Quel sentiero che nasce camminando...

tratto da "Quel sentiero che nasce camminando. Un’antropologia per un altro mondo possibile"; di D. Basile.


L’antropocene e le diverse crisi in corso (sanitarie, ambientali, sociali) rendono il futuro dell’umanità quantomai incerto e, per questo, sarebbe auspicabile un drastico cambio di rotta. 
La grande ideologia dello sviluppo si sta dimostrando sempre più fragile e insostenibile e l’etica della crescita infinita, tipica del capitalismo, è forse arrivata a fine corsa. 
Come ci ha ricordato Thomas Hylland Eriksen, la modernità ha ingranato la marcia più alta e va a velocità massima nella maggior parte degli ambiti, generando in questo modo una situazione instabile e, in ultima istanza, distruttiva.
Ma, nonostante queste evidenze, non si intravedono delle importanti svolte all’orizzonte. 
Stiamo assistendo a un profondo paradosso: in un mondo sempre più accelerato, interconnesso e surriscaldato i cambiamenti si susseguono in maniera repentina, ma sembrano seguire tutti gli stessi binari.
Le società urbane moderne, aumentando la loro complessità, hanno contemporaneamente perso di flessibilità, ovvero quella potenzialità di fare le cose in modo diverso sia a livello individuale sia a livello comunitario. 
Ci troviamo, quindi, di fronte a una pressante e complicatissima sfida: recuperare flessibilità ed elaborare con fantasia e creatività delle alternative allo status quo. 
In altre parole: occorre ripensare un altro mondo possibile. 

L’urgenza di cambiare rotta 

Come dovremmo vivere?” 
È una domanda apparentemente banale eppure, come ci ricorda Tim Ingold, gli esseri umani si sono incessantemente posti tale quesito. 
Ma la curiosità verso le possibilità alternative, raramente si traduce in azioni concrete. 
Sia a livello individuale sia a livello collettivo si preferisce generalmente la continuità rispetto al cambiamento repentino; percorrere strade già battute è rassicurante. 
È però forse giunto il momento di imboccare un sentiero diverso, ancora tutto da scoprire. 

Un “sentiero che nasce camminando”, come scrive lo stesso Ingold in una delle pagine più belle del suo testo: "Vivere è questione di decidere come si vive, e racchiude in ogni momento il potenziale diramarsi in molteplici direzioni, nessuna delle quali è più normale o naturale delle altre. 
Così come il sentiero nasce camminando, allo stesso modo dobbiamo continuamente improvvisare modi di vita per andare avanti, cambiando rotta anche quando seguiamo le orme dei predecessori. 
Agiamo in questo modo, comunque, non in isolamento, ma in compagnia degli altri". 

Anche Anand Pandian è animato da un forte spirito riformatore.
Pandian, già attivista ambientale, si avvicina all’antropologia con un profondo desiderio di cambiamenti sociali. 
Per lui il sapere antropologico non può essere semplicemente una neutra riflessione sul mondo, perché non si può essere antropologi senza essere direttamente coinvolti nelle vite degli altri; ciò che più gli sta a cuore è il valore pragmatico della disciplina.
Come abbiamo detto, il pianeta sta attraversando un momento critico: foreste vengono distrutte, l’attività estrattiva ha eroso la terra e il consumo massiccio di combustibili fossili sta influenzando il clima mondiale, aumentando la probabilità di eventi potenzialmente catastrofici. 
Tutto ciò ci impone di ripensare la modernità e il modo di abitare il mondo. 

E per questo Tim Ingold non usa mezzi termini: "Come mai prima d’ora, le certezze esistenziali su cui è stata fondata l’era moderna hanno portato il mondo sull’orlo del baratro. 
Dobbiamo forgiare approcci alternativi al problema di come vivere, per provare a sanare la rottura tra modalità di conoscere il mondo e modi di abitarlo, tra scienza e natura".

D’altronde, come ci ha spiegato Eduardo Kohn, anche le foreste possono pensare.
Le pietre non sono in vita, ma sono nella vita.
Sfruttando la nostra intuizione rispetto ai flussi che modellano il mondo, possiamo testimoniare la vitalità delle cose, anche delle pietre. 
Tutto ciò presuppone la capacità di guardare al mondo con altri occhi ma, scrive Ingold, questo significa anche “pensare alla vita in modo molto diverso da quello immaginato dalla scienza”. 
Non si tratta, naturalmente, di opporsi alla scienza in quanto tale, si tratta piuttosto di
orientarsi verso un modo diverso di praticare la scienza, in una maniera più umile, più umana e, in fin dei conti, più sostenibile di quanto accada oggi.
Il libro di Ingold – come scrive Matteo Meschiari – va inteso come un piccolo pamphlet programmatico
L’intento che pervade il testo è quello di far capire che l’antropologia non è una disciplina accademica come tante altre, ma si candida come pratica culturale e sociale per eccellenza per rispondere a un’impasse globale. 

Una critica propositiva

Ma perché proprio l’antropologia dovrebbe indicare una strada nuova? 

Come è noto, gli antropologi possono spiegare, forse meglio di altri, che esistono altri modi di vivere nel mondo contemporaneo.
Ma l’antropologia deve distinguersi come un sapere propositivo, che si nutra delle aperture e indichi delle possibilità, tra le alternative già presenti nel mondo.
Pandian invoca quindi un cambio di prospettiva: anziché indicare ciò che è assente e che dovrebbe invece essere presente occorre cercare, con generosità, quel potenziale che già esiste nel mondo. 
L’antropologia dispone delle risorse per farlo. 
In questo senso l’etnografia è vista sì come una pratica di osservazione critica, ma allo stesso tempo anche di immaginazione. 
La disciplina può, infatti, sfruttare le sue risorse per tracciare – seguendo le crepe della terra – i contorni di un altro mondo possibile. 
E quindi, le potenzialità individuate sul campo, possono poi essere impiegate in modo creativo per contrastare alcuni fenomeni come la violenza politica, lo sfruttamento economico e la forte disuguaglianza.

In questa direzione sembra andare anche Tim Ingold quando scrive che l’antropologia deve sapersi proporre come un sapere collettivo, che si nutre della saggezza e dell’esperienza di tutti gli abitanti del mondo: “Una filosofia che include le persone” e mai come in questo momento storico questo tipo di sapere è tanto necessario. 
Non si tratta, si badi bene, di trovare il segreto del “come vivere” in una particolare visione indigena del mondo e neanche di cercare una soluzione definitiva. 
La ricerca deve essere continua (il sentiero nasce camminando) e, considerando la portata della sfida, serve la collaborazione di tutti, anche di coloro che non vengono generalmente ascoltati. 

Il sapere e la saggezza

Un altro aspetto che, secondo Ingold, fa dell’antropologia la candidata ideale a raffigurare un’alternativa allo status quo è che la disciplina non è coinvolta nel business della “produzione del sapere”, poiché aspira a una relazione del tutto diversa con il mondo.
In un’epoca ossessionata dal “progresso del sapere” gli antropologi si distinguono, infatti, per il loro desiderio di imparare anche da coloro che vengono generalmente ignorati e liquidati in quanto illetterati, analfabeti o ignoranti. 
Per questo Ingold prova a distinguere il sapere dalla saggezza: “Il sapere fissa e mette la nostra mente a riposo; la saggezza è irrequieta e instabile. 
Il sapere è armato e controllato; la saggezza disarma e si arrende”.
Il sapere, che viene prodotto nelle cittadelle della conoscenza, è ovviamente necessario ma non è sufficiente. 
C’è sempre il rischio di perdere di vista ciò che avviene fuori. 
La saggezza, al contrario, è un processo collettivo che include le persone. L’osservazione partecipante permette all’antropologo di studiare non le persone ma con le persone. 
È questo il metodo che consente di elaborare dei nuovi modi di vita possibili insieme agli altri. 
In un mondo al limite non possiamo, quindi, permetterci di disperdere questo tipo di saggezza diffusa, che è presente ma viene spesso ignorata. 
Le tradizioni delle popolazioni indigene del mondo potrebbero aiutarci ad affrontare i numerosi problemi globali e contribuire a costruire un mondo sostenibile. 

La forza dell’inaspettato 

Per essere saggi bisogna avventurarsi nel mondo e correre il rischio di esporsi a ciò che sta accadendo in quel momento”. 

In queste righe si può leggere da un lato una critica di Ingold verso quell’antropologia che ha alzato il ponte levatoio, rifugiandosi nel sicuro recinto accademico, ma dall’altro si può intravedere anche un elogio alla disciplina che ha fatto del potere dell’inaspettato una delle sue caratteristiche distintive. 
Una peculiarità che potrebbe rivelarsi molto utile per contrastare l’impasse globale. 

Questo è uno snodo centrale anche per Anand Pandian. 

Pandian focalizza la sua attenzione su quattro attività essenziali per l’antropologo: la lettura, la scrittura, l’insegnamento e la ricerca sul campo.
Azioni che all’apparenza appaiono molto diverse tra di loro ma che sono accomunate da un’unità di approccio: la propensione creativa a confrontarsi con l’inaspettato. 
Pandian parte dall’incontro a Parigi con la moglie di Claude Lévi-Strauss. 
Si ritrovano a conversare in quello stesso studio (protetto da una grossa porta simile a quella di un caveau), dove Lévi-Strauss passava le ore studiando i miti amerindiani. 
Monique Lévi-Strauss ricorda che quello che il marito cercava nei testi della sua libreria era proprio l’esperienza dell’inaspettato. 
Il marito leggeva come un antropologo: profondamente immerso nel testo scritto, allo stesso modo in cui poteva esserlo tra i passeggeri di un bus. 
Il testo antropologico dà ai propri lettori una conoscenza, che conserva una carica di sconosciuto e l’esperienza di Lévi-Strauss ci conferma che la lettura può essere considerata come una sorta di continuazione della ricerca sul campo. 

Scrive Pandian: "Leggere un testo di antropologia è come entrare in uno spazio di incontro continuo e aperto. 
Ciò che accade qui potrebbe ispirare noia piuttosto che sicurezza, un senso di incomprensione piuttosto che la sensazione di avere una presa sicura su qualcosa che vale la pena acquisire.
Leggere in antropologia è come
accedere a ciò che Lévi-Strauss ha descritto come un tipo di intelligenza neolitica, che a volte mette a fuoco delle aree inesplorate".

Gli ingredienti per un “altro mondo possibile” non vanno quindi solo cercati nella contemporaneità, gli antropologi possono attingere anche al vasto
patrimonio di conoscenza raccolto nei testi dei predecessori ed elaborarlo in maniera creativa. 

Anche Tim Ingold afferma che l’antropologia non può coincidere esclusivamente con l’etnografia. 
Non basta fornire i dati sulle “culture altre”, bisogna attingere da ciò che abbiamo appreso per immaginare condizioni e possibilità di vita diverse. 
In fondo la ricetta per immaginare un altro mondo possibile potrebbe essere semplicemente questa: credere nel potere trasformativo dell’incontro, un incontro
all’interno delle società umane ma anche di quello che Ingold definisce l’inestricabile intreccio “of human and other than human being in the world”.

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