di socialclimatejustice.blogspot.com
Introduzione
La lotta per la giustizia climatica si presenta, nel nostro tempo, come una necessità ineludibile e improrogabile, dovuta al precipitare del collasso climatico, alla devastazione senza precedenti di interi territori e all'intensificazione inarrestabile delle disuguaglianze sociali ed economiche.
In questo scenario, ogni tentativo di ridurre la complessità della crisi ecologica a una questione tecnica, o una sfida ingegneristica, costituisce un atto di colpevole rimozione politica che devia l'attenzione dalle sue radici sistemiche e funge anche da complice inazione finalizzata a perpetuare lo status quo.
L'ecologia è, e deve essere, conflitto: uno scontro frontale e intransigente con un modello economico globalizzato fondato sull'estrazione indiscriminata delle risorse e sullo sfruttamento di corpi e territori, che continua a svalutare, invisibilizzare e sfruttare il prezioso lavoro di cura e la vita stessa di intere comunità; con la complicità di Stati che, sotto il pretesto ingannevole della "transizione ecologica", impongono logiche neoliberali intrinsecamente autoritarie.
Per un'ecologia politica che sia autenticamente rivoluzionaria e profondamente radicata nei territori, bisogna ricordare che non può esserci giustizia climatica senza una lotta radicale per la giustizia sociale; né alcuna transizione ecologica degna di questo nome sarà possibile senza una rottura netta e definitiva con le logiche oppressive del capitalismo.
Ecologia senza Natura: decolonizzare il linguaggio
Il concetto stesso di "Natura" non è un dato oggettivo, bensì una costruzione ideologica complessa e storicamente determinata.
Filosofi e antropologi hanno mostrato come la natura, intesa come entità pura, separata, incontaminata e al di fuori della storia umana, non sia altro che un feticcio che maschera, perpetuandoli, i veri rapporti di potere e di dominio.
La retorica del "salvare la natura" si rivela dunque una scusa comoda e rassicurante per evitare di mettere in discussione i soggetti reali e i sistemi economici che hanno causato e continuano a perpetrare la devastazione.
La posta in gioco fondamentale non è la protezione di un'idea astratta di natura, ma la liberazione della vita, in tutte le sue manifestazioni, dal giogo del dominio e dello sfruttamento.
Questa prospettiva è stata ulteriormente approfondita da pensatori che hanno esplorato le società senza Stato, evidenziando rapporti non gerarchici e profondamente interconnessi e rigenerativi con l'ambiente circostante.
Si può dunque affermare che la "natura" altro non è che un'interpretazione culturale, un costrutto modellato dalle categorie del pensiero occidentale.
Liberare la vita dall'oppressione e dal dominio significa abbracciare una radicale pluralità di ecologie e cosmologie che hanno considerato l'ambiente come un complesso sistema di relazioni vitali, da rigenerare e rispettare profondamente.
In questa decostruzione del concetto di natura, si inserisce anche il contributo di coloro i quali hanno mostrato come le società cosiddette "primitive" che vivevano in armonia con le risorse disponibili, fossero delle "società dell'abbondanza".
Crisi ecologica come crisi del capitale: l'ecologia politica
L'ecologia politica si fonda su un assunto irrinunciabile e non negoziabile: il capitalismo è intrinsecamente incompatibile con la riproduzione della vita sul pianeta.
Siamo immersi nel Capitalocene, un'era geologica non definita genericamente dall'azione dell'umanità (Antropocene), ma piuttosto dalle dinamiche specifiche e dalle logiche espansive del capitale.
Il problema non risiede dunque nell'umanità in quanto specie, ma in un modello di sviluppo economico che ha elevato il profitto a valore supremo e imprescindibile, subordinando la riproduzione ecologica e la stessa sopravvivenza della vita sul pianeta ad una logica di accumulazione incessante e senza limiti.
La crisi ecologica non è perciò il risultato di un "fallimento" del sistema capitalista; al contrario, essa è il prodotto storico, straordinariamente "riuscito" della sua stessa logica interna: un'esternalità che il capitale è stato ben lieto di scaricare sulle spalle delle comunità più vulnerabili e sull'ambiente stesso, senza mai assumersene le responsabilità.
Questa critica radicale al capitalismo come motore primario della crisi ecologica è stata sviluppata con rigore anche da autori che hanno ripreso il concetto marxiano di "frattura metabolica" per descrivere la rottura del metabolismo tra società ed ecosistemi vitali causata dallo sviluppo storico del capitalismo.
Ecologia è conflitto: territori in lotta e resistenza dal basso
Dalle celebri Zone a Défendre (ZAD) in Francia al tenace movimento NoTAV in Italia, dai coraggiosi difensori indigeni della terra in America Latina e Africa, ai comitati locali che ovunque combattono contro inceneritori e grandi opere inutili: l'ecologia politica si manifesta in maniera tangibile come una lotta incessante e capillare per il controllo, la difesa e la riappropriazione dei territori.
Ogni grande opera infrastrutturale o industriale, lungi dall'essere sinonimo di progresso, si rivela piuttosto come un vero e proprio atto di guerra contro le comunità locali, un'imposizione dall'alto che devasta interi ecosistemi e sfilaccia i tessuti sociali.
Questa prospettiva è supportata dalle analisi che hanno teorizzato i Commons (beni comuni) come spazi vitali di resistenza, autogestione e riproduzione sociale, contrapposti alla logica della privatizzazione e dello sfruttamento.
Storici dell'ambiente hanno evidenziano la natura intrinsecamente politica, di classe e storica dei conflitti ambientali, mostrando come la difesa dell'ambiente sia indissolubilmente legata alla difesa dei diritti sociali e del lavoro.
Nominare il disastro: dall'antropocene al capitalocene, una questione di responsabilità
Il concetto di Antropocene, sebbene utile ad indicare l'impatto trasformativo dell'azione umana sul sistema Terra, tende a celare la storicità, la specificità e le responsabilità profondamente differenziate della devastazione ecologica e delle sue conseguenze.
Non siamo tutti, in egual misura, responsabili della crisi.
È il concetto di Capitalocene a nominare con precisione ciò che l'Antropocene vela: la crisi ecologica globale non è un'inevitabile conseguenza dell'esistenza umana, ma è stata generata in larga parte dal colonialismo, dall'industrializzazione sfrenata, dalle pratiche disumane della schiavitù e dall'istituzione della proprietà privata come principio ordinatore delle relazioni socio-ecologiche.
Questa lezione fondamentale perviene anche dai pensatori della "colonialità", i quali hanno dimostrato come il sistema-mondo moderno/coloniale abbia strutturato non solo la dominazione politica ed economica, ma anche una specifica relazione di sfruttamento di ecosistemi vitali.
Dobbiamo imparare a "stare con il problema", affrontandolo nella sua complessità storica e politica, anziché rimuoverlo o diluirne le responsabilità.
È più che mai necessario esplorare le connessioni tra le eredità coloniali e le nuove forme di dominazione, così come le radici coloniali della disuguaglianza globale e della crisi ecologica.
Altri contributi importanti provengono da autori che criticano la narrativa sulla crisi climatica nonché l'incapacità di rappresentare la vera portata del disastro, o, in precedenza, da chi ha esplorato lo "scambio ecologico coloniale".
Lavoro e ambiente: rompere il ricatto per riprendersi la dignità
"Se chiude l'impianto, perdiamo il lavoro". Questo è il ricatto per eccellenza, un'arma potente utilizzata dal capitale per dividere le lotte e mantenere i lavoratori in una posizione di subalternità.
Il sistema capitalista contrappone in maniera artificiosa e manipolatoria ambiente e occupazione, al fine di frammentare e indebolire ogni resistenza.
Ma un lavoro che distrugge la salute delle persone, devasta i territori e compromette irrimediabilmente il clima e il futuro delle prossime generazioni, non può e non deve essere considerato un lavoro degno.
È fondamentale riconoscere la dignità del lavoro quando esso è in armonia profonda con la riproduzione della vita e con il benessere socio-ecologico.
Serve una riconversione ecologica radicale dell'economia, non imposta dall'alto da élite tecnocratiche, ma guidata democraticamente dalle lavoratrici e dai lavoratori, cioè da chi produce e subisce le conseguenze delle contraddizioni del sistema.
Una tale riconversione implica una riorganizzazione profonda del lavoro, ispirata anche ai principi della decrescita, che mirano a superare la logica della crescita infinita e a riorientare l'attività umana verso la rigenerazione e la cura.
Un'ecologia del lavoro è dunque, in ultima analisi, una lotta di classe per la giustizia, la dignità e un futuro vivibile per tutte e tutti .
Ecologia femminista: cura, corpi, riproduzione e liberazione
L'ecologia è indissolubilmente legata alla riproduzione della vita in tutte le sue multiformi espressioni.
Come affermano con forza le correnti ecofemministe latinoamericane, il lavoro di cura – invisibilizzato, svalutato e brutalmente sfruttato all'interno del sistema capitalista/patriarcale – è parte integrante e fondamentale dell'equilibrio ecologico e sociale.
In un sistema che valorizza solo ciò che può essere mercificato e produrre profitto, la cura della persona, della comunità e dell'ambiente vengono sistematicamente marginalizzate.
Ma non c'è ecologia senza cura.
Molte autrici hanno mostrato il legame intrinseco e devastante tra la violenza sistemica contro le donne e la violenza perpetrata contro la terra, evidenziando come entrambe siano manifestazioni di una stessa logica patriarcale di dominio.
Altre hanno evidenziato come la mercificazione della natura e la sottomissione delle donne siano tuttora pilastri strutturali del sistema capitalista-patriarcale.
L'ecologia politica femminista è dunque una lotta per la liberazione del lavoro di cura, per la rottura definitiva del binarismo artificiale tra natura e cultura, per la costruzione di alleanze solide e trasversali tra i corpi, umani e non umani, che resistono alle logiche di sfruttamento e dominio, sottolineando il ruolo centrale della riproduzione sociale nella crisi ecologica.
Transizione o Rivoluzione?
contro il greenwashing e le false soluzioni
Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), la cosiddetta "tassonomia verde" dell'Unione Europea, le utopistiche "smart cities" e tutte le iniziative di "innovazione tecnologica green" sono poco più che maschere sapientemente elaborate, indossate da un capitalismo che cerca disperatamente di rilegittimarsi attraverso una vernice ecologica.
Il greenwashing è una narrazione abilmente costruita che mira a placare le coscienze pubbliche senza intaccare minimamente i meccanismi di fondo dello sfruttamento e dell'accumulazione.
Il capitalismo si è mostrato capace di sfruttare le crisi – inclusa quella climatica – per riproporsi in vesti nuove; le "false soluzioni verdi" sono spesso un mero prolungamento dello stesso sistema che ha generato il problema.
Una vera transizione ecologica deve essere popolare, guidata dal basso, e dunque intrinsecamente conflittuale.
Non si può e non ci si deve accontentare di riforme cosmetiche o di aggiustamenti marginali; l'obiettivo è costruire rotture radicali e strutturali con l'esistente, seguendo principi che mettano in discussione la logica stessa dell'accumulazione infinita e del consumo sfrenato.
Non saranno le auto elettriche, il nucleare di nuova generazione o le soluzioni tecnologiche illusorie a "salvarci dalla crisi", ma i blocchi stradali, le occupazioni, le assemblee popolari autodeterminate e tutte quelle forme di azione diretta che mettono in discussione, riscrivendole, le stesse regole del gioco.
Ecologia Urbana: abitare contro la gentrificazione e per la giustizia spaziale
Le città ad esempio, lungi dall'essere meri agglomerati di cemento e asfalto, sono un complesso ecosistema interconnesso, un luogo vitale di scambi e relazioni.
Tuttavia, oggi le città sono sempre più organizzate in funzione della rendita fondiaria e del profitto immobiliare.
Fenomeni come la gentrificazione, la proliferazione incontrollata di forme di turismo di massa, la cementificazione selvaggia sono espressioni dirette di un'urbanizzazione capitalista che distrugge le comunità esistenti, alienando spazi vitali e degradando irrimediabilmente l'ambiente urbano.
Un'ecologia politica urbana, dunque, rivendica con forza il diritto all'abitare per tutte e tutti, promuove la mobilità sostenibile e accessibile, la cura e la riappropriazione collettiva degli spazi pubblici, nonché la demercificazione radicale della città per renderla un luogo vivibile, inclusivo e giusto per tutti i suoi abitanti, non solo per i detentori di capitale.
Questa visione si nutre anche delle analisi sulle dinamiche urbane del capitale nonché delle proposte sull'ecologia sociale e le città libere, che mirano a una riorganizzazione decentralizzata e democratica degli insediamenti urbani.
Clima e Frontiere: ecofascismo e lotta antirazzista
I migranti climatici sono le prime vittime della "abbondanza" delle èlite occidentali, costruita sullo sfruttamento e sull'ingiustizia ecologica globale.
Alle migrazioni, l'Europa risponde con un'escalation di repressione: Frontex, muri fisici e burocratici, respingimenti violenti. Questa risposta è la manifestazione brutale di un sistema che scarica le proprie responsabilità sui gruppi subalterni.
Non può esserci giustizia ecologica senza una lotta intransigente contro il razzismo e la xenofobia.
Molti pensatori hanno esplorato in profondità le complesse interconnessioni tra razzismo sistemico, cambiamento climatico e crescente militarizzazione delle frontiere, mostrando come la crisi ecologica sia diventata un pretesto per nuove forme di controllo, sorveglianza e apartheid globale.
L'ecologia politica deve perciò essere intrinsecamente antirazzista e anticoloniale, riconoscendo che le radici della crisi migratoria sono le stesse della crisi ecologica, legando così le dinamiche coloniali e postcoloniali alle migrazioni contemporanee.
Verso un'ecologia rivoluzionaria
La trasformazione radicale della società richiede una profonda e coraggiosa "immaginazione politica".
Ciò significa provare ad andare oltre la semplice e pur necessaria denuncia delle ingiustizie: significa creare attivamente nuove soggettività politiche, alleanze multispecie per costruire spazi di autonomia e praticare un potere costituente dal basso.
Non è dunque sufficiente criticare l'esistente: è imperativo costruire alternative concrete e vivibili.
Le idee sull'azione diretta, sull'anarchia organizzativa e sulle forme di auto-organizzazione dal basso, così come le proposte di Zone Autonome Temporanee (TAZ), offrono spunti preziosi e concreti per la costruzione di nuovi mondi all'interno delle crepe del vecchio.
Serve una nuova Internazionale ecologista, femminista, decoloniale, operaia, capace di unire le forze e le lotte a livello globale, come testimoniato dall'attivismo incrollabile di milioni di giovani in tutto il mondo che incarnano questa speranza e questa urgenza.
Questa nuova internazionale deve essere un crocevia di saperi e pratiche, un luogo dove le lotte per i commons si incontrino con le critiche al neoliberismo.
Perché un altro mondo non solo è possibile; è, soprattutto, necessario per la sopravvivenza e la dignità di tutte e tutti.
Ecologia e liberazione: una prospettiva panafricanista e anticoloniale
Non si può comprendere appieno la crisi ecologica senza analizzarne le profonde radici, che affondando nel colonialismo storico e nel neocolonialismo contemporaneo.
La spoliazione delle terre, l'estrazione selvaggia delle risorse e la sottomissione dei popoli indigeni non sono fenomeni passati, ma pratiche che continuano a modellare il paesaggio globale e la crisi ambientale.
L'eredità dei pensatori panafricanisti ci insegna che la lotta per l'autodeterminazione dei popoli neri, colonizzati e diasporici, è intrinsecamente legata alla liberazione di terre e risorse dallo sfruttamento imperialista.
La resistenza ecologica è dunque, per sua natura, una resistenza anticoloniale.
Figure rivoluzionarie nel Sud globale hanno pagato con la vita il tentativo di sottrarre le risorse dei loro paesi al controllo delle potenze occidentali, dimostrando come la liberazione nazionale fosse soprattutto una questione di liberazione delle culture dal giogo coloniale, in un'ottica che è profondamente ecologica e che connette la lotta per la terra con la lotta per la cultura.
Questo significa smascherare le false soluzioni proposte da chi ha beneficiato e continua a beneficiare di questa rapina storica, per costruire un futuro basato sulla giustizia riparativa e sulla solidarietà internazionale.
Le prospettive sull'interconnessione tra capitalismo, colonialismo e resistenza dei lavoratori ci offrono ulteriori strumenti per decifrare queste dinamiche.
Diversi autori hanno contribuito a indagare il legame tra colonialismo, subalternità e ambiente, fornendo una prospettiva cruciale sull'impatto ecologico delle politiche neocoloniali.
Le lotte di liberazione nei Sud si connettono con le analisi storiche sulle origini della schiavitù e del razzismo, ponendo l'accento sulle radici storiche dell'Africa contemporanea, mentre altri contributi sulla devastazione delle popolazioni indigene nelle americhe e in Australia completano questo quadro desolante, chiamando ad un'azione riparatrice.
Cultura e Resistenza: la necessità di una trasformazione profonda
La rivoluzione ecologica non è dunque solo una questione di politiche economiche; è una profonda rivoluzione culturale e del pensiero.
Il sistema che ha generato la crisi ecologica è innanzitutto un sistema di idee, di valori, di modi di percepire il mondo e le relazioni con esso e con gli altri esseri viventi.
La critica radicale alle narrazioni dominanti è un atto di resistenza fondamentale.
Qui entrano in gioco le analisi sulla rappresentazione, sul potere dei media e sulla costruzione delle identità, che aiutano a comprendere come il razzismo, il colonialismo e l'imposizione di gerarchie ambientali siano stati interiorizzati e normalizzati attraverso la cultura dominante.
La letteratura ci offre uno sguardo crudo e necessario sulle conseguenze umane e ambientali della marginalizzazione e dello sfruttamento, rivelando come la violenza sul corpo e sull'anima sia intrinsecamente legata alla violenza sul territorio.
La decolonizzazione del sapere, dunque, non significa solo riconoscere altre epistemologie, ma anche smantellare quelle categorie occidentali che hanno giustificato lo sfruttamento dell'ambiente e dei popoli colonizzati.
È un processo che ci invita a ripensare radicalmente le nostre percezioni di progresso, benessere e successo, per costruire nuove narrazioni che mettano al centro la reciprocità, la cura, l'interdipendenza e la giustizia sociale; perché le narrazioni sul passato influenzano profondamente, ancora oggi, le nostre possibilità future.
Commenti
Posta un commento