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La colonialità del pensiero contemporaneo.
La colonialità è un concetto fondamentale per la comprensione delle dinamiche di potere globali che persistono ben oltre la fine delle amministrazioni coloniali formali.
A differenza del colonialismo, inteso come struttura politica e militare, la colonialità rappresenta la logica culturale, politica, economica e sociale soggiacente che ha permesso e continua a perpetuare le gerarchie di dominazione nate con l'espansione europea a partire dal XVI secolo.
Per analizzare in profondità il concetto di colonialità, è utile attingere alle opere fondamentali di un gruppo eterogeneo di pensatori che, da diverse prospettive disciplinari e geografiche, hanno contribuito a svelare e criticare questa "matrice coloniale del potere".
La colonialità del potere.
Il punto di partenza ineludibile per qualsiasi disamina sulla colonialità è il lavoro del sociologo peruviano Aníbal Quijano, il quale ha coniato l'espressione "colonialità del potere".
Secondo Quijano, l'attuale sistema-mondo capitalista è sorto non solo da una nuova struttura economica, ma da una nuova e specifica struttura di potere basata su due assi fondamentali.
Il primo è la classificazione sociale della popolazione mondiale attorno all'idea di "razza", un costrutto mentale che naturalizza le differenze fenotipiche per giustificare la dominazione europea.
Il secondo asse è l'articolazione di tutte le forme storiche di controllo del lavoro (schiavitù, servitù, piccola produzione mercantile, reciprocità e salario) attorno all'egemonia del capitale e del mercato mondiale.
Questa struttura, inaugurata con la conquista delle Americhe, ha prodotto una gerarchia globale in cui l'Europa si è auto-definita come il centro del mondo, relegando le altre regioni e popolazioni a uno stato di subalternità.
Per Quijano, dunque, la modernità non può essere compresa senza la sua controparte nascosta e costitutiva: la colonialità.
La colonialità del sapere.
Sulla scia di Quijano, il semiologo e teorico letterario argentino Walter Mignolo ha esteso l'analisi alla sfera epistemologica, introducendo il concetto di "colonialità del sapere".
Mignolo sostiene che la matrice coloniale del potere non si è limitata a dominare economicamente e politicamente, ma ha imposto un modello di conoscenza universale, l'eurocentrismo, squalificando e cancellando sistematicamente tutte le altre forme di sapere, cosmologie e tradizioni intellettuali.
La "differenza coloniale" opera attraverso la geopolitica della conoscenza, per cui la ragione e la scienza prodotte in Europa sono considerate l'unica via valida per la comprensione della realtà, mentre i saperi indigeni, africani o asiatici vengono etichettati come mito, folklore o superstizione.
La decolonizzazione, per Mignolo, non è solo una lotta politica, ma una "decolonizzazione epistemica", un processo di "delinking" (sganciamento) dal pensiero egemonico per riattivare e valorizzare le epistemologie di confine, quelle che emergono dalle esperienze dei soggetti subalterni e razzializzati.
La colonialità dell'essere.
Il sociologo portoricano Ramón Grosfoguel ha ulteriormente arricchito il quadro analitico, focalizzandosi sulla "colonialità dell'essere".
Grosfoguel insiste sulla dimensione esistenziale della colonialità, ovvero su come essa abbia prodotto una gerarchizzazione dell'umano.
L'invenzione della "razza" non ha solo giustificato lo sfruttamento del lavoro, ma ha anche negato la piena umanità ai popoli colonizzati, relegandoli alla "zona del non-essere", per usare un'espressione di Frantz Fanon.
In questa zona, la violenza, la spoliazione e la negazione dei diritti non sono eccezioni, ma la norma.
Grosfoguel sottolinea inoltre come questa colonialità dell'essere sia intrinsecamente legata al patriarcato e alla distruzione delle spiritualità non cristiane, creando un sistema-mondo "capitalista/patriarcale/occidentale-centrico/cristiano-centrico/moderno/coloniale".
Risonanza e rielaborazione in Europa.
Queste prospettive, nate prevalentemente nel contesto latinoamericano, hanno trovato un'importante cassa di risonanza e rielaborazione anche in Europa.
L'antropologo Miguel Mellino ha evidenziato come la modernità europea sia inintelligibile senza la sua faccia nascosta, la colonialità.
Egli sostiene che concetti apparentemente universali come Stato-nazione, cittadinanza e diritti umani siano profondamente segnati da questa eredità coloniale, che continua a operare attraverso le politiche migratorie, il razzismo istituzionale e la gestione securitaria delle "alterità".
Il sociologo Gennaro Avallone, dal canto suo, ha applicato la lente della colonialità all'analisi della questione agraria e delle migrazioni nel Sud Europa.
Il suo lavoro mostra come le attuali filiere agro-alimentari riproducano dinamiche di sfruttamento su base razziale che ricordano le piantagioni coloniali, con lavoratori migranti che occupano la "zona del non-essere", privati di diritti e visibilità.
La critica alla colonialità si è rivelata estremamente feconda anche nell'ambito degli studi ambientali e dello sviluppo, smascherando come paradigmi apparentemente progressisti possano in realtà perpetuare logiche di dominazione.
La colonialità climatica.
L'opera della geografa Farhana Sultana è emblematica in tal senso.
Con il concetto di "colonialità climatica", Sultana denuncia come le attuali politiche climatiche globali, pur parlando di sostenibilità e transizione ecologica, spesso riproducano le disuguaglianze storiche.
I progetti per i biocarburanti, il land grabbing, le grandi dighe o i meccanismi di compensazione delle emissioni di carbonio finiscono per espropriare le comunità del Sud globale delle loro terre e risorse idriche, imponendo soluzioni tecnocratiche che ignorano i saperi locali e rafforzano il controllo del Nord sul Sud.
La colonialità dello "Sviluppo".
Arturo Escobar, uno dei padri della teoria del post-sviluppo, critica il concetto stesso di "sviluppo" come un discorso coloniale.
Per Escobar, lo sviluppo, emerso nel secondo dopoguerra, è stato uno strumento per gestire e controllare il "Terzo Mondo", ridefinendo la povertà non come risultato di secoli di saccheggio coloniale, ma come una condizione intrinseca da "curare" attraverso l'intervento occidentale.
Questo ha comportato l'imposizione di un modello unico di progresso basato sulla crescita economica e l'industrializzazione, distruggendo le economie locali, le culture e gli ecosistemi.
Da qui la necessità di cercare alternative allo sviluppo, non uno sviluppo alternativo.
In questo filone si inseriscono le riflessioni di Ashish Kothari, attivista e intellettuale indiano, che promuove un "pluriverso" di alternative radicali.
Kothari documenta e teorizza migliaia di iniziative locali in tutto il mondo che, partendo da visioni del mondo non coloniali, praticano forme di democrazia diretta, sovranità alimentare ed economie di sussistenza ecologicamente sostenibili.
Si tratta di un "arazzo globale delle alternative" che si oppone all'universalismo monolitico imposto dalla colonialità.
Il "Buen Vivir".
Un esempio concreto di queste alternative è il "Buen Vivir", o Sumak Kawsay in lingua quechua, teorizzato e promosso, tra gli altri, dall'economista e politico ecuadoriano Alberto Acosta.
Il Buen Vivir non è una ricetta per lo sviluppo, ma una filosofia di vita radicata nelle cosmologie indigene andine, che propone l'armonia tra esseri umani, comunità e natura.
Si contrappone frontalmente alla logica accumulativa e antropocentrica del capitalismo, riconoscendo i diritti della natura (Pachamama) e ponendo al centro la "riproduzione" non del capitale, ma della vita in tutte le sue forme.
Critica femminista all'antropocentrismo.
Questa critica alla separazione tra natura e cultura, un pilastro della modernità/colonialità, è centrale anche nel pensiero ecofemminista di Ariel Salleh.
Salleh sostiene che la dominazione sulla natura e l'oppressione delle donne siano due facce della stessa medaglia, entrambe radicate in una logica patriarcale e coloniale che svaluta e strumentalizza il lavoro riproduttivo, sia esso biologico, sociale o ecologico.
La critica alla colonialità, da una prospettiva ecofemminista, implica una rivalutazione dei saperi incarnati, del lavoro di cura e delle ontologie relazionali che riconoscono l'interdipendenza di tutti i viventi.
La decrescita.
Infine, la critica alla colonialità interpella direttamente anche i movimenti ecologisti del Nord globale, come la "decrescita".
Christos Zografos ha contribuito a un dialogo critico tra la decrescita e il pensiero decoloniale, evidenziando il rischio che anche le proposte di transizione ecologica possano cadere in trappole neocoloniali.
Zografos parla di "estrattivismo verde", riferendosi al fatto che la corsa alle materie prime necessarie per le tecnologie "verdi" (come il litio o il cobalto) stia generando nuove "zone di sacrificio" nel Sud del mondo.
Una "decrescita decoloniale", quindi, non può limitarsi a una critica della crescita economica, ma deve affrontare attivamente le questioni della giustizia globale, della redistribuzione e della riparazione per i debiti storici ed ecologici contratti dal Nord verso il Sud.
La sfida decoloniale.
In conclusione, il concetto di colonialità, sviluppato e arricchito dal dialogo tra questi e molti altri pensatori, si dimostra uno strumento analitico di straordinaria potenza.
Esso ci permette di vedere come le gerarchie razziali, economiche, epistemiche, di genere ed ecologiche che strutturano il nostro mondo non siano relitti di un passato coloniale ormai concluso, ma il risultato di una logica di potere persistente e pervasiva.
La colonialità è la matrice invisibile che continua a plasmare le nostre istituzioni, le nostre economie, le nostre conoscenze e persino le nostre identità.
Riconoscerla, analizzarla e criticarla in tutte le sue manifestazioni – dal sistema agro-alimentare globale alle politiche climatiche, dalle teorie dello sviluppo ai movimenti ecologisti – è il primo, indispensabile passo verso la costruzione di un mondo genuinamente pluriversale, giusto ed equo.
La sfida decoloniale, come ci insegnano questi autori, non è un appello a tornare a un passato pre-coloniale idealizzato, ma un invito a immaginare e costruire futuri possibili al di là della prigione della modernità/colonialità.
Anibal Quijano: "La colonialidad del poder";
Ramon Grosfuogel: "Rompere la colonialità";
Miguel Mellino: "Cittadinanze post-coloniali";
Walter Mignolo: "La colonialidad del saber.
eurocentrismo y ciencias sociales. Perspectivas latinoamericanas";
Farhana Sultana: "Confronting Climate Coloniality. Decolonizing Pathways for Climate Justice";
Gennaro Avallone: "Sfruttamento e resistenze. Migrazioni e agricoltura in Europa, Italia, Piana del Sole";
Ashish Kotari, Arturo Escobar, Alberto Acosta, Ariel Salleh, Christos Zografos e altri: "Pluriverso. Dizionario del post-sviluppo".
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