Potere, Estrattivismo e Crisi Ecologica.

di socialclimatejustice.blogspot.com


La matrice Coloniale del presente.

Il sistema globale contemporaneo, con le sue crisi interconnesse – economiche, sociali, ecologiche – non può essere compreso appieno senza ricondurre le sue strutture portanti a una matrice storica precisa: quella del potere coloniale.
Sebbene il colonialismo come sistema formale di amministrazione sia in gran parte tramontato, la sua logica profonda persiste in quella che è stata definita la "colonialità del potere".
Questa non è una semplice eredità del passato, ma un modello di potere vivo e operante che continua a strutturare l'economia, la politica, la conoscenza e le relazioni sociali su scala planetaria.
La colonialità del potere, fondata sull'invenzione della "razza" come strumento di classificazione e dominio, ha dato vita ad un "modo di produzione estrattivista" che è alla radice del capitalismo moderno.
Questa logica si perpetua ancora oggi attraverso i meccanismi di "scambio ineguale" e il "neocolonialismo".
Una matrice nascosta che trova una nuova e virulenta espressione nella "crisi ecologica", nel "razzismo ambientale" e nella "colonialità climatica", dove le cosiddette soluzioni ecologiche riproducono le stesse dinamiche di espropriazione e sacrificio.
La stessa logica ha operato anche all'interno dell'Europa, nella costruzione di "colonialismi interni" come nel caso del Mezzogiorno d'Italia.
Le prospettive decoloniali indicano le vie per una rottura epistemica e politica con questo ordine globale.

Razza, Lavoro ed Eurocentrismo.

Al cuore della modernità capitalista non vi è dunque solo l'economia, ma un'impalcatura di potere basata su un'innovazione sociale decisiva: l'idea di "razza".
La conquista delle Americhe ha inaugurato un nuovo modello di dominazione globale, che ha classificato la popolazione mondiale lungo linee razziali, associando i "bianchi europei" al lavoro salariato e al controllo del capitale, e le popolazioni colonizzate ("indios", "neri") a forme di lavoro non salariato (schiavitù, servitù).
La razza è così diventata il principio organizzatore della divisione internazionale del lavoro (lo strumento che decide chi accede a quale forma di lavoro).
Il capitalismo, inoltre, non ha eliminato le forme di lavoro preesistenti (come la servitù o la reciprocità), ma le ha riarticolate e subordinate alla logica dell'accumulazione capitalistica su scala globale.
La razza, dunque, lungi dall'essere un dato biologico preesistente, è una categoria mentale e sociale creata ad hoc per legittimare lo sfruttamento e la gerarchia del nuovo sistema-mondo capitalista.
Il lavoro dei genetisti ha da tempo confermato in modo inequivocabile la tesi secondo la quale il "concetto di razza" non abbia alcun fondamento scientifico nella specie umana, definendolo: "un errore scientifico e un abominio sociale".
Ma la sua persistenza è la prova della sua efficacia, non come categoria descrittiva, bensì come dispositivo politico.
Questa classificazione razziale del mondo è inseparabile dalla sua controparte epistemologica: l'eurocentrismo.
L'Europa ha imposto la propria visione del mondo e della conoscenza come l'unica "universale" e "razionale", presentando il proprio percorso storico (da "primitivo" a "moderno") come la traiettoria che tutte le altre culture devono seguire.
Spostando l'analisi dalle strutture economiche a quelle epistemiche e razziali, si mostra con evidenza il fatto che il capitalismo sia intrinsecamente un "sistema razziale", e come il razzismo non sia un'aberrazione ma un principio organizzatore del sistema-mondo moderno.
I saperi non-europei sono stati invalidati o relegati a uno stato di subalternità.
Questa "colonialità del sapere" è tuttora fondamentale per mantenere la gerarchia globale, poiché nega ai subalterni la capacità di definire sé stessi e il mondo.
La medesima logica di "alterizzazione" ha operato anche nella costruzione dello stato-nazione italiano.
La "questione meridionale" non è mai stata un problema di "arretratezza endogena" del Sud Italia, ma il risultato di un processo di "colonialismo interno".
L'idea di un Mezzogiorno "barbaro, pigro e incivile" è stata costruita attivamente dalle élite del Nord durante e dopo il processo di unificazione, attingendo direttamente al repertorio di rappresentazioni razziste che il colonialismo europeo usava per descrivere le popolazioni africane o asiatiche.
Il Sud Italia è stato trasformato in un "altro" interno allo Stato italiano, una colonia (interna) la cui subalternità era necessaria per definire, per contrasto, la "modernità" e la "bianchezza" del Nord e dell'identità italiana egemone.
Utilizzando gli strumenti degli studi postcoloniali e decoloniali, si può formulare una critica al "meridionalismo vittimista" discostandosi da narrazioni consolatorie (o neoborboniche) che idealizzano un passato perduto, per  concentrarsi invece sulle modalità materiali e discorsive con cui si è prodotta la subalternità, senza negare le responsabilità delle élite meridionali.
La vicenda del Mezzogiorno andrebbe perciò inserita in un contesto globale, mostrando come la definizione di "Sud" e "Nord" sia una dinamica di potere che si riproduce a diverse scale, decisa dalle classi egemoni.
Applicare la lente decoloniale al contesto europeo e italiano, permette di svelare i meccanismi di razzializzazione e "inferiorizzazione" costitutivi della stessa nazione italiana.
Permette inoltre di decostruisce stereotipi radicati, invitando a rileggere la storia nazionale attraverso le lenti del potere e della subalternità.
La colonialità continua a strutturare la società europea, producendo razzismo e forme di cittadinanza gerarchiche che colpiscono le popolazioni migranti.
Il razzismo contemporaneo è una "diretta conseguenza della storia coloniale e della persistenza della colonialità" nella definizione di chi è "europeo" e chi non lo è.

Il modo di produzione "Estrattivista" e la persistenza dello sfruttamento.

La colonialità del potere ha una base materiale precisa: l"estrattivismo"; modo di produzione per eccellenza del capitalismo, nato nelle colonie e poi globalizzato.
L'estrattivismo non è solo l'estrazione di materie prime, ma una logica totalizzante di spoliazione, saccheggio e sfruttamento intensivo della natura e dei corpi, finalizzata al trasferimento di valore dalle periferie ai centri del sistema-mondo.
È una forma di "razionalità" che vede la terra, le risorse e le persone come oggetti da cui estrarre il massimo profitto nel minor tempo possibile, senza curarsi della riproduzione sociale o ecologica.
Questa logica è nata nelle colonie americane con l'estrazione di oro e argento, e con il sistema delle piantagioni, basato sul lavoro schiavile.
Questa violenta accumulazione originaria non è un evento del passato, ma un processo che si ripete costantemente nel presente.
L'estrattivismo diventa la chiave di lettura per comprendere fenomeni contemporanei (come il cambiamento climatico, il land grabbing e i conflitti ambientali), come manifestazioni della stessa logica di potere nata cinquecento anni fa.
L'intero sistema capitalista, anche nelle sue forme apparentemente più immateriali (finanza, dati), opera secondo una logica estrattiva di valore: il capitalismo è un "Sistema Estrattivista".
Questa critica connette in modo diretto la struttura economica del capitalismo alla sua origine e persistenza coloniale.
Questo processo si è poi manifestato,  proseguendo fino ad oggi, attraverso uno "scambio ineguale": il Sud del mondo viene sistematicamente drenato di risorse, lavoro e capitale a vantaggio del Nord, in un flusso che perpetua la dipendenza e il sottosviluppo.
Un continuo trasfrimento di "valore" mascherato da un sistema di prezzi e scambi apparentemente "libero".
Anche il debito si è dimostrato uno dei più potenti strumenti neocoloniali per imporre politiche di austerità e garantire che il flusso di ricchezza continuasse a muoversi nella stessa direzione storica.
In questo senso, il "Discorso sul debito" formulato da Thomas Sankara è stato un atto d'accusa storico (e profetico) che ha definito il debito estero come uno "strumento di controllo neocoloniale", un meccanismo per drenare risorse e imporre politiche che hanno mantenuto il Sud del mondo in uno stato di dipendenza.
La vicenda dei Benetton in Patagonia, ad esempio, ha offerto un caso di studio emblematico di questo neocolonialismo estrattivista.
L'acquisizione di quasi un milione di ettari di terra, in gran parte sottratta al popolo indigeno Mapuche, la deviazione di corsi d'acqua e lo sfruttamento delle risorse per la produzione di lana destinata al mercato globale, il tutto protetto da apparati statali e segnato da violenza e repressione (come nel caso della morte di Santiago Maldonado), non è un'eccezione, ma la norma del capitalismo contemporaneo.
Diverse inchieste e il lavoro degli attivisti hanno smontato la narrazione "buonista" e socialmente responsabile del marchio, svelando le connessioni tra il gruppo Benetton, le lobby imprenditoriali locali e gli apparati governativi argentini, che hanno favorito e protetto gli interessi della multinazionale a scapito della popolazione, rivelando una storia di espropriazione, sfruttamento ambientale e violazione dei diritti umani.
Un esempio lampante di come la logica coloniale dell'appropriazione della terra e dello sfruttamento delle risorse continui oggi attraverso l'operato di grandi corporation globali, che mostra il volto concreto e violento dell'estrattivismo e del neocolonialismo, al di là delle narrazioni patinate del marketing.
Questo processo di accumulazione si fonda (oggi come ieri), sulla continua recinzione (enclosure) di terre e risorse collettive, trasformate in proprietà privata da cui estrarre profitto; un processo che è stato centrale nel colonialismo e che continua ancora oggi con il land e il green grabbing.

La "Colonialità del Clima".

La crisi ecologica e climatica, lungi dal creare un destino comune che appiana le differenze, è diventata l'ultima e più drammatica frontiera della colonialità: il cambiamento climatico riproduce e intensifica le disuguaglianze coloniali.
Le popolazioni che meno hanno contribuito a causare la crisi sono quelle che ne subiscono gli impatti più devastanti.
Questo è il nucleo del "razzismo ambientale", che lega in modo indissolubile le disuguaglianze di salute e l'esposizione ai rischi ambientali a fattori di razza e classe.
La tendenza a localizzare i rischi ambientali (discariche, industrie inquinanti, ecc.) in prossimità di comunità razzializzate e a basso reddito – non è un fenomeno solo statunitense, ma una dinamica globale che ricalca le linee di frattura coloniali.
Le popolazioni del Sud del mondo e le minoranze razzializzate nel Nord sono sistematicamente più esposte all'inquinamento e agli impatti della crisi ecologica, con conseguenti e gravi disuguaglianze di salute.
Le logiche estrattiviste e di smaltimento dei rifiuti delle economie del Nord globale vengono imposte al Sud, che diventa la "discarica" del mondo.
Questo perpetua una divisione internazionale del rischio che è profondamente diseguale.
La salute delle popolazioni razzializzate è considerata sacrificabile sull'altare del profitto e dello stile di vita dei paesi dominanti.
I loro corpi diventano l'ultimo territorio di estrazione e inquinamento.
Le decisioni politiche ed economiche prese da pochi (governi, multinazionali) hanno impatti diretti e sproporzionati sulla vita e sulla salute dei più vulnerabili, accentuando le disuguaglianze esistenti.
La crisi ecologica non si manifesta per tutti allo stesso modo.
Al contrario, essa è vissuta in maniera drammaticamente diseguale e questa disuguaglianza ha una chiara matrice razziale e coloniale, che si manifesta concretamente sulla salute e sui corpi delle popolazioni locali e dei gruppi subalterni.
Ancora più insidiosamente, la colonialità si manifesta nelle "soluzioni" alla crisi.
Le politiche climatiche operano spesso secondo una logica biopolitica "tra miglioramento e sacrificio", dove intere popolazioni e territori vengono sacrificati per garantire la sostenibilità e il benessere di altri.
Le politiche climatiche ed ecologiche mainstream dividono l'umanità tra coloro che devono essere "migliorati" (i cittadini del Nord) e coloro che possono essere "sacrificati" (le popolazioni del Sud).
La crisi climatica è l'arena in cui la "colonialità del potere" si manifesta con la  massima violenza.
La "colonialità del clima" descrive come la crisi climatica e le relative "soluzioni" riproducono e approfondiscono le medesime gerarchie razziali, economiche ed epistemiche ereditate dal colonialismo.
La colonialità climatica evidenzia la contraddizione fondamentale per cui i paesi del Nord globale, storicamente responsabili della stragrande maggioranza delle emissioni, sono i meno colpiti, mentre i paesi del Sud globale, che non hanno quasi nessuna responsabilità, subiscono gli impatti e le conseguenze più devastanti (siccità, inondazioni, innalzamento dei mari).
Questa "Colonialità delle soluzioni" fa sì che le risposte dominanti alla crisi climatica (mercati del carbonio, geoingegneria, "green economy") siano spesso concepite dal Nord e imposte al Sud senza tenere conto dei saperi locali, e spesso portano a nuove forme di espropriazione (come il "green grabbing").
La conoscenza scientifica occidentale sul clima viene presentata come l'unica valida, mentre i saperi indigeni e locali sulla gestione degli ecosistemi vengono ignorati o svalutati.
Questo perpetua la "colonialità del sapere" e una "violenza epistemica" che svela l'ipocrisia di un discorso climatico che si pretende universale e tecnico, ma che in realtà è profondamente politico e radicato in rapporti di potere coloniali.
Ciò si traduce in pratiche di "green grabbing" (appropriazione verde), in cui interi territori vengono espropriati in nome della conservazione, della produzione di biocarburanti o di progetti di compensazione del carbonio, causando lo sfollamento delle comunità locali.
Le politiche ambientali, dietro una facciata "verde", riproducono logiche coloniali.
Il green grabbing è dunque l'appropriazione di terre e risorse in nome della conservazione o della lotta al cambiamento climatico; ciò dimostra come queste politiche debbano essere decolonizzate.
Esse perpetuano ideologie (coloniali) basate su un'idea di "natura selvaggia e incontaminata" (da separare dall'uomo), che criminalizza gli stili di vita indigeni, considerati una minaccia, imponendo modelli di gestione violenti.
La stessa "conservazione della natura" diventa spesso una forma di guerra a bassa intensità, con la militarizzazione dei parchi e la violenza contro le popolazioni locali, svelando i conflitti di potere e gli interessi economici che si celano dietro le narrative ambientali e che ricalcano le stesse linee di frattura coloniali.
Tutto ciò mostra come la lotta per la giustizia climatica sia inseparabile dalla lotta per la decolonizzazione.
Il pensiero decoloniale invita a "rompere la colonialità" del sapere, valorizzando le conoscenze prodotte dai margini e dai corpi razzializzati.

Rompere l'Universale: resistenze e alternative decoloniali.

Di fronte alla pervasività della matrice coloniale, la resistenza non può che essere multidimensionale.
I femminismi, neri, territoriali e decoloniali offrono una critica radicale, che punta a "rompere l'universale" imposto dal pensiero occidentale.
Essi svelano come anche la categoria di "donna" sia stata costruita su un modello "bianco e borghese" che ignora le esperienze delle donne razzializzate, e propongono una "lotta intersezionale" che leghi indissolubilmente il genere alla razza, alla classe e alla critica del capitalismo coloniale.
Per superare il "falso mito dei silenti", è fondamentale riconoscere l'agentività e la voce non solo dei popoli subalterni, ma anche del mondo non-umano, la cui riduzione a "risorsa inerte" è uno dei pilastri epistemici della modernità coloniale.
Riconoscere l'intelligenza e la vitalità del mondo non-umano è un passo essenziale per uscire dalla logica estrattivista.
La crisi climatica è anche una crisi dell'immaginazione, nata da una visione del mondo che ha separato l'uomo dalla natura e ha silenziato ogni forma di conoscenza che non fosse quella strumentale e scientifica europea.
L'"opzione decoloniale" rappresenta dunque un progetto politico ed epistemologico di "sganciamento" dalla logica della colonialità.
Si tratta di smascherare il lato nascosto e inseparabile della modernità – la colonialità – per aprire lo spazio a una pluralità di futuri possibili, basati su un'"ecologia dei saperi" che metta in dialogo le diverse conoscenze e visioni del mondo su un piano di parità.
Le crisi globali del XXI secolo non sono incidenti di percorso o "fallimenti" di un sistema altrimenti sano.
Esse sono il prodotto logico e necessario di una struttura di potere globale – la colonialità – forgiata cinquecento anni fa e oggi più viva che mai.
Dalla spoliazione delle terre alla costruzione di periferie interne, dal razzismo ambientale alla colonialità delle politiche climatiche globali, la matrice è la stessa: una logica di classificazione razziale e di estrazione di valore, e l'imposizione di un modello di conoscenza unico e universale.
Comprendere questa matrice non è un mero esercizio accademico, ma il presupposto indispensabile per immaginare e praticare una vera trasformazione.
Un futuro giusto ed equo non può emergere da aggiustamenti tecnici o da soluzioni "verdi" che non mettano in discussione le fondamenta di potere su cui poggiano.
È necessario un profondo e radicale processo di decolonizzazione che attacchi la colonialità nelle sue manifestazioni (economiche, politiche, epistemiche ed ecologiche), per liberare finalmente la possibilità di un mondo pluri-versale, un mondo in cui molti mondi possano coesistere: un laboratorio di alternative epistemiche e politiche alla modernità eurocentrica.



"Potere coloniale e modo di produzione estrattivista. Alle radici del capitalismo contemporaneo"; di Emiliano Di Marco:
https://www.academia.edu/98300054/Potere_coloniale_e_modo_di_produzione_estrattivista

“Sulla nostra pelle: razzismo ambientale e disuguaglianze di salute"; di Fabio Perocco, Francesca Rosignoli:
http://www.socioscapes.org/index.php/sc/issue/view/4/3

"Colonialità del potere ed eurocentrismo in America latina"; di Aníbal Quijano: https://camminardomandando.files.wordpress.com/2019/05/quijano-colonialitc3a1-del-potere.pdf

"Alla fine del mondo. La vera storia dei Benetton in Patagonia"; di P. Camuffo e M. Zornetta:
http://www.stradebianchelibri.com/camuffo-p-zornetta-m---alla-fine-del-mondo-la-vera-storia-dei-benetton-in-patagonia.html

"Dai margini dei femminismi neri e della decolonialità. Rompere l’universale, praticare la libertà": https://share.google/QT038Hg7VdgfJpjzX

dalla recensione di Cristian Perra al volume di Carmine Conelli "Il rovescio della nazione":
https://www.filosofiadelogu.eu/2023/recensione-di-il-rovescio-della-nazione-di-carmine-conelli-a-cura-di-cristian-perra/

"Discorso sul debito di Thomas Sankara 1987":
www.academia.edu/38190163/

"Proprietà e beni comuni. Un percorso filosofico"; di Lorenzo Coccoli:
https://www.academia.edu/8651991

"Ecologia politica dell’Africa a Sud del Sahara: un’introduzione teorica"; di V. Bini:
https://freebook.edizioniambiente.it/libro/133/Africa_la_natura_contesa

"Tra miglioramento e sacrificio: l'alterità e l'ecologia (bio)politica del cambiamento climatico"; di D. Andreucci e C. Zografos:
https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0962629821001724

"The unbearable heaviness of climate coloniality"; di F. Sultana:
https://doi.org/10.1016/j.polgeo.2022.102638

"America Latina e modernità, l'opzione decoloniale: saggi scelti"; di G. Ascione: http://www.lavoroculturale.org/america-latina-e-modernita

"Cittadinanze postcoloniali, colonialità, razza e razzismo in Italia e in Europa"; di Miguel Mellino:
https://www.academia.edu/38444535

dall'introduzione di Gennaro Avallone al libro di R. Grosfoguel "Rompere la colonialita'":
https://www.academia.edu/36188936

"Drenare dal Sud globale attraverso uno scambio ineguale"; di Jason Hickel:
www.sciencedirect.com/science/article/pii/S095937802200005X

"Bruti: riflessioni sul falso mito dei silenti"; di Amitav Ghosh:
http://orionmagazine.org/article/brutes

"Green Grabbing-Induced Displacement"; di S. Vigil:
www.ispionline.it/it/pubblicazione/green-grabbing-induced-displacement-19959

"Decolonising Conservation Policy: How Colonial Land and Conservation Ideologies Persist and Perpetuate Indigenous Injustices at the Expense of the Environment"; di Lara Domínguez e Colin Luoma:
https://doi.org/10.3390/land9030065

"La razza: un errore scientifico e un abominio sociale"; di Biondi e Rickards:
www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/03014460701497236

E. Marijnen e R. Lotje de Vries "Conservazione in ambienti violenti":
https://doi.org/10.1016/j.polgeo.2020.102253



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