di socialclimatejustice.blogspot.com
Quella attuale è un'epoca segnata da crisi ecologiche sempre più pressanti e dalla crescente consapevolezza dei limiti epistemologici del pensiero occidentale.
Si rende dunque necessario un rigoroso e radicale esercizio di decentramento dello sguardo.
Attraverso un'analisi approfondita delle ontologie indigene, è possibile smantellare la dicotomia fondativa del pensiero moderno – quella tra natura e cultura – per svelare l'esistenza di "ecologie relazionali" in cui l'umano non è l'eccezionale abitante di un mondo oggettivo, ma un nodo in una fitta rete di parentele e negoziazioni con una molteplicità di altri soggetti, non tutti umani.
La Decostruzione del Dualismo Occidentale.
Il punto di partenza è una critica serrata al "naturalismo", l'ontologia specifica della modernità occidentale.
Radicata nel dualismo cartesiano tra res cogitans (la mente, la cultura, l'umano) e res extensa (la materia, la natura, il non-umano), questa visione del mondo postula l'esistenza di un'unica Natura universale, retta da leggi oggettive, sulla quale si innestano molteplici e relative Culture.
Come molti antropologi hanno dimostrato, questa separazione non è un dato universale dell'esperienza umana, ma un costrutto storico e culturale.
È questa frattura ontologica che ha permesso di concepire la "Natura" come un contenitore passivo di risorse, un oggetto inerte a disposizione dello sfruttamento umano, legittimando così l'impresa coloniale e la devastazione ambientale che oggi caratterizzano l'Antropocene.
Per operare questa decostruzione, è utile appoggiarsi a un solido quadro teorico che attinge principalmente dall'antropologia strutturalista e post-strutturalista.
Centrale è il riferimento all'opera di Philippe Descola e alle sue "quattro ontologie" (naturalismo, animismo, totemismo, analogismo), che mostrano come diverse società articolino in modi differenti le continuità e le discontinuità tra l'interiorità (l'anima, lo spirito) e la fisicità (il corpo) degli esseri del mondo.
Il nostro naturalismo è l'eccezione, non la regola, in quanto postula una continuità fisica universale (siamo tutti fatti di atomi e molecole) e una discontinuità interiore radicale (solo gli umani hanno coscienza, cultura, soggettività).
Il Prospettivismo Amerindiano e il "Multinaturalismo".
Un'ontologia radicalmente alternativa, l'animismo, così come teorizzato da Eduardo Viveiros de Castro attraverso il concetto di "prospettivismo multinaturalista" amazzonico, illustra con grande chiarezza questo complesso costrutto teorico.
Se per il pensiero occidentale esiste una sola natura e molte culture (multiculturalismo), per molte società indigene amerindiane vale l'esatto contrario: esiste una sola "cultura" (o meglio, un'unica condizione di soggettività potenziale) e molteplici nature (multinaturalismo).
Cosa significa?
Significa che tutti gli esseri del mondo – umani, giaguari, pecari, piante, spiriti – si percepiscono come "umani" dal loro punto di vista.
Condividono la stessa vita sociale, le stesse intenzioni e le stesse categorie culturali.
La differenza non risiede nell'anima o nella cultura, ma nel corpo, che agisce come un prisma percettivo.
Ogni specie, dotata di un corpo specifico con le sue affezioni e capacità, percepisce il mondo in modo diverso, dando vita a una "natura" differente.
Il mondo, quindi, non è un'entità singola e stabile, ma un campo di forze molteplice e instabile, popolato da una pluralità di soggetti che vedono "la stessa cosa" in modi radicalmente differenti.
La realtà è intrinsecamente relazionale e prospettica.
Non esiste un punto di vista privilegiato, un "sguardo di Dio", ma una costante negoziazione tra prospettive.
Dalla teoria all'etnografia: le Ecologie Relazionali in atto.
Queste ontologie prospettiche si traducano in pratiche concrete, in vere e proprie "ecologie relazionali".
In questi contesti, l'ecologia non è lo studio di un ambiente esterno, ma l'arte di gestire relazioni complesse con altri tipi di persone, alcune delle quali non-umane.
La caccia, ad esempio, lungi dall'essere un mero atto di predazione tecnica, è concepita come un'attività sociale e diplomatica ad alto rischio.
Il cacciatore deve negoziare con gli "spiriti padroni" degli animali, rispettare patti, adottare la prospettiva della preda per anticiparne le mosse.
Uccidere un animale è un atto sociale che innesca un debito e richiede reciprocità, spesso sotto forma di rituali.
Lo sciamano è la figura diplomatica per eccellenza: è colui che, attraverso tecniche del corpo (come l'uso di sostanze psicoattive o il digiuno), è in grado di abbandonare temporaneamente la prospettiva umana per adottare quella di altri esseri.
Viaggia tra i mondi, negozia con gli spiriti, cura le malattie (spesso viste come il risultato di un'offesa a un soggetto non-umano) e mantiene l'equilibrio cosmico.
È, a tutti gli effetti, un cosmopolitico.
Le relazioni tra umani e non-umani sono spesso modellate sulla parentela.
Gli animali possono essere considerati come affini, antenati o nemici, ma sempre all'interno di un tessuto sociale che li include come agenti.
Questa concezione impedisce di trattarli come semplici "risorse" e impone un'etica della cura e del rispetto.
Implicazioni politiche ed epistemologiche.
La coerenza e la complessità delle ontologie indigene, agiscono come un potente antidoto all'epistemicidio (ovvero la sistematica distruzione di sistemi di conoscenza non-occidentali) perpetrato dal colonialismo.
Le lotte dei popoli indigeni per la terra e l'autodeterminazione non sono solo battaglie per la sopravvivenza fisica o per i "diritti culturali", ma sono lotte ontologiche: battaglie per il diritto di abitare un mondo differente, popolato da relazioni e soggetti che il naturalismo occidentale non può nemmeno concepire.
L'implicazione più radicale è l'invito a una "diplomazia cosmopolitica".
Di fronte al disastro ecologico prodotto dalla nostra ontologia, non possiamo più permetterci di considerare le visioni del mondo indigene come mere "credenze" o "superstizioni".
Dobbiamo prenderle sul serio come teorie valide sulla natura della realtà e ingaggiare un dialogo paritario.
Questo non significa "diventare indigeni", ma piuttosto operare una "decolonizzazione del pensiero": riconoscere la provincialità della nostra visione del mondo e aprirci alla possibilità che esistano altri modi, altrettanto validi, di essere e conoscere; per ripensare le fondamenta stesse del nostro modo di abitare il mondo.
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