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Voci del Dissenso
Nel panorama intellettuale africano del XX e XXI secolo, le opere di Mariama Bâ, Buchi Emecheta, Funmilayo Ransome-Kuti, Sylvia Tamale e Amina Mama costituiscono un corpus fondamentale per la comprensione delle complesse intersezioni tra genere, colonialismo, tradizione e modernità.
Attraverso la narrativa, l'attivismo e la teoria accademica, queste autrici hanno articolato critiche profonde alle strutture patriarcali e neocoloniali, offrendo al contempo visioni innovative per l'emancipazione delle donne africane.
Un'analisi intrecciata del loro pensiero rivela un dialogo vibrante e multisfaccettato, che spazia dalla denuncia delle ingiustizie domestiche alla teorizzazione di un femminismo intersezionale e decoloniale.
Sebbene operino in contesti e con metodologie differenti, le loro opere convergono su temi cruciali quali la critica alle istituzioni matrimoniali, la lotta per l'autodeterminazione economica e politica, e la necessità di forgiare un discorso femminista radicato nelle realtà del continente africano.
La narrativa come spazio di Critica Sociale
La scrittrice senegalese Mariama Bâ è stata una delle voci più influenti della letteratura africana e ha offerto una critica penetrante della poligamia e delle sue devastanti conseguenze emotive e sociali per le donne.
La sua opera, seppur composta da soli due romanzi, ha avuto un impatto rivoluzionario per la capacità di articolare una critica interna alle società islamiche e tradizionali dell'Africa occidentale dal punto di vista di una donna.
Il romanzo epistolare "Une si longue lettre" è il suo capolavoro.
La protagonista, Ramatoulaye Fall, scrive una lunga lettera alla sua amica d'infanzia, Aissatou, dopo la morte del marito.
L'opera è un'analisi lucida e commovente della condizione femminile.
Bâ esplora temi come la poligamia, vista non solo come una pratica religiosa ma come un'istituzione che infligge profonde ferite emotive e psicologiche, e la solidarietà femminile, incarnata dal legame tra Ramatoulaye e Aissatou, che scelgono percorsi diversi e risposte diverse al patriarcato, restando però unite dalla comprensione reciproca e dalla lotta per la propria individualità e autonomia.
Il romanzo è una potente meditazione sull'amore, l'amicizia, il tradimento e la resilienza.
Nel secondo romanzo "Un Chant écarlate", pubblicato postumo, l'autrice affronta la complessità dei matrimoni interculturali e la disillusione che ne può derivare.
L'opera racconta la storia di Mireille, una donna francese, e Ousmane, un uomo senegalese, il cui amore è schiacciato dal peso delle aspettative culturali e familiari.
Bâ critica sia il razzismo della famiglia francese sia l'incapacità della famiglia senegalese di accettare una straniera, mostrando come le donne, in particolare, diventino il campo di battaglia di questi conflitti culturali.
Il femminismo di Bâ è stato definito "womanist" o "femminismo materno".
Non è un rifiuto totale della tradizione, ma una critica costruttiva che cerca di riformare la società dall'interno.
L'autrice non condanna l'Islam "in sé", ma le interpretazioni patriarcali che ne vengono date per giustificare la sottomissione delle donne.
La sua opera ha dato voce e dignità all'esperienza interiore delle donne musulmane africane, aprendo uno spazio cruciale per il dibattito su genere e tradizione.
La scrittrice nigeriana Buchi Emecheta demistifica l'ideale della maternità come unica fonte di realizzazione per la donna africana e denuncia la doppia oppressione subita dalle donne nere in contesti sia africani che diasporici.
Emecheta critica ferocemente un sistema patriarcale che strumentalizza il corpo e il lavoro riproduttivo della donna, riducendola a un mero veicolo per la perpetuazione della linea di discendenza maschile.
La sua narrativa è una potente accusa contro le strutture che negano alle donne l'accesso all'istruzione, l'indipendenza economica e, in definitiva, la piena realizzazione.
Le opere di Buchi Emecheta hanno esplorato le lotte delle donne per l'autodeterminazione contro il "doppio giogo" del patriarcato nigeriano e del razzismo in Gran Bretagna.
La sua scrittura è spesso semi-autobiografica, cruda e diretta.
Il romanzo "Second-Class Citizen" racconta la storia di Adah, donna nigeriana che sogna di trasferirsi nel Regno Unito per trovare una vita migliore.
Una volta giunta a Londra, però, si scontra con una dura realtà: non è solo una cittadina di "seconda classe" a causa del razzismo della società britannica, ma anche all'interno della sua stessa casa, a causa del marito violento e tradizionalista.
L'opera è una potente denuncia dell'intersezione tra oppressione razziale e di genere.
In "The Joys of Motherhood", l'autrice formula una critica radicale all'istituzione della maternità nella società Igbo.
Il titolo, infatti, è profondamente ironico.
La protagonista, Nnu Ego, vive la sua intera esistenza nella convinzione che il suo valore come donna risieda unicamente nella capacità di generare figli maschi.
Sacrifica così ogni aspirazione personale, la sua salute e la sua felicità per questo ideale, solo per morire sola e dimenticata.
Emecheta mostra come la maternità, idealizzata dal patriarcato, possa diventare una forma di schiavitù che prosciuga la vita delle donne.
Emecheta ha avuto un rapporto complesso con il termine "femminismo", preferendo a volte concentrarsi sulla narrazione delle storie.
Tuttavia, la sua opera è intrinsecamente femminista.
La sua critica si concentra sugli aspetti economici e sociali della vita delle donne.
L'autrice analizza come il passaggio da un'economia rurale a una capitalista coloniale abbia ulteriormente eroso il potere e lo status delle donne.
Il suo lavoro ha messo in discussione le narrazioni nazionaliste che idealizzavano il passato pre-coloniale, mostrando come il patriarcato fosse profondamente radicato anche prima dell'arrivo degli europei.
Dall'attivismo alla teorizzazione
Funmilayo Ransome-Kuti ha incarnato la lotta femminista attraverso un attivismo politico diretto e instancabile.
Figura pionieristica del nazionalismo e del femminismo nigeriano, Ransome-Kuti ha tradotto la frustrazione delle donne in azione collettiva.
La sua leadership nell'Unione delle Donne di Abeokuta (Abeokuta Women's Union o AWU) è emblematica del suo approccio: unire le donne di diverse classi sociali contro le ingiustizie coloniali e patriarcali.
Ransome-Kuti ha articolato una forma di femminismo anti-coloniale che lega indissolubilmente la lotta per i diritti delle donne alla lotta per l'indipendenza nazionale.
La frase: "We had equality till Britain came" ("Avevamo l'uguaglianza finché non è arrivata la Gran Bretagna"), incapsula la sua critica al colonialismo come forza distruttrice delle strutture sociali preesistenti, in cui, a suo avviso, le donne godevano di maggiore potere e influenza.
La sua lotta contro le tasse inique imposte alle donne del mercato non era solo una questione economica, ma una rivendicazione del diritto delle donne alla rappresentanza politica.
Il suo pensiero rappresenta un ponte fondamentale tra la critica letteraria delle ingiustizie di genere e la formulazione di un'agenda politica femminista e decoloniale.
Il suo "capolavoro" è rappresentato dunque dalla creazione e la guida dell'AWU; questa organizzazione, che arrivò a contare oltre 20.000 membri non era solo un gruppo di pressione, ma una vera e propria scuola di democrazia e attivismo.
Ransome-Kuti utilizzava tattiche creative e potenti, tra cui manifestazioni di massa, petizioni e una forma di protesta tradizionale Yoruba chiamata "sitting on a man", che consisteva nel seguire e svergognare pubblicamente un uomo potente.
Queste proteste portarono, nel 1949, all'abdicazione temporanea dell'Alake, il capo locale, una vittoria senza precedenti.
L'attivista nigeriana collegava direttamente l'oppressione economica delle donne alla loro esclusione dal potere politico.
La sua visione era anti-coloniale e panafricanista, profondamente radicata in una prospettiva di genere: l'attivista vedeva la liberazione delle donne come una condizione necessaria per la vera indipendenza della nazione.
Ransome-Kuti ha sviluppato un femminismo indigeno e pragmatico.
La sua teoria si basava sull'idea che il colonialismo britannico, con le sue strutture patriarcali vittoriane, avesse peggiorato la condizione delle donne, erodendo il potere che esse detenevano nelle società pre-coloniali.
Il suo lavoro rappresenta un esempio fondamentale di come la teoria femminista possa emergere direttamente dalla pratica politica e dall'organizzazione comunitaria.
La Decostruzione del diritto e della sessualità
Sylvia Tamale, accademica e attivista ugandese, porta la critica femminista africana nel cuore delle istituzioni legali e dei discorsi sulla sessualità.
Il suo lavoro decostruisce le nozioni universalistiche dei diritti umani e del diritto, mostrando come queste siano spesso intrise di un'epistemologia occidentale che non tiene conto delle realtà e delle complessità africane.
Il suo lavoro teorico si fonda su un approccio intersezionale e postcoloniale al diritto.
Tamale sostiene che per comprendere e smantellare l'oppressione di genere in Africa, è necessario analizzare come il diritto coloniale abbia imposto nuove forme di patriarcato, codificando pratiche che hanno marginalizzato ulteriormente le donne.
La sua denuncia propone una "decolonizzazione della mente" e delle istituzioni, che passa attraverso il recupero e la rielaborazione creativa delle norme e dei valori culturali africani in una prospettiva femminista.
Tamale, inoltre, è una voce di primo piano nella difesa dei diritti delle minoranze sessuali, sostenendo che la liberazione di tutte le donne è intrinsecamente legata alla liberazione di tutte le soggettività oppresse.
Nel libro "When Hens Begin to Crow: Gender and Parliamentary Politics in Uganda", Tamale analizza l'ingresso delle donne nella politica formale in Uganda.
Pur riconoscendo l'importanza delle quote di genere, mostra come le parlamentari si trovino ancora a navigare in un'istituzione profondamente maschilista, che spesso le costringe a conformarsi a norme patriarcali per essere efficaci.
Nell'opera "African Sexualities: A Reader", da lei curata, Tamale mira a smantellare i miti e i tabù che circondano la sessualità in Africa.
Tamale sfida le narrazioni omofobiche e patriarcali che presentano le sessualità non conformi come "non africane", dimostrando storicamente e antropologicamente la diversità delle pratiche sessuali nel continente prima della colonizzazione.
L'autrice critica ferocemente le leggi omofobiche di eredità coloniale e promuove un approccio inclusivo e decolonizzato alla sessualità.
Il suo è un femminismo radicale, intersezionale e decoloniale.
Tamale critica il "legal transplant", ovvero l'importazione acritica di modelli legali occidentali in Africa, sostenendo che questi spesso non riescano a promuovere una vera giustizia di genere.
Propone invece di "scavare nel profondo" (digging deep) delle tradizioni e delle filosofie africane per trovare risorse per un discorso sui diritti umani che sia culturalmente pertinente ma criticamente femminista.
È una voce leader nella lotta per i diritti LGBTQIA+ nel continente, vedendo questa battaglia come parte integrante della più ampia lotta femminista contro il controllo patriarcale sui corpi e sulla sessualità.
Femminismo, militarismo e la critica alle Istituzioni
Amina Mama, intellettuale e attivista nigeriana-britannica, offre un quadro teorico che connette il femminismo alla critica del militarismo, dello statalismo e delle istituzioni globali.
Il suo lavoro si concentra su come il militarismo, sia in tempo di pace che di guerra, esacerbi le disuguaglianze di genere e perpetui una cultura della violenza che ha un impatto sproporzionato sulle donne.
L'autrice analizza la costruzione della soggettività femminile in contesti postcoloniali, evidenziando le complessità e le contraddizioni dell'identità.
Il suo contributo teorico più significativo risiede nell'analisi del femminismo come pratica intellettuale e politica all'interno delle istituzioni, in particolare dell'università.
Mama ha svolto un ruolo cruciale nella creazione e nel sostegno di spazi per gli studi di genere e femministi in Africa, vedendoli come siti strategici per la produzione di conoscenza critica e per la formazione di nuove generazioni di attiviste.
L'autrice si definisce esplicitamente una "femminista", rifiutando però l'idea che il femminismo sia un'importazione occidentale e rivendicandone le radici e le manifestazioni africane.
La sua analisi sul "patriarcato militarizzato" fornisce uno strumento cruciale per comprendere come le strutture di potere globali e locali si intreccino per mantenere l'oppressione delle donne.
Nell'opera "Beyond the Masks: Race, Gender and Subjectivity", Mama utilizza un approccio psicoanalitico e post-strutturalista per analizzare come le soggettività delle donne nere siano plasmate dalle intersezioni di razza e genere, criticando le teorie occidentali che spesso ignorano la specificità di queste esperienze.
Mama, che ha sviluppato il concetto di "patriarcato militarizzato", sostiene che in molti stati post-coloniali africani, l'esercito e una cultura della mascolinità militare dominino la vita politica e sociale.
Questo non solo porta a colpi di stato e conflitti, ma infonde nella società una logica di violenza, controllo e gerarchia che rafforza il patriarcato, con conseguenze devastanti per le donne.
Mama è una forte sostenitrice del ruolo strategico delle intellettuali femministe africane.
Ha lavorato instancabilmente per costruire istituzioni che potessero sostenere la ricerca e l'insegnamento femminista nel continente, come l'African Gender Institute (AGI) presso l'Università di Città del Capo.
La sua visione è quella di un femminismo autonomo, capace di produrre le proprie teorie e le proprie agende senza dipendere da quadri concettuali o finanziamenti occidentali.
La sua insistenza nell'identificarsi come "femminista" è un atto politico che mira a rivendicare il termine e a radicarlo nelle lunghe storie di resistenza delle donne africane.
Un dialogo continuo
L'intreccio del pensiero di queste autrici rivela la ricchezza e la diversità del femminismo africano.
Dalla denuncia letteraria di Bâ ed Emecheta, che ha reso visibili le dinamiche oppressive dello spazio privato, all'attivismo di Ransome-Kuti, che ha portato le rivendicazioni delle donne nell'arena pubblica, fino alle sofisticate analisi teoriche di Tamale e Mama, che decostruiscono le strutture legali, accademiche e militari, emerge un quadro coerente.
Questo quadro identifica il patriarcato e il (neo)colonialismo come i principali avversari e propone la solidarietà, la conoscenza critica e l'azione politica come strumenti di liberazione.
Il loro lavoro, letto in dialogo, non offre solo una genealogia del pensiero femminista africano, ma continua a fornire strumenti indispensabili per comprendere e affrontare le sfide contemporanee, dimostrando che la lotta per l'uguaglianza di genere in Africa è, ed è sempre stata, una lotta per la giustizia sociale, economica e politica.
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