Manifesto per un'ecologia politica rivoluzionaria

di socialclimatejustice.blogspot.com


Le radici storiche del saccheggio: colonialismo, capitalismo e idea di  "Natura"

La crisi ecologica contemporanea non può essere compresa senza un'attenta analisi delle sue radici storiche e sistemiche, in particolare del ruolo svolto dal colonialismo e dall'ascesa del capitalismo.
Gli autori Jason Moore e Raj Patel, nel loro lavoro "Una storia del mondo a buon mercato", offrono una lente attraverso cui osservare come il capitalismo sia emerso e si sia consolidato appropriandosi non solo di forza lavoro, ma anche di natura e lavoro di cura, considerandoli come risorse "a buon mercato".
Questa logica di "cheap nature" — o natura a buon mercato — è intrinsecamente legata all'espansione coloniale. 
Come spiega Moore: "Il capitale non si limita a produrre merci; esso produce anche la Natura, ma una natura prodotta a buon mercato, considerata come esterna e illimitata" (Moore, 2015).
Questa esternalizzazione dei costi ambientali e sociali ha reso possibile un'accumulazione di ricchezza senza precedenti in Occidente, ma a spese delle colonie e di interi ecosistemi.
Questo processo è stato vividamente illustrato nell'opera dello storico Alfred Crosby, "Imperialismo ecologico", che ha documentato come le conquiste europee non fossero state solo un fatto militare o politico, ma anche un fenomeno biologico.
L'introduzione, deliberata o accidentale, di specie aliene — piante, animali, patogeni — nelle "neo-Europe" ha radicalmente alterato gli ecosistemi indigeni, spesso spazzando via le specie autoctone e le popolazioni che su di esse facevano affidamento.
Crosby ha dimostrato come "la biodiversità del mondo non occidentale sia stata impoverita per arricchire quella del mondo occidentale" (Crosby, 1986), fornendo il contesto ecologico per il saccheggio di risorse e l'insediamento di nuove forme di produzione agricola, spesso monoculture intensive, a discapito della fertilità del suolo e della biodiversità.
Le implicazioni di questa violenza ecologica sulle popolazioni umane sono state esplorate con straziante dettaglio dallo storico David Stannard in "Olocausto americano".
Stannard ha rivelato come il genocidio delle popolazioni indigene nelle Americhe non sia stato un effetto collaterale, ma una componente centrale della conquista e dell'accaparramento delle terre e delle risorse.
L'annientamento di intere civiltà e la distruzione delle loro pratiche di gestione del territorio hanno aperto la strada a uno sfruttamento indiscriminato, ponendo le basi per l'attuale crisi ecologica.
Il suo lavoro sottolinea come "l'annientamento demografico delle popolazioni indigene e la contemporanea devastazione ambientale furono due facce della stessa medaglia coloniale" (Stannard, 1992), un'interconnessione cruciale spesso omessa nelle narrazioni tradizionali.
Lo scrittore, giornalista e antropologo indiano Amitav Ghosh ne "La maledizione della noce moscata" espande questa prospettiva, tracciando la storia della noce moscata e la sua connessione con la violenza coloniale nelle Isole Banda.
Egli mostra come la sete europea per le spezie abbia scatenato una brutalità inaudita, annientando popolazioni e alterando paesaggi per saziare la sete di profitto dei colonizzatori olandesi.
Ghosh suggerisce che le crisi climatiche di oggi siano una continuazione di questa logica di dominio, argomentando come "la catastrofe climatica sia radicata nelle stesse pulsioni che hanno animato il colonialismo" (Ghosh, 2021).
Il suo lavoro mette in luce quanto la negazione dell'agentivita' non umana e la visione della natura come mera risorsa siano eredità dirette dell'era coloniale.
L'analisi dello storico ed economista trinidadiano Eric Williams in "Capitalismo e schiavitù" rafforza ulteriormente queste connessioni, dimostrando come la ricchezza accumulata attraverso la tratta degli schiavi e la produzione agricola schiavistica nelle Americhe sia stata un pilastro fondamentale per l'ascesa del capitalismo industriale in Europa.
La manodopera schiavile forniva una forza lavoro "a buon mercato" in un senso ancor più brutale di quello descritto da Moore e Patel, un costo umano incalcolabile che ha finanziato l'espansione economica e il consumo di risorse a vantaggio del nascente capitalismo europeo.
"Il capitale finanziario della tratta negriera e il capitale industriale delle piantagioni erano indissolubilmente legati all'accumulazione di capitale in Gran Bretagna" (Williams, 1944).
L'autore americano Howard W. French, in "Born in Blackness", approfondisce ulteriormente le origini e l'impatto della tratta degli schiavi africani, rivelando come essa non sia stata un'aberrazione, quanto un elemento costitutivo della modernità capitalista e delle sue implicazioni ambientali globali.
La violenza perpetrata sui corpi degli schiavi rifletteva, in scala più ampia, la violenza esercitata sulla terra.
Una complessa genealogia rivela dunque come il colonialismo non fosse solo un fenomeno di conquista politica, ma un motore essenziale per la costruzione di un sistema capitalistico globale basato sull'appropriazione e sullo sfruttamento illimitato di risorse umane e naturali.
La "natura a buon mercato" di Moore, "l'imperialismo ecologico" di Crosby, "l'olocausto americano" di Stannard, la "maledizione delle spezie" di Ghosh e il legame tra schiavitù e capitalismo descritto da Williams e French, dipingono un quadro coerente di come il saccheggio e la violenza siano stati non solo tollerati, ma intrinseci alla formazione del mondo moderno, lasciando un'eredità di disuguaglianze e degrado ambientale che tuttora affligge l'intero pianeta.

La costruzione di gerarchie e la "Miseducazione"

L'impatto del colonialismo e del capitalismo non si è limitato alla sola sfera economica ed ecologica, ma ha pervaso anche la produzione di conoscenza e l'instaurazione di gerarchie sociali e cognitive.
Il pensiero dominante ha legittimato lo sfruttamento e l'oppressione, e diverse voci critiche hanno cercato di smascherare e decostruire tali narrazioni.
Lo scrittore statunitense di origine palestinese Edward Said, con il suo fondamentale "Orientalismo", ci mostra come la costruzione discorsiva dell'Oriente da parte dell'Occidente non fosse un'innocente rappresentazione culturale, bensì uno strumento di potere e controllo.
Said argomenta che l'Orientalismo creò una "geografia immaginaria" che serviva a "legittimare la colonizzazione e il dominio dell'Occidente sull'Oriente" (Said, 1978). Questa creazione di un "altro" inferiore e irrazionale non solo giustificava la conquista politica ed economica, ma si estendeva anche alla percezione della natura nei territori colonizzati, considerata selvaggia e bisognosa di essere "civilizzata" o, più spesso, semplicemente sfruttata.
L'Orientalismo, quindi, non è solo una critica culturale, ma una lente per comprendere come la costruzione di alterità abbia permesso lo sviluppo di logiche estrattive.
Questa logica di svalutazione e controllo si riflette acutamente nell'analisi dello storico e scrittore afroamericano Carter G. Woodson ne "La Miseducazione del Negro".
Woodson denuncia come il sistema educativo americano abbia deliberatamente negato l'intelligenza e la storia dei neri, instillando un senso di inferiorità e adattamento all'oppressione.
La "miseducazione" non si limita all'ambito razziale, ma si estende alla disconnessione degli individui dalle proprie radici culturali e, per estensione, dalle proprie relazioni tradizionali con l'ambiente.
Woodson sottolinea che "se si controlla la mente di un uomo, non ci si deve più preoccupare del suo corpo" (Woodson, 1933), un principio che può essere esteso al dominio coloniale sui popoli e sui loro modi di vivere una relazione non gerarchica con la natura.
L'intersezione di queste gerarchie è stata approfondita dalla filosofa ed attivista femminista Angela Davis in "Donne, razza e classe".
Davis rivela come le donne, in particolare le donne di colore, siano state soggette a una doppia o tripla oppressione, fungendo da pilastri invisibili del sistema capitalistico e coloniale.
La schiavitù e la successiva segregazione hanno sfruttato il lavoro riproduttivo e produttivo delle donne nere in modi che hanno sostenuto l'accumulazione di capitale, mentre i loro corpi venivano disumanizzati e la loro conoscenza marginalizzata.
Davis dimostra che "non si può comprendere la storia del capitalismo senza riconoscere il ruolo centrale della schiavitù e dell'oppressione delle donne" (Davis, 1981), un'oppressione che si estende anche al controllo dei territori e delle risorse naturali associati alle loro comunità.
Il concetto di "colonialità del potere" del sociologo peruviano Aníbal Quijano fornisce un quadro teorico essenziale per comprendere la persistenza di queste gerarchie.
Quijano argomenta che, anche dopo l'indipendenza formale, le strutture di potere ereditate dal colonialismo continuino ad operare, influenzando una gerarchizzazione sociale basata sulla razza, le forme di controllo del lavoro e la produzione di conoscenza.
La "colonialità del potere" è "uno dei fenomeni più duraturi ed efficaci del modello di potere capitalistico mondiale" (Quijano, 2000).
Questo schema di potere non solo riproduce disuguaglianze sociali ed economiche, ma informa anche il modo in cui le risorse naturali vengono gestite, perpetuando un modello estrattivo che privilegia gli interessi delle elite globali a discapito delle comunità locali e degli ecosistemi.
Lo storico e sociologo Paul Gilroy, in "Black Atlantic", esplora la formazione di identità e culture "nere" attraverso la diaspora atlantica, un'esperienza che ha generato prospettive uniche sulle relazioni di potere e sull'ambiente.
Gilroy sostiene che l'Atlantico nero non è solo una rotta geografica, ma uno spazio culturale e intellettuale dove le esperienze di schiavitù e oppressione hanno forgiato una critica radicale alla modernità occidentale e alle sue pretese di progresso.
Le narrazioni e le pratiche sviluppate in questo spazio offrono "una contro-cultura alla modernità capitalista e razziale" (Gilroy, 1993), implicando una diversa relazione con il tempo, la storia e, implicitamente, con la natura.
Nancy Fraser, filosofa e femminista statunitense, con il suo concetto di "Capitalismo cannibale", estende ulteriormente l'analisi delle logiche di sfruttamento.
Fraser sostiene che il capitalismo non solo sfrutti la forza lavoro, ma "cannibalizzi" anche altre dimensioni essenziali per la sua riproduzione, come il lavoro riproduttivo, la democrazia e la natura stessa.
"Il capitalismo non si limita a estrarre valore dal lavoro salariato, ma si appropria sistematicamente delle condizioni non mercificate che lo rendono possibile" (Fraser, 2022).
Questa appropriazione e svalutazione di ciò che non è monetizzato, comprese le risorse naturali e il lavoro di cura, rivela come il sistema dipenda da esternalità che, una volta esaurite, ne minano le stesse condizioni di riproduzione.
Questi autori dimostrano come la costruzione di gerarchie basate su razza, genere e cultura non sia un mero corollario del colonialismo e del capitalismo, ma una componente essenziale per il loro funzionamento.
L'Orientalismo, la violenza epistemica, l'oppressione di genere e razziale, la colonialità del potere e il "cannibalismo" del capitalismo sono meccanismi interconnessi che hanno non solo legittimato il dominio umano su altri esseri umani, ma anche facilitato una visione strumentale e predatoria della natura, ponendo le basi per la crisi ecologica attuale.

L'impatto sulla natura e i limiti della Modernità

Se le riflessioni degli autori precedentemente citati hanno esplorato le radici storiche e le strutture di potere che hanno reso possibile il saccheggio, altri autori si sono concentrati sulle conseguenze dirette di tali processi sull'ambiente naturale e sulla critica alla visione antropocentrica della modernità.
Lo storico ecosocialista Ian Angus nel suo "Anthropocene", ci invita a riflettere sull'impatto trasformativo dell'attività umana sul sistema Terra.
Angus, pur riconoscendo la validità scientifica del concetto, critica le sue interpretazioni più superficiali che tendono a "depoliticizzarne" l'impatto, attribuendolo genericamente a "l'umanità" anziché a specifiche forme di organizzazione sociale ed economica, ovvero al capitalismo coloniale.
Per Angus, il dibattito sull'Antropocene deve essere "un richiamo all'azione per il cambiamento sistemico, non una mera constatazione di un fatto geologico" (Angus, 2016).
Egli sottolinea che non tutti gli esseri umani hanno contribuito allo stesso modo alla crisi, e che le responsabilità storiche e attuali sono profondamente diseguali.
La consapevolezza della devastazione ambientale non è un fenomeno recente.
La biologa e zoologa Rachel Carson, con il suo pionieristico "Primavera silenziosa", già nel 1962 sollevava l'allarme sugli effetti tossici dei pesticidi sintetici sull'ambiente e sulla salute umana.
Il suo lavoro non solo ha innescato il movimento ambientalista moderno, ma ha anche rivelato come la "fede cieca nel progresso tecnologico e nella manipolazione della natura" (Carson, 1962) potesse portare a conseguenze disastrose e inaspettate.
L'opera di Carson, dunque, non è solo una denuncia ecologica, ma una critica profonda a una modernità che ignora i limiti e le interconnessioni degli ecosistemi, una modernità che può essere letta come l'esito logico della visione estrattiva avviata dal colonialismo e dal capitalismo.
Questa visione strumentale della natura è stata ulteriormente approfondita dalla filosofa ecofemminista Carolyn Merchant ne "La morte della natura: Donne, Ecologia e Rivoluzione Scientifica".
Merchant traccia la transizione da una visione organica del mondo, dove la natura era percepita come un organismo vivente (spesso associata al femminile), a una visione meccanicistica e oggettivante.
Questa "morte della natura" come entità vivente ha liberato il campo per il suo sfruttamento illimitato, trasformandola in una mera risorsa inerte: "La rivoluzione scientifica e il nascente capitalismo andarono di pari passo nel disincantare il mondo, rendendo la natura disponibile per la manipolazione e il profitto" (Merchant, 1980).
La sua analisi rivela come il dominio sulla natura sia intrinsecamente legato al dominio sul corpo femminile e alle logiche patriarcali che hanno accompagnato l'ascesa della modernità.
Il filosofo britannico Timothy Morton, nel suo "Noi esseri ecologici", si spinge fino a riconsiderare la nostra relazione ontologica con l'ambiente.
Morton, come altri, sfida l'idea di una separazione netta tra "umanita'" e "natura", suggerendo che gli esseri umani siano intrinsecamente "esseri ecologici", perché profondamente interconnessi con il loro ambiente.
"Non c'è un fuori del sistema ecologico; siamo in esso e ne facciamo parte" (Morton, 2018).
Questa prospettiva invita a superare il dualismo cartesiano che ha informato gran parte del pensiero occidentale e che ha permesso di trattare la natura come qualcosa di esterno e dominabile.
La sua opera fornisce una base filosofica per una "ricomposizione delle relazioni", una condizione necessaria per superare la crisi ecologica generata da una visione dicotomica e gerarchica.
Le logiche di appropriazione e strumentalizzazione, radicate nel colonialismo e nel capitalismo, hanno condotto a una devastante crisi ecologica.
L'Antropocene è la testimonianza geologica di questo impatto; le denunce di Carson e Merchant evidenziano il progressivo disincanto e la "morte" di una natura percepita come viva.
Morton ci spinge a riconoscere la nostra inestricabile appartenenza all'ecosistema, suggerendo che solo una riconsiderazione profonda della nostra ontologia può fornire la base per un futuro più giusto, lontano dalle premesse di una modernità intrinsecamente distruttiva.

Resistenze, alternative e "Decolonizzazione del pensiero"

Di fronte a questa profonda crisi sistemica emerge un coro di voci che non solo denunciano le ingiustizie, ma propongono anche vie di resistenza e alternative per una radicale decolonizzazione del pensiero e delle pratiche.
Il recupero delle conoscenze indigene, la critica alle strutture di potere e l'immaginazione di nuove forme di organizzazione sociale possono aprire spiragli per un futuro più equo e giusto.
La devastazione culturale e sociale portata dal colonialismo è stata magistralmente narrata dallo scrittore nigeriano Chinua Achebe in "Things fall apart".
L'opera descrive la disintegrazione della società Igbo causata dall'arrivo dei missionari e degli amministratori coloniali, mostrando come "la colonizzazione non fosse solo una questione di terra, ma di distruzione di interi mondi di significato e di vita" (Achebe, 1958).
La perdita delle tradizioni, delle strutture comunitarie e delle cosmologie indigene, che spesso includevano una relazione rispettosa con l'ambiente, rappresenta una tragedia che ha precluso percorsi di sviluppo alternativi e più equi.
Una vigorosa risposta a questa distruzione culturale è stata articolata dallo scrittore e drammaturgo keniota Ngũgĩ wa Thiong'o in "Decolonizzare la Mente".
Ngũgĩ sostiene che la vera liberazione non può avvenire senza la decolonizzazione della mente, che implica il recupero e la valorizzazione delle lingue e delle culture indigene.
"Il linguaggio è il portatore della cultura... e se la lingua è colonizzata, anche la mente lo è" (Ngũgĩ wa Thiong'o, 1986).
Per Ngũgĩ, il ritorno alle proprie lingue e narrazioni è un atto rivoluzionario che permette di rivitalizzare modi di pensare e di relazionarsi con il mondo che non sono improntati alla logica estrattiva occidentale, aprendo la strada a modelli ecologici rigenerativi intrinseci alle culture autoctone.
Le dinamiche di potere e resistenza nel contesto coloniale sono state esplorate con profondità dallo psichiatra martinicano Frantz Fanon ne "I dannati della terra".
Fanon analizza la psicologia del colonialismo e la necessità di una violenza liberatrice per spezzare le catene dell'oppressione.
Il suo lavoro sottolinea come la decolonizzazione sia un processo radicale che richiede la rottura con le strutture mentali e materiali imposte dal colonizzatore.
Sebbene non si occupi direttamente di ecologia, la sua enfasi sulla sovranità e sull'autodeterminazione dei popoli colonizzati può essere estesa alla capacità di gestire il proprio territorio e le proprie risorse senza l'ingerenza di poteri esterni.
Il filosofo camerunese Achille Mbembe, con la sua teoria della "Necropolitica", offre un'ulteriore lente per comprendere le estreme conseguenze del potere moderno.
Mbembe argomenta che il potere sovrano si manifesti sempre più nella capacità di decidere chi può vivere e chi deve morire, estendendo questa logica alle popolazioni marginalizzate e, implicitamente, agli ecosistemi sacrificabili.
La necropolitica coloniale si manifesta nel "rendere la vita precaria e la morte imminente per intere popolazioni" (Mbembe, 2003), una logica che si applica anche ai territori e alle specifiche li abitano, trasformati in "zone di sacrificio" in nome del profitto.
Contrariamente alla narrativa capitalista di scarsità e progresso, l'antropologo Marshall Sahlins in "L'economia dell'età della pietra" presenta una visione provocatoria delle originarie "società dell'abbondanza".
Sahlins dimostra come le società di cacciatori-raccoglitori, spesso considerate primitive dal pensiero occidentale, praticassero un'economia del benessere basata sul soddisfacimento dei bisogni con minor sforzo e maggiore tempo libero rispetto alla società industriale.
Questa "original affluent society" (Sahlins, 1972) sfida l'idea che la scarsità sia una condizione naturale dell'umanità e suggerisce che le società pre-moderne avessero modelli economici sostenibili e una diversa, non estrattiva, relazione con gli ecosistemi, proponendo un'alternativa radicale ai fondamenti economici del capitalismo.
A completare questa critica alle forme di potere e all'organizzazione sociale, l'antropologo ed etnografo francese Pierre Clastres in "Società contro lo Stato" analizza come le società indigene, spesso definite "primitive", fossero in realtà strutturate per prevenire l'emergere del potere coercitivo e della gerarchia. Clastres argomenta che queste società "volevano consapevolmente evitare la divisione sociale che è all'origine del potere coercitivo" (Clastres, 1974), fornendo spunti preziosi per modelli sociali non gerarchici che potrebbero essere intrinsecamente più ecologici e meno propensi allo sfruttamento.
L'ecologia sociale del filosofo Murray Bookchin, esposta in "L'ecologia della libertà", unifica queste critiche, sostenendo che la crisi ecologica sia profondamente radicata nelle gerarchie sociali e nello sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Per Bookchin, "la dominazione della natura da parte dell'uomo deriva storicamente dalla dominazione dell'uomo sull'uomo" (Bookchin, 1982).
La sua proposta di una società decentrata, ecologica e non gerarchica, basata sull'autonomia e sulla municipalità, offre un percorso concreto per la liberazione umana ed ecologica, contrapponendosi radicalmente alle logiche dello stato e del capitale.
L'antropologo David Graeber, in "Debito: i primi 5000 anni", svela il ruolo del debito come strumento di potere e sottomissione; un meccanismo che ha permeato le relazioni sociali ed economiche fin dall'antichità e che ha avuto un ruolo cruciale nell'espansione coloniale.
Graeber mostra come il debito sia stato utilizzato per sottomettere intere popolazioni e confiscare le loro terre e risorse, contribuendo alla logica di accumulazione che alimenta il degrado ambientale.
La sua analisi del debito come relazione morale e politica piuttosto che meramente economica, "rivela il modo in cui il denaro e il mercato sono stati usati per giustificare e perpetuare forme di violenza e sfruttamento" (Graeber, 2011).
Le rivoluzioni che hanno sfidato queste strutture sono state esplorate dallo storico trinidadiano C.L.R. James in "I giacobini neri", testo che narra la rivoluzione haitiana come epico esempio di lotta contro l'oppressione coloniale e la schiavitù.
James celebra la capacità degli schiavi di auto-organizzarsi e resistere alle logiche coloniali.
Questo esempio storico di autodeterminazione radicale offre un potente precedente per le attuali lotte per la giustizia ambientale e sociale, mostrando come la liberazione umana e quella della terra siano profondamente intrecciate.
Il filosofo politico Malcom Ferdinand, con la sua proposta di una "Ecologia decoloniale", e l'antropologo Jason Hickel, con la sua critica dello sviluppo in "The Divide", offrono approfondite sintesi contemporanee di queste prospettive.
Ferdinand argomenta in favore di un'ecologia che sia intrinsecamente "decoloniale", integrando le lotte per la giustizia sociale e ambientale e riconoscendo il ruolo centrale delle esperienze e delle conoscenze dei popoli colonizzati.
Egli sostiene che "non può esserci giustizia ecologica senza giustizia decoloniale" (Ferdinand, 2019).
Hickel, dal canto suo, in "The Divide", smaschera le radici storiche delle disuguaglianze globali, dimostrando come il "sottosviluppo" dei paesi del Sud globale sia il risultato diretto dell'estrazione di ricchezza da parte dei colonizzatori, insistendo sulla necessità di una "Decrescita" nel Nord e di un ripensamento radicale del modello di sviluppo per raggiungere una maggiore equità globale: "L'attuale modello di sviluppo basato sulla crescita infinita è insostenibile e immorale" (Hickel, 2017).
Il sociologo Razmig Keucheyan in "La natura è un campo di battaglia" ribadisce che le questioni ecologiche non sono neutre, ma intrinsecamente politiche e sociali.
La natura non è un'entità passiva, ma "un teatro di lotte sociali e politiche, dove si scontrano interessi divergenti e visioni del mondo" (Keucheyan, 2014).
Questo riconoscimento rafforza la necessità di un approccio conflittuale e radicale per affrontare la crisi ecologica, che non può essere risolta solo con soluzioni tecnologiche, ma richiede una trasformazione profonda delle relazioni di potere e una decolonizzazione delle menti e delle pratiche.

Conclusione

Un'articolata esplorazione delle profonde interconnessioni tra colonialismo, capitalismo e l'attuale crisi ecologica, deve attingere alla ricchezza di una pluralità di prospettive.
Il colonialismo ha non solo saccheggiato territori e risorse, ma anche gettato le basi per l'emergere di un capitalismo intrinsecamente predatorio, basato sull'appropriazione di natura e lavoro "a buon mercato" (Moore, Williams, French). Questo processo è stato reso possibile e legittimato dalla costruzione di gerarchie razziali e di genere (Said, Woodson, Davis, Quijano, Federici), che hanno permesso la disumanizzazione di intere popolazioni e la strumentalizzazione della natura (Merchant).
La conseguenza più tangibile di queste logiche è l'attuale crisi ecologica, manifestata nell'era dell'Antropocene (Angus, Ghosh) nonché nelle devastazioni denunciate a suo tempo da Carson.
Tuttavia, la narrazione non si esaurisce nella sola constatazione del disastro.
Una potente "contro-narrazione" evidenzia le resistenze storiche e contemporanee, e le alternative possibili.
Dalla decolonizzazione della mente (Ngũgĩ wa Thiong'o) e dalle lotte per l'autodeterminazione (Fanon, James), alle visioni di società senza stato e di abbondanza originale (Clastres, Sahlins), emerge la possibilità di un'ecologia della libertà (Bookchin) radicata nella giustizia decoloniale (Ferdinand).
La crisi ecologica non è un problema meramente tecnico o scientifico, ma una crisi sistemica profonda, le cui radici affondano nelle strutture di potere, nelle ideologie e nelle pratiche ereditate dall'epoca coloniale. 
Ignorare queste interconnessioni significa proporre soluzioni parziali e inefficaci. Solo una radicale decolonizzazione — non solo politica ed economica, ma epistemologica — può aprire la strada ad un futuro in cui la relazione tra esseri umani, e tra umanità ed ecosistemi, sia basata su reciprocità, rispetto e giustizia piuttosto che su dominio e sfruttamento.
È quanto mai necessario riconoscere che la natura è un campo di battaglia (Keucheyan) e che gli esseri umani sono, inestricabilmente, esseri ecologici (Morton).
La sfida che abbiamo di fronte è quella di trasformare radicalmente il nostro modo di abitare il pianeta, imparando dalle voci marginalizzate e dalle esperienze di resistenza che hanno da sempre offerto alternative alle logiche distruttive del capitale e del colonialismo.
Si tratta di un compito arduo, ma indispensabile per la sopravvivenza e il benessere di tutte le forme di vita sulla Terra.

- Achebe Chinua : Things fall apart;

- Angus Ian : Anthropocene;

- Bookchin Murray : L'ecologia della libertà;

- Carson Rachel : Primavera silenziosa;

- Clastres Pierre : Società contro lo stato;

- Crosby Alfred : Imperialismo ecologico;

- Davis Angela : donne razza e classe;

- Fanon Frantz : I dannati della terra;

- Federici Silvia : Calibano e la strega;

- Ferdinand Malcom : Un'ecologia decoloniale;

- Fraser Nancy : Capitalismo cannibale;

- French Howard W. : Born in blackness;

- Ghosh Amitav : La maledizione della noce moscata;

- Gilroy Paul : Black Atlantic;

- Graeber David : Debito i primi 5000 anni;

-  Hickel Jason : The Divide;

- James C.L.R : I giacobini neri;

- Keucheyan Razmig : La natura è un campo di battaglia;

- Mbembe Achille : Necropolitica;

- Merchant Carolyn : La morte della natura;

- Moore Jason e Patel R. : Una storia del mondo a buon mercato;

- Morton Timothy : Noi esseri ecologici;

- Quijano Anibal : Colonialidad del poder;

- Sahlins Marshall : L'economia dell'età della pietra;

- Said Edward : Orientalismo;

- Stannard David : Olocausto americano;

- Thiong'o Ngũgĩ wa : Decolonizzare la Mente;

- Williams Eric : Capitalismo e schiavitù;

- Woodson Carter G. : "Miseducation of the Negro;

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