerre dans les sociétés primitives, «la società primitiva è lo spazio dello scambio ed è anche il luogo della violenza: la guerra appartiene all’essere sociale primitivo allo stesso titolo dello scambio».

Il modello che Clastres contrappone a quello scambista

La società selvaggia è autosufficiente sul piano economico e politicamente indipendente: non avrebbe dunque ragioni per uscire dal proprio territorio e far guerra ad altre comunità.
Ma i dati etnologici ci riferiscono di una situazione di guerra generale.
Due proprietà sociologiche peculiari della società primitiva – a un tempo unità e totalità – rendono comprensibile il suo modo d’essere sociale e le ragioni della guerra: la comunità selvaggia è unità perché impedisce il prodursi di diseguaglianze attraverso il rifiuto della stratificazione sociale, e allo stesso tempo è totalità in quanto insieme autonomo e autosufficiente, attenta a prescrivere e tramandare la propria autonomia. 
In questa situazione, i gruppi vicini, gli altri, sono lo specchio che rimanda alla comunità l’immagine della propria unità-totalità. 
La società selvaggia, scrive Clastres, si articola in una molteplicità di gruppi separati, ciascuno attento guardiano dell’integrità del proprio territorio e della propria differenza. 
Ne deriva che la possibilità della guerra è contenuta strutturalmente dentro la società selvaggia.
Ma l’hobbesiana guerra di tutti contro tutti deve essere resa impossibile, nell’universo primitivo, perché essa porterebbe all’instaurarsi di relazioni di gerarchia politica. 

Tra i selvaggi i gruppi vicini sono suddivisibili in amici e nemici: dato lo stato periodico di guerra, la comunità, per non correre il rischio di essere distrutta, per poter muovere sicura contro l’avversario, deve coprirsi le spalle, e lo fa attraverso le alleanze.
Ne deriva, secondo Clastres, che la guerra è il fenomeno primitivo, l’alleanza quello derivato, ovvero l’alleanza è una conseguenza dello stato di belligeranza e ciò chiarisce il rapporto tra guerra e scambio: i gruppi coinvolti nel rapporto di scambio sono quelli implicati nel rapporto di alleanza.

Ma come, e perché, si passa dal potere 
politico non coercitivo al potere politico coercitivo? 

Nel 1974, nel capitolo finale di La Société contre l’État, Clastres formula il problema in questi termini: "Bisogna domandarsi perché si produce nell’ambito di una società primitiva, cioè di una società indivisa, la nuova ripartizione degli uomini in dominanti e dominati […] tutti i popoli civilizzati sono stati dapprima selvaggi."
Clastres si sforza nelle sue analisi di individuare il momento del passaggio di campo dalle società contro lo Stato alle società dello Stato, ma sempre invano. 
Egli scopre ogni volta, attraverso le esplorazioni dei percorsi logici, che le società primitive, anche quando sembra si possa produrre una rottura verso lo Stato, sembrano essere capaci di mettere in atto meccanismi riequilibratori che bloccano quel processo.
Ecco perché, egli conclude, non sembra esistere altra possibile spiegazione oltre quella intravista da La Boétie, che affermò, in primo luogo, che quel passaggio dalla libertà alla servitù fu senza necessità, che la divisione della società tra chi comanda e chi obbedisce fu accidentale: "Quello che viene qui individuato è proprio il momento della nascita della storia: quella rottura fatale […], quell’evento irrazionale che noi moderni chiamiamo «nascita dello Stato".

La dominazione – questa sembra essere la sola «spiegazione» – è un evento ogni volta accidentale e locale: un errore della macchina culturale.
Non sembra potersi dare perciò una teoria generale del passaggio dalla socialità della libertà alla socialità della tirannide, una teoria cioè dell’origine dello Stato.


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