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La decostruzione dei miti fondativi dell'Occidente.
In un'epoca definita dalla sua stessa crisi — ecologica, sociale e di significato — un corpus crescente di pensiero critico si fa portatore di una sfida radicale ai fondamenti della modernità occidentale.
Nel delineare una critica serrata ai miti fondativi dell'Occidente — il progresso, l'homo oeconomicus, lo Stato-nazione, la separazione tra natura e cultura — è possibile indicare la possibilità concreta di "altre modernità", non solo per diagnosticare la crisi attuale ma per immaginare e praticare "altri mondi possibili".
Il punto di partenza di questa traiettoria critica è la dunque la demistificazione delle categorie date per universali dal pensiero occidentale.
Il concetto di sviluppo ad esempio, un "mito dell'Occidente", è un'ideologia che impone un modello unilineare e teleologico a tutte le società, mascherando rapporti di potere e di espropriazione; questo mito si regge su una figura centrale: l'Homo Oeconomicus.
Criticandone i fondamenti, è possibile sostituire la nozione riduttiva di ricchezza economica con quella di "ricchezza antropologica", un concetto olistico che include relazioni, saperi e benessere.
Gli antropologi hanno infatti, ormai da tempo, smantellato l'idea che le società di cacciatori-raccoglitori fossero dominate dalla scarsità.
Al contrario, le hanno definite come le "prime società opulente", rovesciando la logica capitalista che presuppone bisogni illimitati e mezzi scarsi.
Il potlatch, ad esempio, una cerimonia del dono praticata dai nativi della costa nord-occidentale americana fino a tempi molto recenti, incarnava un'alternativa radicale: la distruzione ostentatoria della ricchezza per acquisire prestigio; l'esatto opposto dell'accumulazione capitalistica.
Sul piano politico, la critica non è stata meno radicale.
Le società "primitive" non erano società "senza stato" per mancanza o arretratezza, ma società attivamente costruite "contro lo stato".
La loro organizzazione sociale era un insieme di meccanismi volti a impedire l'emergere di un potere separato e coercitivo.
Questa libertà selvaggia rappresenta una diversa concezione del politico, fondata sul rifiuto della divisione tra dominanti e dominati.
Questa prospettiva, unita alla critica dell'origine lineare della civiltà dissolve l'idea che il modello statuale occidentale sia l'apice inevitabile dell'evoluzione umana.
Superare il Grande Dualismo: Natura e Cultura.
Un contributo tra i più profondi di questo filone di pensiero è l'attacco al dualismo fondativo della modernità: la separazione ontologica tra natura e cultura.
Questa divisione, estranea a innumerevoli altre cosmologie, è alla radice della crisi ecologica.
Essa ha trasformato il mondo non-umano in un "ambiente", un fondale inerte a disposizione della "cultura umana" per essere sfruttato.
L'epoca dell'Antropocene è la conseguenza catastrofica di questa visione del mondo: è la manifestazione fisica e geologica di un'idea filosofica.
In questo contesto, prendere sul serio le voci indigene diventa cruciale: esse ci invitano a "lasciar parlare la foresta".
Per gli Yanomami, la distruzione dell'Amazzonia non è un problema "ambientale", ma un collasso cosmico, perché gli esseri della foresta, gli spiriti e gli umani condividono la stessa agency e lo stesso destino.
Le loro "storie" non sono miti ingenui, ma complesse ontologie che offrono una visione relazionale e non-dualistica dell'esistenza.
Questa prospettiva ci costringe a riconsiderare i detriti stessi della nostra civiltà, gli "scarti" che essa ha prodotto e continuamente produce.
L'esorbitanza illimitata di scorie materiali, umane e simboliche, rappresenta il correlativo oggettivo di un sistema che, avendo separato l'uomo dal suo mondo, produce un eccesso che questi non sa più gestire.
Verso altre Ontologie e pratiche Interculturali.
Se le società non sono tutte variazioni su un unico modello e se i mondi possibili sono dunque molteplici, come navigare allora questa diversità?
Il "relativismo culturale" come mossa iniziale e imprescindibile è un ottimo antidoto all'etnocentrismo, usando le parole di Clifford Gertz sarebbe: il "minimo della decenza".
Tuttavia, il pensiero contemporaneo si spinge oltre, proponendo l'"interculturalismo" come via d'uscita dai "ghetti culturali": un modello dinamico di scambio e ibridazione che riconosce le culture non come entità sigillate, ma come processi relazionali.
Questo approccio suggerisce che le differenze tra gruppi umani non riguardino solo diverse "visioni del mondo" (cosmologie) su un'unica realtà (ontologia), ma l'esistenza di mondi radicalmente diversi, di "ontologie multiple".
Prendere sul serio le cosmologie indigene significa accettare che la foresta "pensa", non in senso metaforico, ma letterale, all'interno di un quadro ontologico diverso dal nostro.
Questa apertura a ontologie "altre" è ciò che permette di concepire "altre modernità".
Non si tratta di un ritorno a un passato idealizzato, ma di riconoscere che la modernità capitalista occidentale non è l'unica forma possibile di vita contemporanea.
Dall'analisi all'azione.
Questo viaggio attraverso il pensiero antropologico fa emergere una posizione che non è solo analitica, ma profondamente politica: una chiamata a un sabotaggio degli schemi mentali, che esprime l'urgenza di una rottura.
Il capitalismo neoliberale ha costruito una "vasta macchina burocratica per la creazione e la conservazione della disperazione", volta a distruggere ogni immaginazione di un futuro alternativo.
La risposta non risiede nell'elaborazione di un nuovo grande progetto totalizzante, ma nel riconoscere e praticare le alternative che già esistono.
L'auto-organizzazione, il mutuo appoggio e un "comunismo basilare", cioè l'agire seguendo il principio "da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni" (che applichiamo costantemente) sono già qui.
L'antropologia culturale, mostrando la pluralità delle forme di vita umane, ci offre un archivio sterminato di queste alternative: un invito a partecipare alla creazione di mondi nuovi; una riaffermazione della capacità umana di creare forme sociali diverse e un rifiuto della rassegnazione.
La via da percorrere non è dunque una mappa predefinita, è piuttosto un "sentiero che nasce camminando".
L'antropologia culturale ci fornisce la bussola e la certezza che altri sentieri sono oggi, come sempre in passato, possibili.
"Società contro lo stato".
Le società amerindiane (e altre definite "primitive") non sono dunque caratterizzate da una semplice "assenza dello stato", come se fossero in una fase immatura in attesa di evolvere.
Al contrario, esse sono attivamente e coscientemente organizzate contro l'emergere di un'autorità centrale e coercitiva.
Analizzando la figura del capo, si può facilmente notare come egli possieda prestigio ma non potere.
Il suo ruolo è quello di mediatore, di pacificatore, di generoso donatore e di oratore, ma egli non può dare ordini né imporre la sua volontà; se tentasse di farlo, verrebbe abbandonato o ucciso.
La società intera, attraverso meccanismi come la dispersione del potere, la segmentarietà e l'autonomia dei gruppi, "esorcizza" costantemente la minaccia dell'Uno, ovvero del potere unificato e separato dal corpo sociale.
Questa visione, emersa dal lavoro di alcuni antropologi scardina l'intera filosofia politica occidentale, da Hobbes in poi, che vede lo Stato come un'evoluzione necessaria per uscire da un presunto "stato di natura" caotico.
Questa libertà selvaggia è dunque un progetto politico volto a preservare l'uguaglianza e l'autonomia.
L'economia dell'"Opulenza Originaria".
L'opera fondamentale di altri antropologi ha invece rivelato una critica frontale al dogma centrale dell'economia moderna: il principio di scarsità.
Essi hanno dimostrato, attraverso dati etnografici, come le società di cacciatori-raccoglitori non fossero affatto povere né costantemente impegnate nella lotta per la sopravvivenza.
Al contrario, in queste comunità si era soliti lavorare per poche ore al giorno (3-5 ore in media), dedicando il resto del tempo al riposo, al gioco e alla vita sociale.
Erano le "prime società opulente" non perché avessero molto, ma perché i loro bisogni erano finiti e facilmente soddisfabili.
L'opulenza infatti non è un rapporto tra mezzi e fini, ma uno stato in cui i desideri sono facilmente realizzabili: è la società di mercato moderna, con i suoi desideri illimitati, a creare strutturalmente scarsità e insoddisfazione.
La critica all'astrazione dell'Homo Oeconomicus, smonta dunque l'universalità del modello economico capitalista, mostrandolo come una specifica e anomala costruzione culturale, tutt'altro che il punto d'arrivo della razionalità umana.
La "Cosmopolitica della Foresta".
La gran parte dei popoli indigeni non parla né di "ecologia" né di "ambiente".
Essi parlano invece degli spiriti ausiliari che danzano per gli sciamani e sostengono la volta celeste.
La distruzione della foresta da parte dei "bianchi", con il fumo delle loro macchine e la violenza delle loro miniere, indebolisce gli sciamani e minaccia di far cadere il cielo, annientando tutta l'umanità.
Questa "caduta del cielo" non è una metafora, ma la descrizione di una realtà ontologica in cui l'esistenza del mondo dipende da un delicato equilibrio di relazioni tra esseri umani e non-umani (spiriti, animali, piante).
Questa testimonianza ci costringe a prendere sul serio ontologie diverse e a riconoscere che la crisi ecologica è, per molti popoli, una crisi cosmologica e spirituale.
Il superamento del Dualismo.
Il "naturalismo" occidentale (che presuppone un'unica natura fisica e sostiene che solo gli umani possiedano "cultura") è solo una delle possibili ontologie, e per di più minoritaria.
Una "antropologia ecologica" (o della vita) critica il modello che vede la cultura come uno strato di significato imposto su una natura passiva.
Gli organismi (umani e non) e il loro ambiente si co-creano reciprocamente in un processo continuo di
corrispondenza e interazione.
Viviamo in un mondo di relazioni, non in un mondo di oggetti.
Anche la "mente" non è semplicemente confinata nel cervello, ma è immanente all'intero sistema ecologico, un reticolo di flussi di informazione e retroazioni.
La separazione tra mente e natura è dunque un errore epistemologico che porta inevitabilmente alla catastrofe.
La chiamata all'azione.
Il sabotaggio delle strutture mentali che ci imprigionano nella normalità è una chiamata ad una liberazione radicale dell'immaginazione e del desiderio.
L'ideologia neoliberista funziona producendo disperazione, per impedirci di vedere le alternative che già pratichiamo.
L'agire secondo le necessità reciproche, (come facciamo con amici e familiari) e i movimenti di auto-organizzazione sono un invito ad estendere queste pratiche come fondamento per un'altra società.
Dalla critica politica a quella economica, dall'ascolto di altre voci (come quelle indigene), fino alla chiamata all'azione diretta, emerge dunque un pensiero che non solo analizza le radici della crisi attuale, ma fornisce un ricco archivio di concetti e pratiche per immaginare e costruire futuri alternativi.
"La riflessione sulla libertà selvaggia di Pierre Clastres" di R. Marchionatti:
https://eleuthera.it/files/materiali/clastres_indice.intro.pdf;
“La vendetta di Zarathustra” di Hakim Bey:
https://www.indiscreto.org/chi-ha-bisogno-della-coscienza/;
"Un classico di sorprendente attualità"; di R. Marchionatti:
https://eleuthera.it/files/materiali/Sahlins_Economia_dell_et%C3%A0_della_pietra_indice_postfazione.pdf;
"Quel sentiero che nasce camminando. Un’antropologia per un altro mondo possibile"; di D. Basile:
https://iris.unito.it/handle/2318/1766804
"Antropocene. Per un’antropologia dei mutamenti socioambientali"; di F. Lai:
https://www.editpress.it/wp-content/uploads/2021/05/LaiFranco_Antropocene_20210125053508.pdf
"Storie dell’Eden. Prospettive di ecoteologia"; di F. Battistutta:
www.academia.edu/39978568/Storie_dellEden_Prospettive_di_ecoteologi
"Lasciar parlare la foresta: politica, ecologia e mito in La caduta del cielo di Davi Kopenawa e Bruce Albert";
di G. Orsenigo:
https://www.studistorici.com/2020/12/29/orsenigo_numero_44/
"Relativismo culturale"; di F. Remotti:
www.treccani.it/enciclopedia/relativismo-culturale
"Il concetto di sviluppo: un mito dell’Occidente"; di M. Aime:
https://ricerca.unistrapg.it/retrieve/bc34d9be-beed-423e-bf0d-d38e302c034b/Antropocene_e_bene_comune_ebook.pdf
"L'origine senza origini della civiltà", di A. Baccarin:
https://www.academia.edu/83994379
"Antropologia e Antropocene"; di S. Flamini e M. Pellicciari:
https://www.academia.edu/download/52058693/art_pellicciari_4_2016.pdf
"Antropologia culturale"; di V. Ferrari:
www.academia.edu/35729203
"L'interculturalismo, per uscire dai ghetti culturali"; di A. Guigoni:
www.ducciocanestrini.it/blob/antropologia-dell-interculturalita/
"Quello che resta: monnezze globalizzate"; di M.F.Minervino:
https://oaj.fupress.net/index.php/techne/article/view/11539
"Oltre il dualismo natura-cultura:
Bateson, Ingold, Descola"; di M. Guerra: https://www.academia.edu/12995249
"Il potlatch, l’antica cerimonia dei doni degli indiani americani"; di S. Amendolia:
www.viaggiatoriignoranti.it/2021/12/il-potlatch-lantica-cerimonia-dei-doni-degli-indiani-americani.html
"Altre modernità"; di L. Boella:
https://doi.org/10.13130/2035-7680/12135
"Riflessioni intorno alla svolta ontologica in antropologia"; di M.Benadusi:
https://doi.org/10.7340/anuac2239-625X-2528
"Sui fondamenti antropologici dell’economia: homo œconomicus e ricchezza antropologica"; di B. Giovanola:
www.anthropologica.eu/wp-content/uploads/2020/09/10-Giovanola.pdf
"Tactical Briefing"; di D. Graeber:
https://www.menelique.com/meneliquefiles/2020/09/menelique_volume0_DIGITAL_GRAEBER.pdf
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