Le radici del paradigma dello sviluppo
Lo "sviluppo", inizialmente rappresentato come un percorso lineare di crescita economica, industrializzazione e modernizzazione, si è progressivamente rivelato un costrutto eurocentrico e coloniale, capace di violenti processi di sfruttamento, dominio e marginalizzazione a scala planetaria.
Per comprendere a fondo l'odierna crisi del paradigma dello sviluppo, è necessario risalire alle sue radici storiche e ideologiche.
Il concetto di "sviluppo" affonda le radici nell'epoca coloniale, quando le potenze europee si proiettarono su scala globale alla conquista di terre, risorse e popolazioni, con l'obiettivo di alimentare i propri processi di accumulazione e modernizzazione.
In questa cornice, il “sottosviluppo” dei territori colonizzati doveva essere superato attraverso l'imposizione di modelli di crescita economica e di progresso tecnologico di matrice occidentale.
Ciò ha comportato la marginalizzazione e la svalorizzazione sistematica delle epistemologie, delle pratiche e delle cosmovisioni delle società "tradizionali", considerate prive di significato e di razionalità.
Il paradigma dello sviluppo, dunque, lungi dall'essere un percorso neutro e universale di progresso, si è storicamente configurato come uno strumento di legittimazione del colonialismo e del dominio del Nord globale sul Sud del mondo.
Esso ha finito per perpetuare logiche di sfruttamento, di estrazione di risorse e accaparramento di terre, a discapito dei mezzi di sussistenza delle comunità locali.
Tali dinamiche non si sono esaurite con il superamento formale del colonialismo, ma hanno continuato a permeare le relazioni internazionali e i modelli di crescita economica anche nel secondo dopoguerra.
La teoria della modernizzazione e le politiche di aggiustamento strutturale, promosse dalle istituzioni finanziarie internazionali hanno di fatto replicato, inasprendole, le medesime logiche di dominio e sfruttamento, relegando buona parte del Sud globale in una condizione di dipendenza e marginalità economica e sociale.
Questa visione dello sviluppo come percorso lineare e universale di progresso materiale si è intrecciata con l'affermazione del sistema capitalistico, basato sull'accumulazione infinita di profitti, sulla mercificazione della natura e sull'espansione di modelli di produzione e consumo estrattivi e distruttivi.
Tale connessione tra sviluppismo e capitalismo estrattivo ha alimentato processi di espropriazione, inquinamento e depauperamento delle risorse naturali su scala globale con gravi conseguenze per le comunità locali e gli ecosistemi.
In tale cornice, il concetto di "sviluppo" ha finito per legittimare e acuire le disuguaglianze, le ingiustizie e le forme di dominio che hanno segnato la storia del colonialismo e del neocolonialismo fino ai nostri giorni.
La critica al paradigma sviluppista
Dinanzi a questa crisi, alcune tra le principali critiche al modello di sviluppo dominante, mettono in luce come tale paradigma si fondi su una visione antropocentrica e riduzionista del rapporto tra esseri umani e natura, che concepisce quest'ultima come mera riserva di risorse da sfruttare per alimentare i processi di crescita economica.
Questa logica, radicata nell'ontologia naturalista e nell'epistemologia scientifica di matrice moderna occidentale, ha comportato la mercificazione e la privatizzazione di beni comuni essenziali, come la terra, l'acqua e le foreste.
Ciò ha avuto gravi conseguenze in termini di espropriazione delle comunità e di inquinamento e distruzione degli ecosistemi, minando i mezzi di sussistenza e stravolgendo i diritti consuetudinari delle comunità locali, in particolare di quelle indigene.
Inoltre, il paradigma dello sviluppo si è spesso intrecciato con la logica estrattiva, ovvero con l'estrazione intensiva e su larga scala di risorse naturali per alimentare i flussi commerciali globali.
Questo modello, ereditato dal colonialismo, ha avuto pesanti ripercussioni in termini di degrado ambientale, violazione dei diritti umani e impoverimento delle comunità colpite.
In tal senso, la critica al paradigma dello sviluppo si intreccia strettamente con la denuncia dell'estrattivismo, inteso come una delle manifestazioni più emblematiche della crisi ecologica e sociale generata dal capitalismo globale.
Ulteriore elemento di critica al paradigma sviluppista è il suo carattere intrinsecamente eurocentrico e coloniale.
Come sottolineato, tale modello si è storicamente imposto attraverso la marginalizzazione e la svalorizzazione sistematica delle epistemologie, delle pratiche e delle cosmovisioni delle società "altre", considerate arretrate o prive di razionalità.
Questo processo ha comportato la negazione di diritti, saperi e modalità di relazione con l'ambiente elaborate da molte comunità indigene e tradizionali.
La critica al paradigma dello sviluppo si intreccia strettamente con la lotta per la decolonizzazione, ovvero per il riconoscimento e la valorizzazione della pluralità di ontologie ed epistemologie che rappresentano i modi di essere e di conoscere il mondo.
Il dominio di un'unica visione di progresso e di modernità ha finito per replicare e inasprire le logiche di oppressione e di sfruttamento che hanno caratterizzato l'esperienza coloniale.
Oggi, la crisi del paradigma sviluppista rappresenta una sfida cruciale per immaginare e costruire futuri alternativi, incentrati sulla giustizia sociale, l'autodeterminazione delle comunità e il rispetto della diversità culturale.
Prospettive di trasformazione
Di fronte alla profonda crisi del modello di sviluppo dominante, si manifestano una molteplicità di prospettive di trasformazione socioecologica, elaborate soprattutto dai movimenti per la giustizia globale.
Un primo importante elemento è la necessità di superare la visione dello sviluppo come "percorso lineare e universale di crescita economica e di progresso tecnologico".
Occorre piuttosto ridefinire i parametri fondamentali del benessere e della prosperità, andando oltre la logica della massimizzazione del profitto e dell'accumulazione di beni materiali.
In questa direzione, vengono valorizzate alcune prospettive di "post-sviluppo", le quali propongono di riconfigurare radicalmente il rapporto tra esseri umani e natura, nonché di costruire modelli socio-economici incentrati sulla sostenibilità ecologica, sull'equità e sulla giustizia sociale.
Tali approcci, spesso elaborati da movimenti sociali e comunità indigene, mettono al centro l'autodeterminazione dei popoli, il rispetto della pluralità di ontologie ed epistemologie, la cura dei beni comuni.
In questa cornice, alcune esperienze concrete di sviluppo alternativo, sono rappresentate dall'economia solidale, l'agroecologia e il Buen Vivir, insieme a molte altre.
Pur nella loro diversità, tali prospettive condividono la volontà di costruire modelli socio-economici radicalmente diversi da quello dominante, fondati sulla cooperazione, sulla reciprocità e sulla rigenerazione degli ecosistemi.
Le economie solidali, ad esempio, propongono di riorganizzare la produzione, la distribuzione e il consumo sulla base di logiche di mutualismo, di autogestione e di giustizia sociale, superando la centralità del profitto e del mercato.
L'agroecologia, d'altro canto, valorizza i saperi e le pratiche delle comunità contadine e indigene per costruire sistemi alimentari sostenibili, equi e rispettosi della biodiversità e della sovranità alimentare.
Il Buen Vivir, inoltre, incarna una visione olistica e sacralizzata del rapporto tra esseri umani e natura, fondata su principi di reciprocità e armonizzazione dei diversi cicli vitali.
Ciò che accomuna queste esperienze è la volontà di superare la logica estrattivista e di costruire modelli socio-economici realmente sostenibili, equi e democratici.
Esse rappresentano non solo un antidoto alla crisi ecologica e sociale generata dal capitalismo globale, ma anche un laboratorio prezioso per immaginare e sperimentare futuri possibili.
Tali proposte alternative sono spesso elaborate e messe in pratica dai movimenti sociali, dalle comunità indigene e dai gruppi di base impegnati nella difesa dei territori e nella lotta per la giustizia ambientale.
Ciò sottolinea l'importanza di valorizzare i contributi e le prospettive di questi attori, troppo spesso marginalizzati dai centri di potere e dal mainstream accademico.
In questa cornice, emerge con forza la necessità di un processo di decolonizzazione ontologica ed epistemica, ovvero di riconoscimento e legittimazione della pluralità di modi di essere e di conoscere il mondo.
Il dominio dell'ontologia moderna di matrice occidentale (basata sulla netta separazione tra natura e cultura, individuo e collettività, umano e non-umano), ha infatti rappresentato uno degli strumenti chiave per l'affermazione e la perpetuazione del paradigma sviluppista.
Conclusioni
Di fronte a questo racconto egemonico, è fondamentale aprire spazi di dialogo e di coesistenza tra prospettive diverse, valorizzando i contributi delle filosofie indigene, delle pratiche comunitarie e dei movimenti sociali.
Ciò implica, tra l'altro, ridefinire i parametri della produzione e della circolazione del sapere, superando la logica estrattiva e coloniale troppo a lungo dominante.
In tal senso, una decolonizzazione ontologica ed epistemica si configura come la sfida cruciale per immaginare e costruire futuri più equi, sostenibili e liberatori.
Essa rappresenta un elemento imprescindibile per le lotte e le proposte di trasformazione sociale ed ecologica emerse in diversi contesti, dalle comunità indigene ai movimenti per la giustizia globale.
Solo attraverso questo processo di decolonizzazione ontologica ed epistemica, di riconoscimento della pluralità di visioni del mondo e di sperimentazione di alternative concrete, potremo realmente aprire la strada a futuri più giusti, fondati sul rispetto della pluralità, la giustizia e la cura reciproca.
Ciò richiederà non solo un cambiamento a livello strutturale e istituzionale ma anche, e soprattutto, una profonda trasformazione del nostro immaginario collettivo, dei nostri valori e delle nostre pratiche quotidiane.
Solo così potremo affrontare con determinazione le sfide che ci attendono.
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