La "Nazione Costruita": invenzione egemonica e alterità rimosse.

di socialclimatejustice.blogspot.com


Il concetto di nazione

Lungi dall'essere una categoria astorica e naturale, l'idea di nazione rappresenta uno dei più potenti e complessi costrutti della modernità.
La sua genesi, le sue modalità di diffusione e le sue intrinseche contraddizioni sono al centro di un dibattito storiografico fondamentale.
Per comprendere il processo di nation-building, attraverso un paradigma teorico globale e la sua applicazione specifica al contesto italiano (fino alla decostruzione critica delle sue implicazioni nel rapporto tra Nord e Sud), si metterà in evidenza come la "comunità immaginata" italiana, forgiata attraverso un potente canone culturale risorgimentale, abbia prodotto un "rovescio della nazione": l'invenzione di un Mezzogiorno subalterno, funzionale alla stessa narrazione egemonica.

Il punto di partenza ineludibile è la teoria di Benedict Anderson, esposta nel suo lavoro "Comunità immaginate".
Anderson definisce la nazione: una comunità politica "immaginata come intrinsecamente limitata e sovrana".
È "immaginata" perché gli abitanti di una nazione non si conosceranno mai tutti, eppure nella mente di ciascuno vive l'immagine della loro comunione.
Il motore di questa immaginazione collettiva viene individuato da Anderson nel "capitalismo a stampa" (print-capitalism).
La diffusione di romanzi e giornali nel XVIII e XIX secolo permise a milioni di persone di pensarsi simultaneamente come parte di un unico orizzonte temporale e culturale, leggendo le stesse storie nella medesima lingua vernacolare standardizzata.
Si creo' così un'esperienza condivisa e anonima che costituisce tuttora il fondamento psicologico del sentimento nazionale.
La nazione non è dunque un dato naturale, ma un costrutto culturale reale e potente, capace di muovere a sacrifici estremi.

Alberto Mario Banti, nel suo libro "Sublime Madre Nostra", applica e specializza magistralmente il paradigma andersoniano al caso italiano.
Banti indaga come concretamente l'Italia sia stata "immaginata" da una minoranza di patrioti e intellettuali durante il Risorgimento.
La sua analisi si concentra sull'individuazione di un "canone risorgimentale": un insieme ricorrente di narrazioni, figure, allegorie e archetipi diffusi attraverso la letteratura, il melodramma, la pittura e la libellistica.
Questo canone attinse a piene mani da un repertorio preesistente e di facile presa emotiva: la tradizione cristiana (martirio, sacrificio, redenzione) e il linguaggio dell'onore e della famiglia.
La nazione fu descritta come una comunità di sangue, una grande famiglia legata da legami parentali.
L'Italia è la "Sublime Madre Nostra", una figura materna violata da invasori stranieri, che i suoi figli-eroi hanno il dovere di difendere e redimere, anche a costo della vita.
Attraverso questo potente apparato simbolico, l'idea astratta di "patria" acquisì una carica affettiva e mobilitante, capace di trasformare le idee di un'élite culturale in un movimento politico.
Il lavoro di Banti, quindi, conferma l'intuizione di Anderson e ne mostra l'esatta ingegneria culturale nel contesto italiano.
Tuttavia, ogni narrazione egemonica produce, per definizione, delle esclusioni. 

Carmine Conelli, con il suo "Il rovescio della Nazione", svela il lato oscuro e rimosso del "discorso nazional-patriottico".
Conelli analizza come, parallelamente alla costruzione del canone patriottico, si sia prodotta una narrazione denigratoria e alterizzante nei confronti del Mezzogiorno d'Italia, in particolare durante il cruciale decennio post-unitario (1860-1870).
Il "brigante meridionale" ad esempio, combattuto ferocemente dallo Stato sabaudo, non veniva rappresentato solo come un nemico politico o un ribelle sociale, ma come l'antitesi antropologica del patriota risorgimentale.
Se il patriota era virtuoso, colto e pronto al sacrificio per la nazione-famiglia, il brigante era descritto con tratti ferini, barbarici e irrazionali.
Conelli dimostra come la classe dirigente settentrionale abbia utilizzato un discorso razzializzante, associando il Sud Italia all'Africa e alla "barbarie", per legittimare una conquista militare e un'imposizione legislativa (come la Legge Pica) che sospendeva i più elementari diritti costituzionali.
Utilizzando gli strumenti degli studi postcoloniali e decoloniali, Conelli formula una critica al "meridionalismo vittimista" discostandosi da narrazioni consolatorie (o neoborboniche) che idealizzano un passato perduto, per concentrarsi invece sulle modalità materiali e discorsive con cui si è prodotta la subalternità, senza negare le responsabilità delle élite meridionali.
La costruzione della comunità nazionale italiana non è stato un processo di inclusione armonica, ma ha implicato la designazione di un "nemico interno", un'alterità su cui proiettare tutto ciò che la nuova nazione voleva espellere da sé.
Il Sud diventa il "rovescio" necessario a definire, per contrasto, il "diritto" della nazione civilizzata.

Su questa linea critica si è spinto ancora più a fondo Nicola Zitara, la cui opera "L'invenzione del Mezzogiorno" rappresenta una tesi, per certi versi, ancor più radicale.
Per Zitara, il Mezzogiorno come entità unitaria, arretrata e problematica non è un dato preesistente all'Unità, ma una vera e propria "invenzione" prodotta dalle politiche economiche e ideologiche dello Stato unitario.
Zitara, da una prospettiva marxista, sostiene che l'unificazione del mercato nazionale non fu un processo neutro, bensì un atto di "colonialismo interno".
Lo Stato sabaudo avrebbe deliberatamente smantellato l'apparato industriale e il sistema bancario del Regno delle Due Sicilie, per trasformare il Sud in un mercato di sbocco per le merci prodotte al Nord e in un serbatoio di manodopera a basso costo e di emigrazione.
L'"invenzione" dunque non è solo economica, ma anche e soprattutto ideologica.
La nascente "questione meridionale" e il discorso "meridionalista" (spesso portato avanti da intellettuali meridionali) diventano, in quest'ottica, l'apparato sovrastrutturale che giustifica la subalternità economica, attribuendola a presunti fattori atavici, culturali o addirittura razziali del popolo meridionale, invece che a precise scelte di politica economica dello Stato centrale. 

Conclusioni 

L'analisi di Zitara completa il percorso di decostruzione: l'atto di "immaginare" la nazione (Anderson/Banti) non è stato solo un'operazione culturale, ma ha avuto come suo correlato economico e politico l'atto di "inventare" una sua parte per farne una colonia interna.
La lettura congiunta di questi autori offre una visione poliedrica e profondamente critica del processo di formazione nazionale italiano.
Anderson fornisce il paradigma teorico universale della nazione come "costrutto culturale".
Banti ne illustra la specifica e potente declinazione nel canone risorgimentale, che ha dato un'anima e un cuore all'Italia.
Conelli e Zitara, infine, ne svelano il costo umano, politico ed economico, mostrando come la creazione di quella stessa anima nazionale abbia richiesto la simultanea costruzione di un "altro subalterno".
La "Sublime Madre Nostra" ha generato figli legittimi, i patrioti, e figli illegittimi, i briganti.
L'immaginazione della comunità nazionale italiana si è nutrita dell'invenzione del suo rovescio, il Mezzogiorno.
Questa dialettica tra narrazione egemonica e alterità rimosse non è solo una questione storiografica, ma continua a informare le fratture economiche, sociali e culturali dell'Italia contemporanea, dimostrando la persistente e talvolta dolorosa eredità di come la nazione sia stata immaginata, e di come sia tuttora costruita.


- "Comunità immaginate"; di Benedict Anderson;

- "Sublime Madre Nostra"; di Alberto Mario Banti;

- "Il rovescio della Nazione"; di Carmine Conelli;

- "L'invenzione del mezzogiorno"; di Nicola Zitara.



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