tratto da "Lessico e Nuvole: le parole del cambiamento climatico"; a cura di Gianni Latini, Marco Bagliani e Tommaso Orusa.
L’Olocene in geologia indica l’ultima epoca del Quaternario, successiva al Pleistocene.
Il suo limite inferiore, convenzionalmente accettato da quasi tutti i ricercatori, è posto a 10.000 anni fa, in connessione con l’inizio della fase di riscaldamento che determinò la scomparsa dei ghiacciai wurmiani, rappresentati in Europa dalla grande calotta glaciale scandinava.
Il genere umano, uscito dal paleolitico, ha mostrato per tutto il periodo uno sviluppo e una diffusione che, proseguite poi a ritmo accelerato, hanno contribuito a modificare l’ambiente naturale.
Con la rivoluzione industriale a metà del ‘700 e l’avvento dell’uso dei combustibili fossili, oltre alla crescente pressione sulle risorse naturali e il boom demografico, il tasso di emissioni e la pressione antropica sulla biosfera hanno assunto una dinamica senza precedenti.
Autorevoli studiosi designano convenzionalmente gli anni ’50 del secolo scorso come la “Grande Accelerazione”: un periodo caratterizzato da grande prosperità e sviluppo economico in svariati settori e spinta al consumo insostenibile delle risorse; pressioni umane sulla biosfera capaci di rendere il genere umano un nuovo forzante/driver all’interno delle variabili naturali che influiscono sul sistema climatico.
Da qui l’Antropocene: un nuovo periodo geologico che segue l’Olocene.
Proposto dal premio Nobel Paul J. Crutzen nel 2000 nella scala geocronologica del Pianeta, l'Antropocene è caratterizzato dal profondo intervento umano sui sistemi naturali, i cui effetti sono ritenuti equivalenti a quelli prodotti dalle grandi forze geofisiche che hanno modellato e plasmato la Terra nei suoi stimati 4.6 miliardi di anni di vita.
Coniato dal biologo Eugene Stoermer, il termine “Antropocene” si riferisce all’epoca geologica attuale in cui l’ambiente terrestre, inteso come l’insieme delle caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche in cui si crea ed evolve la vita, è profondamente condizionato dagli effetti dell’azione umana.
L’entità, la varietà e la durata dei cambiamenti antropici sono tali che, per la prima volta nella storia del Pianeta, le nostre pratiche sono entrate a far parte della stratigrafia, inscrivendosi letteralmente nelle rocce, nei ghiacciai e nei sedimenti marini.
Presto adottata da artisti, umanisti, politici e scienziati, la denominazione “Antropocene” ha allargato i suoi confini semantici fino a denotare una composizione complessa e dinamica di elementi naturali, attività socio-politiche e pratiche discorsive, motore di un processo di ibridizzazione del Pianeta che si evolve incessantemente in una dimensione “naturalculturale”, per dirla con Donna Haraway.
Eppure, nonostante la sua popolarità, non solo l’Antropocene non mette d’accordo tutti gli studiosi, ma al contrario ha generato e continua ad alimentare un vivace dibattito: terminologico, politico, filosofico, ecologico.
Fortemente convinti dell’urgenza di creare ponti tra il mondo delle scienze dure e il mondo delle scienze umane, teorici come Bruno Latour, Donna Haraway, Anna Tsing, Rob Nixon, Eduardo Viveiros de Castro e molti altri, si sono impegnati a dimostrare e discutere criticamente le intersezioni di cultura e ambiente, mettendo in luce alcune questioni di giustizia ambientale e sociale, come l’iniqua distribuzione degli impatti e dei costi dei cambiamenti climatici, e i diversi gradi di agency dell’umano; agentivita' intesa come capacità di influenzare il sistema in modo intenzionale e mirato.
Questa età, secondo Rob Nixon, ci narra una “storia condivisa di risorse non condivise”.
E mentre l’Antropocene si è ormai allontanato dai recinti dell’accademia per introdursi diffusamente nel mondo della cultura popolare, la sua storia richiede una narrazione più corretta e uno sguardo più approfondito.
Donna Haraway, per esempio,
esprimendo tutta la sua perplessità nei confronti del termine “Antropocene”, ci ricorda che la radice “anthropos” si riferisce a una specie: ma a quale con esattezza?
A quella dell’Homo sapiens sapiens senza distinzioni di sorta?
All’umanità tutta?
O all’umanità “industriale”, quella cioè che contribuisce alla formazione di capitale globale?
Perché forse in questo caso, suggerisce in un articolo divenuto ormai seminale per
questo dibattito, sarebbe più opportuno usare la parola “Capitalocene” (o l’età del capitale), denominazione coniata dal coordinatore del World-Ecology Research Network, Jason Moore.
Il termine “Antropocene”, infatti, può trasformarsi in un significante vuoto se si negano le differenze, le disuguaglianze e la violenza multi-specie del capitalismo.
L’espressione "multiplicity of belonging", o appartenenza multipla, è attualmente assai usata nel contesto dei Pacific Studies, che analizzano la rete di rapporti translocali e transnazionali tra le società dell’Oceania e le loro diaspore.
Il sociologo tongano Epeli Ha’uofa aveva già sottolineato come il concetto di appartenenza multipla fosse intrinseco alla natura dei popoli dell’Oceania, che consideravano il mare non come un
elemento di separazione ma di unione, non ostacolo ma risorsa, parte integrante della loro vita e cultura.
Abili navigatori, abituati a spostarsi per pescare, commerciare, sposarsi e creare
alleanze, essi vivevano in una rete di inter-connettività sociale ed economica che fu stravolta dall’avvento dell’imperialismo occidentale nel diciannovesimo secolo.
Europei e americani si spartirono la regione, tracciando confini attraverso l’oceano, utilizzando le isole come avamposti per i propri interessi commerciali e militari, sfruttandone le risorse naturali e minerarie e minandone l’autosufficienza: ponendo, di fatto, le basi della dipendenza economica degli stati insulari del Pacifico dall’Occidente, anche una volta riconquistata la loro sovranità politica.
Aprendo dunque la strada a forme di neocolonialismo.
La propensione dei Pacific Islanders per il movimento, l’espansione e la relazione, piuttosto che il radicamento e l’isolamento, si è concretizzata in questo secolo in ampi fenomeni migratori verso Nuova Zelanda, Australia e la costa occidentale degli USA, dove essi si sono stabiliti in cerca di migliori prospettive di vita, per motivi di studio o lavoro, o per raggiungere parenti, creando grandi comunità oltreoceano.
Alle motivazioni delle migrazioni del passato si aggiungono oggi quelle climatiche.
Uno degli effetti del riscaldamento globale è stato l’innalzamento del livello dei mari che ha avuto un impatto devastante sui numerosi atolli del Pacifico (o low islands).
In stati insulari come Tuvalu (Polinesia), Kiribati e le Marshall Islands (Micronesia), arcipelaghi prevalentemente formati da atolli, è già iniziato l’esodo dalle outer islands ‒ le isole più esterne, generalmente più piccole e basse ‒ alle isole maggiori, e da qui all’estero.
Rispetto a questo immenso dramma, il concetto di appartenenza multipla intrinseco alle culture del Pacifico si sta dimostrando una risorsa per le popolazioni coinvolte.
Se da un lato vi è un attaccamento fortissimo ai luoghi di origine e una strenua lotta per la loro difesa – un attivismo militante operato attraverso i canali istituzionali internazionali e la presenza continua di rappresentanti ufficiali di queste isole alle Conferenze per il clima, all’ONU e in molte altre piattaforme ufficiali – dall’altro la rete inter-relazionale a vari livelli (locale, transnazionale e con le comunità diasporiche) si sta rivelando una risorsa per ridisegnare un futuro a queste popolazioni sulla base di appartenenze multiple e di un concetto fluido di identità.
Se diminuiscono i contatti diretti tra le seconde e terze generazione di emigrati e l’isola di origine, il sistema di solidarietà transnazionale (fondato sul culto degli antenati, il senso di responsabilità verso la propria cultura di origine e di reciprocità verso i parenti lontani) tiene vivo l’impegno nei confronti della loro “madrepatria”.
A ciò si aggiunge anche l’attuazione di una fitta rete di rapporti con le altre comunità diasporiche, che dà luogo a una forma di transnazionalismo intra-diasporico.
Il concetto di multiplicity of belonging si ricollega anche ai nuovi orientamenti
della ricerca antropologica, come ad esempio quelli espressi da Remotti e dalla nozione di "Condividuo", volti a criticare la validità di modelli statici di identità e appartenenza, in favore di una rivalutazione delle potenzialità insite nel movimento, nella precarietà e fluidità.
I commons possono essere intesi come un insieme di risorse naturali o culturali accessibili a tutti i membri di una società.
Tali risorse includono anche aria, acqua o terra abitabile.
Queste risorse sono gestite in comune, ossia non sono privatamente appropriate.
Un bene comune può anche essere visto come risorsa naturale che un gruppo di persone (comunità, cooperative, gruppi di utilizzatori) gestisce a beneficio indivuduale e collettivo.
Questo implica una varietà di norme e valori informali che costituiscono il meccanismo di governo del commons.
Un commons può essere anche una pratica sociale di governo di una risorsa, al di fuori delle sfere statali e di mercato, messa in opera da una comunità di utilizzatori che auto-governa la risorsa attraverso istituzioni da essa stessa create.
Nel caso del riscaldamento globale, il bene comune è una certa composizione dell’atmosfera.
Questa composizione mantiene il clima e, di conseguenza, la biosfera sulla Terra all’interno dei parametri ai quali ci siamo adattati e ai quali abbiamo adattato il nostro modo di vita, la cultura, le attività economiche e così via.
La composizione dei gas atmosferici e il suo effetto sulla biosfera e sull’umanità è un “common-pool resource”, ovvero un bacino comune di risorse.
Nessuno può essere escluso dal goderne gli effetti positivi.
Tuttavia, l’atmosfera viene utilizzata come serbatoio per lo scarico delle emissioni delle attività umane (produttive, di trasporto, di consumo, ecc.) e, rispetto a questo, c’è rivalità.
Anche se tutti potrebbero beneficiare di un uso sostenibile di tali beni comuni, ci sono comunque situazioni in cui si manifestano deleteri comportamenti da “free-riding” (ovvero un uso indiscriminato per scopi individuali) che danneggiano le possibilità di realizzare le forme di cooperazione indispensabili per far fronte ai cambiamenti climatici.
L’atmosfera è attualmente una “terra di nessuno”, che è disponibile per tutti gratuitamente.
Anche gli oceani e le foreste sono strettamente collegati al serbatoio atmosferico attraverso il ciclo del carbonio, in quanto assorbono parte del diossido di carbonio (CO2) di origine antropica.
È interessante notare come gli oceani e le foreste siano anch’esse risorse globali comuni che fungono da importanti fonti di biodiversità, materie prime, risorse ittiche e ricettori di carbonio.
Tuttavia, l’atmosfera e gli oceani sono
minacciati da eccessive emissioni di CO2 e le foreste si stanno riducendo per rispondere alla crescente domanda di cibo e bioenergia.
Risolvere i dilemmi posti dall’esistenza e dal funzionamento di commons globali è una sfida per la comunità internazionale.
Questa sfida può essere delineata come segue: per assicurare che la temperatura dell’atmosfera globale non aumenti di altri 2 gradi (°C), l’uso di fonti di energia fossile deve essere limitato a livello globale.
Tali limitazioni non possono che generare radicali conflitti distributivi, come sta già avvenendo.
Se la politica climatica implica che una
grande parte delle risorse fossili non venga più sfruttata, la conseguenza sarà la svalutazione delle attività dei proprietari di risorse di carbone, petrolio e gas.
Inoltre, i pochi diritti di sfruttamento atmosferico dovranno essere equamente distribuiti, tra le regioni del mondo, anche
sulla base delle emissioni storiche e di quelle pro capite.
Alla luce di tutte queste difficoltà, è legittimo chiedersi se un uso efficiente ed equo dei climate commons sia possibile.
Ma come Elinor Ostrom ed altri ricercatori hanno dimostrato, le comunità a livello locale hanno spesso applicato ai commons regole d’uso efficaci.
I dilemmi, tipici della gestione di risorse ritenute appropriabili, possono dunque essere risolti trattandole come risorse per l’umanità e gestendole come commons; beni comuni globali come le foreste, gli oceani e l’atmosfera dovrebbero essere affidati ai commoners e a processi di commoning allargati e partecipativi.
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