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Potere, Mente e Terra nelle vene aperte del Mondo.
Il lascito del colonialismo non è un mero residuo storico, ma una struttura persistente e pervasiva che modella il presente globale.
È un edificio concettuale, politico ed economico le cui fondamenta rivelano una logica di dominio che si estende dal saccheggio della terra alla colonizzazione della mente.
Il sociologo peruviano Anibal Quijano ha introdotto la distinzione cruciale tra "colonialismo" e "colonialità".
Il colonialismo è il dominio politico e militare diretto, che è in gran parte terminato nel XX secolo.
La "colonialità", invece, è una struttura di potere più profonda e duratura che sopravvive al colonialismo.
Questa struttura, nata con la conquista delle Americhe, ha classificato la popolazione mondiale secondo una gerarchia razziale e ha imposto il modello di conoscenza europeo come l'unico valido (eurocentrismo).
La "Colonialità del Potere" è una matrice che collega quattro ambiti: il controllo dell'economia (capitalismo), dell'autorità (stato-nazione), del genere/sessualità e, soprattutto, della conoscenza e della soggettività (eurocentrismo).
La razza è l'asse portante che organizza tutte queste sfere.
Quijano sostiene che l'idea di "razza" non esistesse prima della conquista delle Americhe.
Fu inventata per giustificare il dominio degli europei sui popoli indigeni e africani, associando il colore della pelle a ruoli specifici nella nuova divisione globale del lavoro.
L' Eurocentrismo è la dimensione epistemica della colonialità.
Consiste nel presentare la storia e la cultura europea come universali, mentre le altre culture sono viste come "esotiche", "primitive" o "tradizionali".
Questo invalida le forme di conoscenza non-europee e perpetua la dominazione intellettuale.
Il concetto di "colonialità del potere" ha permesso di superare l'idea che il colonialismo sia finito con le indipendenze, fornendo uno strumento per analizzare come le gerarchie razziali, economiche ed epistemiche continuino a strutturare il mondo contemporaneo.
È su questo terreno teorico che l'opera monumentale di Eduardo Galeano, "Le vene aperte dell’America Latina", trova la sua più cruda esemplificazione.
Quest'opera è una cronaca appassionata e meticolosamente documentata di cinque secoli di saccheggio economico dell'America Latina, prima da parte delle potenze coloniali europee (Spagna e Portogallo) e poi da parte dell'imperialismo economico del Regno Unito e, soprattutto, degli Stati Uniti.
Galeano sostiene che il sottosviluppo dell'America Latina non è uno stadio precedente allo sviluppo, ma il prodotto diretto e necessario dello sviluppo altrui: la ricchezza del centro capitalista globale è costruita sulla povertà della periferia.
Sebbene scritto in uno stile letterario e giornalistico, il libro è una delle espressioni più potenti della teoria marxista della "dipendenza".
Mostra come le economie latinoamericane siano state modellate per servire interessi esterni, specializzandosi nell'estrazione di materie prime (oro, argento, zucchero, caffè, petrolio) a basso costo, rimanendo così "dipendenti" dai mercati e dai capitali stranieri.
Galeano demolisce l'idea di un passato coloniale superato.
Traccia una linea di continuità diretta tra le carrette cariche d'argento di Potosí e i prestiti del Fondo Monetario Internazionale.
Cambiano gli attori e i metodi, ma la logica del drenaggio di ricchezza rimane la stessa.
Più che un saggio economico, è un'opera di recupero della memoria dal punto di vista degli sconfitti.
Dà voce agli indigeni sterminati, agli schiavi africani e ai contadini senza terra, trasformando le statistiche economiche in storie di sofferenza e resistenza umana.
Il testo di Galeano ha tradotto complesse teorie economiche in una narrazione accessibile e potente, diventando un testo fondamentale per generazioni di attivisti, studenti e lettori in tutto il mondo.
Il suo grande merito è aver reso tangibile e viscerale il concetto astratto di "struttura economica globale", mostrando le sue conseguenze sulla vita delle persone.
Questa gerarchia, tuttavia, non si sostiene solo con la forza economica e militare.
Necessita di una giustificazione culturale ed epistemica.
È qui che si inserisce il lavoro pionieristico di Edward Said con "Orientalismo".
Said definisce l'orientalismo come un "discorso", cioè un sistema di rappresentazioni, stereotipi e conoscenze prodotto dall'Occidente per comprendere, e quindi dominare, il Medio Oriente (l'"Oriente").
L'orientalismo non è una descrizione neutra, ma una costruzione culturale che crea un'immagine dell'Oriente come irrazionale, dispotico, sensuale e immutabile, in contrapposizione a un Occidente razionale, democratico e progredito.
Basandosi su Foucault, Said sostiene che la conoscenza non è mai innocente.
La vasta produzione di testi accademici, letterari e politici sull'Oriente non serviva solo a conoscerlo, ma a renderlo governabile.
Il sapere orientalista ha legittimato e facilitato il dominio coloniale.
L'Oriente è stato costruito come l'"Altro" speculare dell'Occidente.
Definendo l'Oriente come inferiore, l'Occidente ha potuto definire se stesso, per contrasto, come superiore.
L'identità europea si è forgiata anche attraverso questa costruzione del suo opposto.
Questo processo di "alterizzazione" è fondamentale per la colonialità.
Said distingue tra l'orientalismo "latente" (l'insieme di assunti e stereotipi inconsci e duraturi sull'Oriente) e l'orientalismo "manifesto" (le politiche e le affermazioni esplicite che cambiano nel tempo).
È la persistenza dell'orientalismo latente a renderlo così potente e difficile da sradicare.
"Orientalismo" è considerato il testo fondativo degli studi postcoloniali.
Ha rivoluzionato il modo di intendere la relazione tra cultura e potere, mostrando come la rappresentazione culturale sia una forma di dominio.
La sua analisi è stata estesa ben oltre il Medio Oriente, diventando un modello per studiare come l'Occidente abbia costruito e dominato altre culture in Africa, Asia e America Latina.
Dipesh Chakrabarty, in "Provincializzare l'Europa", contesta la pretesa di universalità del pensiero europeo.
Chakrabarty critica la tendenza implicita nelle scienze sociali e nella storiografia a usare l'Europa come modello universale per comprendere la storia di ogni altra parte del mondo.
Sostiene che i concetti sviluppati per descrivere la storia europea (come stato, capitale, società civile) sono considerati necessari e universali per l'analisi storica, relegando le storie non-occidentali a una posizione di mancanza o di attesa ("non ancora" sviluppate).
"Provincializzare l'Europa" non significa ignorarla, ma storicizzarla, vederla come una provincia del mondo tra le altre, la cui esperienza storica non è un metro di misura universale.
Lo "storicismo eurocentrico" è la narrazione che vede la storia come un unico percorso di sviluppo (dal feudalesimo al capitalismo, per esempio) che tutte le società devono seguire, con l'Europa sempre in testa.
Chakrabarty mostra come questa visione sia una costruzione ideologica.
L'autore esplora la tensione tra la necessità di usare un linguaggio teorico (spesso di origine europea) e il rischio di cancellare le specificità e le differenze irriducibili delle altre storie.
Propone una distinzione tra "Storia 1" (la storia del capitale, un processo astratto e universale) e "Storia 2" (le storie affettive, culturali, religiose che non si lasciano sussumere completamente dalla logica del capitale).
La sfida è scrivere una storia che tenga insieme queste due dimensioni.
"Provincializzare l'Europa" è un'opera fondamentale della critica postcoloniale che opera a un livello profondamente teorico e filosofico.
Ha messo in discussione le fondamenta epistemiche della disciplina storica e delle scienze sociali, aprendo la strada a modi più plurali e meno gerarchici di pensare il passato e il presente globale.
Se Said e Chakrabarty mettono in luce la "violenza epistemica" del colonialismo, altri autori ne analizzano le devastanti conseguenze sulla psiche e sulla cultura del colonizzato.
Frantz Fanon ne "I dannati della terra", analizza gli effetti psicologici devastanti del colonialismo, che interiorizza nel colonizzato un senso di inferiorità e di non-esistenza.
L'autore sostiene che la decolonizzazione non può essere un passaggio pacifico di poteri, ma deve essere un processo violento attraverso cui il colonizzato si riappropria della sua umanità.
Fanon, da psichiatra, descrive il colonialismo come un sistema che genera patologie mentali.
La disumanizzazione e l'oppressione costante creano una "tensione muscolare" nel colonizzato, che può trovare sfogo solo nella violenza.
Per Fanon, la violenza del colonizzato non è solo una risposta strategica, ma un atto "catartico e purificatore".
È il momento in cui il "dannato" smette di essere un oggetto e diventa un soggetto della storia, distruggendo il complesso di inferiorità imposto dal colono.
Fanon lancia un monito profetico contro le élite nazionaliste che guidano le lotte di indipendenza.
Prevede che, una volta al potere, questa borghesia non trasformerà le strutture coloniali, ma si limiterà a prenderne il posto, diventando un intermediario per il neocolonialismo e perpetuando lo sfruttamento del proprio popolo.
"I dannati della terra" è diventato il testo di riferimento per i movimenti di liberazione, dai Black Panthers alle lotte anti-apartheid.
La sua analisi della psicologia del potere e la sua critica spietata al neocolonialismo rimangono di un'attualità sconcertante.
Ngũgĩ wa Thiong'o, in "Decolonizzare la mente", identifica lo strumento più potente di questa colonizzazione psicologica: la lingua.
L'autore sostiene che la colonizzazione più profonda e duratura non è quella economica o politica, ma quella mentale.
Lo strumento principale di questa colonizzazione è l'imposizione della lingua del colonizzatore.
L'adozione dell'inglese, del francese o del portoghese come lingue di istruzione, governo e letteratura crea una scissione culturale nell'individuo e nella comunità, alienandolo dalla propria eredità e dal proprio ambiente.
"Bomba Culturale" è la metafora usata da Ngũgĩ per descrivere l'effetto della lingua coloniale.
Essa annienta la fiducia di un popolo nella propria cultura, arte e lingua, portandolo a vedere il mondo attraverso i valori e le prospettive del dominatore.
Per Ngũgĩ, la lingua non è un semplice strumento di comunicazione.
È un archivio collettivo della memoria, delle esperienze e dei valori di una comunità.
Abbandonare la propria lingua madre significa tagliare i ponti con questa eredità.
L'autore distingue nettamente tra la letteratura scritta da africani in lingue europee (che chiama "afro-europea") e la vera letteratura africana, che deve essere radicata nelle lingue dei popoli africani.
L'opera stessa è il suo "addio all'inglese" come veicolo per la sua scrittura creativa.
"Decolonizzare la mente" ha posto la questione linguistica al centro del dibattito postcoloniale.
Ha sfidato gli scrittori africani a fare una scelta politica radicale e ha ispirato i movimenti per la rivalutazione e l'uso delle lingue indigene in tutto il mondo come atto di resistenza culturale e di liberazione psicologica.
Questa "struttura di dominio" (coloniale), che disumanizza e sfrutta, raggiunge la sua espressione più estrema nel concetto di "Necropolitica" di Achille Mbembe.
Partendo da Foucault e radicalizzando Fanon, Mbembe sostiene che la massima espressione della sovranità coloniale (e post-coloniale) non è solo il potere di gestire la vita (biopolitica), ma il potere di decidere chi può vivere e chi deve morire.
Mbembe sostiene che la modernità, specialmente nelle colonie, non si è basata solo sulla gestione della vita, ma soprattutto sul potere di infliggere la morte.
Necropolitica è, quindi, il potere di decidere chi è "spendibile" e può essere esposto alla morte: la sovranità ultima si manifesta nella capacità di decidere chi deve morire.
Le colonie e, oggi, molti territori postcoloniali, sono luoghi dove lo "stato di eccezione" (la sospensione della legge) diventa la regola; qui, la vita umana non ha la stessa protezione legale o valore morale.
La necropolitica non produce solo la morte fisica, ma anche condizioni di "morte-in-vita": stati di esistenza in cui le persone sono private di ogni diritto e status, ridotte a corpi da gestire o eliminare (es. schiavi nelle piantagioni, abitanti dei campi profughi, persone sotto occupazione militare).
Mbembe identifica la piantagione schiavista e la colonia come i laboratori della necropolitica, dove la violenza estrema e la disumanizzazione erano ( e sono) pratiche quotidiane.
Questa logica, sostiene l'autore, non è scomparsa ma si è globalizzata e si manifesta oggi nelle guerre al terrore, nelle politiche migratorie e nelle zone di conflitto.
"Necropolitica" ha fornito un quadro teorico potentissimo per comprendere le forme contemporanee di violenza e di sovranità.
Ha spostato l'attenzione dalla gestione della vita (biopotere) alla gestione della morte, offrendo uno strumento indispensabile per analizzare la realtà di Palestina, delle frontiere militarizzate e delle "guerre infinite".
La necropolitica è, in fondo, l'applicazione ultima della colonialità del potere: la classificazione razziale determina quali vite hanno valore e quali sono spendibili.
Infine, Malcom Ferdinand, con "Un'ecologia decoloniale", offre una sintesi cruciale, legando indissolubilmente la storia coloniale alla crisi ecologica contemporanea.
Ferdinand sostiene che il pensiero moderno occidentale abbia creato una "doppia frattura": ha separato l'umanità dalla natura (vedendola come una risorsa da dominare) e, allo stesso tempo, ha diviso l'umanità stessa, negando la piena umanità ai popoli colonizzati e schiavizzati, trattandoli come parte di quella stessa "natura" da sfruttare.
La mentalità che ha permesso lo sfruttamento senza limiti delle piantagioni nelle Americhe è la stessa che oggi guida la distruzione degli ecosistemi.
La lotta ecologista e la lotta antirazzista non sono dunque due battaglie separate, ma entrambe combattono contro la stessa logica di dominio.
Ferdinand critica l'idea di un "Antropocene" indifferenziato, che colpevolizza l'intera umanità per la crisi climatica.
Propone invece di parlare di un' "abitazione coloniale" del mondo, per sottolineare che la responsabilità storica ricade su quel modello di civiltà che ha unito capitalismo, colonialismo e supremazia bianca.
Per Ferdinand, un'ecologia decoloniale non è solo una teoria.
Significa ascoltare e valorizzare le conoscenze e le pratiche dei popoli indigeni e afro-discendenti, che hanno sempre resistito alla frattura tra umanità e natura.
Significa lottare per una giustizia che sia contemporaneamente sociale e ambientale.
Quest'opera colma un vuoto fondamentale, connettendo in modo sistematico il pensiero decoloniale e il pensiero ecologista.
Offre un'alternativa potente all'ecologismo mainstream, che spesso ignora le questioni di giustizia razziale e storica, proponendo una visione del mondo in cui la liberazione umana e la salute del pianeta sono inseparabili.
Il pensiero di Ferdinand chiude il cerchio, dimostrando che la colonialità del potere (Quijano) non ha solo sfruttato il lavoro e colonizzato la mente (Fanon, Ngũgĩ), ma ha anche avvelenato la terra, rendendo la decolonizzazione una condizione necessaria non solo per la giustizia sociale, ma per la sopravvivenza stessa del pianeta.
In conclusione, l'intreccio del pensiero di questi autori disegna una mappa completa dell'edificio coloniale.
Quijano ne fornisce la planimetria strutturale (la colonialità del potere), Galeano ne descrive il saccheggio economico, Said e Chakrabarty ne smascherano le fondamenta epistemiche, Fanon e Ngũgĩ ne esplorano le prigioni psicologiche e culturali, Mbembe ne illumina le camere di tortura necropolitica e Ferdinand ne rivela l'impatto devastante sull'intero ecosistema.
Insieme, dimostrano che la decolonizzazione non è un evento del passato, ma un progetto urgente per il futuro: un progetto che richiede non solo la redistribuzione della ricchezza, ma anche la provincializzazione delle conoscenze dominanti, la guarigione delle menti e, in definitiva, la reinvenzione di una relazione non più predatoria con il pianeta e con tutti i suoi abitanti.
Aníbal Quijano: "La colonialita' del potere";
Eduardo Galeano: "Le vene aperte dell’America Latina";
Edward Said: "Orientalismo";
Dipesh Chakrabarty: "Provincializzare l'Europa";
Frantz Fanon: "I dannati della terra";
Ngũgĩ wa Thiong'o: "Decolonizzare la mente: la politica della Lingua nella letteratura africana";
Achille Mbembe: "Necropolitica";
Malcom Ferdinand: "Un'ecologia decoloniale".
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