Reperti contesi: La Decolonizzazione dei musei e la restituzione del patrimonio africano.

di socialclimatejustice.blogspot.com


Le origini violente delle collezioni: il Modus Operandi della spoliazione coloniale

Le sale dei musei europei e americani ospitano una quantità incalcolabile di reperti archeologici e culturali provenienti dal continente africano.
Per decenni, queste collezioni sono state presentate come testimonianze di un "patrimonio dell'umanità", accessibile a un pubblico globale.
Tuttavia, un esame critico delle loro origini, spinto da una crescente pressione accademica e attivista, sta radicalmente cambiando questa narrativa.
I musei, da templi della cultura universale, sono sempre più visti come archivi di un passato coloniale violento.
L'acquisizione della stragrande maggioranza dei reperti africani non fu il risultato di scambi equi o di scoperte archeologiche neutre, ma un atto di spoliazione sistematica.
Schiaccianti prove storiche legano indissolubilmente le collezioni museali occidentali alla violenza, alla spoliazione e al razzismo dell'era coloniale.
L'affermazione che le collezioni africane nei musei occidentali siano radicate nella violenza non è un'iperbole retorica, ma una conclusione basata su un modus operandi storico documentato e ricorrente.
Storici come Dan Hicks, Richard Pankhurst e Kwame Opoku non si limitano a denunciare il furto, ma ne svelano i meccanismi, dimostrando come la spoliazione fosse un obiettivo strategico integrato nelle operazioni militari coloniali e giustificato da una radicata ideologia razzista.
Le collezioni di artefatti africani sono intrinsecamente legate alla violenza coloniale e ciò comporta l'imperativo etico della loro restituzione.

La Violenza come strumento di acquisizione: il caso dei Bronzi del Benin

Dan Hicks, nel suo libro "The Brutish Museums", lega in modo inequivocabile la nascita dei musei etnografici alla violenza coloniale.
L'esempio più emblematico è quello dei Bronzi del Benin.
Nel 1897, una spedizione punitiva britannica saccheggiò il Regno del Benin (nell'attuale Nigeria), razziando migliaia di oggetti in bronzo e avorio di inestimabile valore culturale e storico.
Questi manufatti non furono semplicemente "raccolti", ma depredati in un atto di guerra che culminò con l'incendio della città.
Come sottolinea Hicks, i musei che oggi li espongono non sono spettatori passivi, ma istituzioni che perpetuano quella violenza originaria.
Dan Hicks, in "The Brutish Museums", va oltre la semplice narrazione del saccheggio.
Egli analizza la "Spedizione Punitiva" britannica del 1897 contro il Regno del Benin come un atto di "violenza militare su scala industriale" il cui scopo non era solo la sottomissione politica, ma la cancellazione culturale e l'appropriazione materiale.
Le prove che presenta sono schiaccianti:
 * Violenza Premeditata: la spedizione fu meticolosamente pianificata in risposta all'uccisione di una delegazione britannica.
La distruzione e il saccheggio non furono un effetto collaterale della battaglia, ma un obiettivo dichiarato per "punire" il regno. Le fotografie e i diari dell'epoca mostrano i soldati britannici posare con il bottino tra le rovine fumanti del palazzo reale.
* Necrografia Museale: Hicks introduce il concetto di "necrografia", ovvero la storia della morte di questi oggetti.
I Bronzi del Benin non erano semplici oggetti d'arte; erano un archivio storico, genealogico e cerimoniale del regno. Strappandoli dal loro contesto, l'esercito britannico non ha solo rubato dei manufatti, ma ha distrutto una biblioteca vivente.
Il museo, secondo Hicks, diventa il luogo che perpetua questa morte culturale, esponendo i resti di un'epistemologia distrutta.
* Il Museo come Prolungamento della Violenza: la tesi centrale di Hicks è che la violenza non si è conclusa nel 1897.
La permanenza di questi oggetti in musei come il British Museum è una forma di violenza duratura, un'affermazione continua del potere coloniale che nega al popolo del Benin il diritto al proprio patrimonio.
Il museo non è un rifugio sicuro, ma la scena del crimine.
Questo schema di saccheggio militare non è un caso isolato, ma un sistema coerente e ripetuto.

La spoliazione istituzionalizzata: La spedizione a Maqdala

Richard Pankhurst documenta un evento simile in Etiopia con la spedizione britannica a Maqdala nel 1868, che portò alla razzia di tesori e manoscritti sacri dopo la sconfitta dell'imperatore Tewodros II.
Il lavoro di Richard Pankhurst sul sacco di Maqdala (Etiopia) nel 1868 rivela come la spoliazione non fosse un'azione casuale di soldati avidi, ma un'operazione istituzionalizzata con il diretto coinvolgimento delle istituzioni culturali britanniche.
* Esperti sul Campo: Pankhurst documenta che al seguito dell'esercito britannico c'era Richard Holmes, un bibliotecario e assistente del Dipartimento dei Manoscritti del British Museum.
Il suo ruolo era quello di "selezionare" i tesori più preziosi per la nazione britannica.
Ciò dimostra inconfutabilmente una premeditazione istituzionale: il museo era un partner attivo nell'impresa militare.
* Saccheggio Sistematico: dopo la vittoria e il suicidio dell'Imperatore Tewodros II, il saccheggio fu organizzato con metodicità.
Pankhurst descrive come furono necessari quindici elefanti e quasi duecento muli per trasportare il bottino, che includeva corone reali, croci processionali e centinaia di manoscritti miniati di inestimabile valore.
* Legittimazione tramite Asta: per dare una parvenza di legalità, una parte del bottino fu messa all'asta tra i soldati sul posto.
Tuttavia, i pezzi più importanti, selezionati da Holmes, furono destinati direttamente alle collezioni nazionali come il British Museum e la futura Victoria and Albert Museum.
Questo processo svela il tentativo di "ripulire" un atto di saccheggio attraverso procedure pseudo-legali.

La spoliazione come atto economico e di umiliazione: il caso Asante 

Allo stesso modo, Kwame Opoku descrive come oltre cento manufatti ghanesi, inclusi oggetti d'oro e insegne reali del popolo Asante, furono sistematicamente saccheggiati durante le guerre anglo-asante.
Questi episodi dimostrano che le collezioni africane nei musei occidentali sono, in larga parte, trofei di guerra, simboli tangibili del dominio coloniale.
Kwame Opoku analizza le guerre anglo-asante, in particolare la "Sagrenti War" del 1874, per dimostrare come il saccheggio fosse anche uno strumento di guerra economica e di umiliazione culturale.
* Indennità di Guerra e Saccheggio: Opoku spiega che i britannici imposero al Regno Asante un'enorme indennità di guerra in oro.
Poiché l'indennità non poteva essere pagata per intero, le forze britanniche procedettero a saccheggiare sistematicamente la capitale, Kumasi, prima di darle fuoco.
Il saccheggio divenne così una forma di esazione forzata, mascherata da riparazione di guerra.
* Attacco ai Simboli del Potere: gli oggetti razziati non erano casuali.
Includevano maschere d'oro, insegne reali, spade cerimoniali e il "Mponponsuo", la spada di stato.
Questi non erano solo oggetti di valore materiale, ma i simboli stessi della sovranità e dell'identità Asante.
Il loro furto era un atto deliberato per smantellare la struttura politica e spirituale del regno.

Dai manufatti ai resti umani: Il Genocidio e la "Scienza" Coloniale

La violenza coloniale inscritta nelle collezioni museali assume una dimensione ancora più oscura quando si considerano i resti umani.
Un articolo di Ewelina U. Ochab su Forbes ricostruisce il genocidio degli Herero e dei Nama (nell'attuale Namibia) da parte della Germania all'inizio del XX secolo.
In questo contesto, migliaia di teschi furono prelevati dalle vittime e inviati in Germania per studi di "antropologia razziale", volti a dimostrare una presunta inferiorità africana.
Questa pratica non fu confinata al colonialismo tedesco.
Un articolo del The New Yorker del 2018 ha rivelato le origini problematiche di scheletri e resti umani conservati in prestigiosi musei americani, spesso raccolti senza consenso e in un contesto di profonda asimmetria di potere.
Questi resti umani non sono semplici "reperti": sono le spoglie di individui le cui vite furono distrutte dal razzismo scientifico e dall'espansionismo coloniale.
La loro esposizione o conservazione in un museo occidentale rappresenta la profanazione ultima, riducendo le persone a oggetti di studio e perpetuando le ideologie razziste che ne giustificarono la raccolta.
La violenza fisica e la spoliazione sistematica erano rese possibili e considerate accettabili da una profonda e pervasiva ideologia razzista.
Questa ideologia operava su due livelli:
* Deumanizzazione dell'Altro: le popolazioni africane erano rappresentate nella propaganda coloniale come "selvagge", "primitive" e incapaci di autogoverno.
Questa deumanizzazione giustificava la violenza delle spedizioni punitive e la distruzione delle loro società.
Il saccheggio del loro patrimonio era visto non come un furto, ma come un "salvataggio" di oggetti che i loro creatori "incivili" non erano degni di possedere.
* La Scienza Razziale: come evidenziato dal caso del genocidio degli Herero e dei Nama, il razzismo assunse una veste "scientifica".
La raccolta di teschi e resti umani per studi craniometrici e di "antropologia razziale" rappresenta l'apice di questa logica.
Gli esseri umani e le loro creazioni culturali venivano ridotti a dati da analizzare per confermare le teorie di una superiorità razziale europea.
Una volta nei musei, gli artefatti venivano etichettati e mostrati in modo da rafforzare questa narrazione: l'arte africana era relegata nelle sezioni "etnografiche", separata dall'arte "nobile" dell'Europa, presentata come curiosità di un popolo senza storia.
La spoliazione non era un bottino casuale, ma un obiettivo strategico e istituzionalizzato.
E l'intero edificio poggiava su fondamenta razziste che deumanizzavano le vittime e legittimavano i crimini.
Pertanto, le collezioni africane nei musei occidentali non sono semplici insiemi di oggetti esotici: sono archivi materiali di questi atti storici, prove tangibili di un passato coloniale con cui l'Occidente deve ancora fare i conti.

L'imperativo etico della Restituzione

Di fronte a questa schiacciante evidenza storica, la richiesta di restituzione si è trasformata da un appello marginale a un imperativo etico centrale.
La restituzione non è solo un atto di riparazione per un'ingiustizia storica, ma il fondamento per una "nuova etica relazionale" tra l'Africa e l'Europa.
Restituire questi oggetti significa restituire memoria, identità e patrimonio spirituale alle comunità da cui sono stati strappati. Significa riconoscere che questi manufatti non sono oggetti inerti, ma elementi vivi di culture che continuano a esistere.
Nonostante la crescente pressione morale e politica, il percorso verso la restituzione è tutt'altro che semplice. 
Il dibattito è irto di complessità legali, logistiche e politiche.
Le argomentazioni tradizionali contro la restituzione – come l'idea del "museo universale", la presunta instabilità dei paesi d'origine o le questioni legali sulla proprietà demaniale – sono sempre più criticate come pretesti neocoloniali.
La retorica della "conservazione" è spesso usata per mascherare la riluttanza a cedere potere e prestigio culturale.
Queste sfide non devono diventare una scusa per l'inazione, ma richiedono un dialogo collaborativo e rispettoso con le parti interessate africane.
Le prove presentate da Hicks, Pankhurst, Opoku ed altri dimostrano in modo inconfutabile che le collezioni africane nei musei occidentali sono profondamente radicate nella violenza, nella spoliazione e nel razzismo dell'era coloniale.
La presenza di resti umani, come documentato nei casi del genocidio Herero-Nama e nelle collezioni americane, porta questa verità al suo estremo più inquietante.
Una potente cornice etica oggi è necessaria per affrontare questa eredità, trasformando la restituzione in un passo necessario per la decolonizzazione culturale e la costruzione di relazioni internazionali più giuste.
L'argomento centrale è ormai chiaro: i reperti africani non sono un "patrimonio universale" custodito in luoghi neutri, ma un patrimonio conteso la cui giusta collocazione è nelle mani delle comunità che lo hanno creato e da cui è stato violentemente sottratto.
La loro restituzione non è una perdita per l'Occidente, ma un guadagno per la giustizia globale.



- Dan Hicks, The Brutish Museums: The Benin Bronzes, Colonial Violence and Cultural Restitution, Pluto Press, London 2020;

- Richard Pankhurst, «Maqdala and Its Loot: A Brief History», Link Ethiopia, https://www.linkethiopia.org/article/maqdala-and-its-loot-a-brief-history/;

- Kwame Opoku, «When will britain return Looted Ghanaian Artefacts? A History of British Looting of more than 100 Objects», AfricAvenir International, https://www.africavenir.org/kwame-opoku-when-will-britain-return-looted-ghanaian-artefacts-a-history-of-british-looting-of-more-gthan-100-objects;

- Ewelina U. Ochab, «The Herero-Nama Genocide: The Story of a Recognized Crime, Apologies Issued and Silence Ever Since», in Forbes, 24 maggio 2018;

- Felwine Sarr, Bénédicte Savoy, The Restitution of African Cultural Heritage. Toward a New Relational Ethics, novembre 2018, http://restitutionreport2018.com/sarr_savoy_en.pdf;

- "Should museums return their colonial artefacts?", in The Guardian, 29 giugno 2019;

- «The Battle to Get Europe to Return Thousands of Africa’s Stolen Artifacts Is Getting Complicated», Quartz Africa, 29 novembre 2019;

- «The Troubling Origins of the Skeletons in a New York Museum», in The New Yorker, 24 gennaio 2018.

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